Le cube

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Chiesa di San Pietro e Paolo

Chiesa di San Pietro e Paolo


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La cuba è una cappella paleocristiana o bizantina presente in Sicilia, dove le cube vennero erette da monaci basiliani a partire dal VII secolo. La Sicilia, pur se fedele a Roma, è stata storicamente un crocevia fra la chiesa d’oriente e quella d’occidente e soprattutto dopo la caduta dell’impero romano e le successive invasioni barbariche quando divenne territorio dell’Impero bizantino. La bizantinizzazione dell’isola proseguì con l’afflusso dal Nordafrica e dal medio oriente di profughi ortodossi scacciati dagli arabi. Nel 732 l’isola passò al patriarcato di Costantinopoli sino alla successiva occupazione musulmana della Sicilia. Diversi cenobi vennero fondati da monaci basiliani, generalmente ortodossi. Con gli arabi generalmente tolleranti furono anche i cenobi basiliani a mantenere viva la religione cristiana (specie nell’oriente dell’isola). La conquista normanna e la successiva riconversione al cristianesimo dell’isola fu inoltre agevolata dal profondo radicamento delle comunità monastiche di rito greco. La parola “cuba” ha una origine controversa ed è stata oggetto di studio. Secondo alcuni il termine deriva dal latino cupa (botte) e cupula (botticella) o dall’arabo kubba (fossa, deposito) o qubba (cupola), per altri direttamente dalla forma cubica dell’edificio. In siciliano si citano spesso le chiesette di campagna come cubole.
L’architettura ecclesiastica bizantina a differenza di quella romana, dove l’altare viene posto in fondo la navata principale a simboleggiare il passaggio tra la vita materiale terrena e la vita eterna, era rigidamente geometrica e basata su forme essenzialmente cubiche. Così le cube si presentavano a croce greca con pianta quadrata, cupola, ambiente centrale e solitamente tre absidi (a cellae trichorae o chiesa a trifoglio). L’abside posteriore aveva una apertura (spesso una bifora) sempre rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione, durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell’edificio attraverso l’apertura desse inizio alla Pasqua. Le altre due absidi contenevano ciascuna una piccola cappella. La struttura presentava tutti gli angoli superiori smussati, così si riusciva a far apparire come un unico corpo la semisferica cupola con il geometrico cubo costituito dall’edificio.

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Cuba di Santa Domenica

La cuba di Santa Domenica (vedi) è una cappella bizantina di Castiglione di Sicilia, forse eretta fra il VII secolo ed il IX secolo.
Chiamata anche « ‘a cubula» dai locali, la cuba di Santa Domenica è forse la più importante cuba bizantina presente in Sicilia, monumento nazionale dal 31 agosto del 1909 grazie allo studio del rudere effettuato da Sebastiano Agati.
L’edificio ha le caratteristiche tipiche della cuba, ovvero è rigidamente geometrico e basato su forme essenzialmente cubiche pur se allungato. Così Santa Domenica si presenta a croce latina con pianta quadrata, cupola e tre absidi. L’abside posteriore ha una bifora rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione, durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell’edificio attraverso l’apertura desse inizio alla Pasqua. Le altre due absidi contenevano ciascuna una piccola cappella. La cuba, costruita con pietra, blocchi lavici, malta e materiali in cotto internamente era ricca di affreschi di fattura bizantina, oggi perduti. La facciata è a due ordini. Nel primo vi è l’ingresso principale che è caratterizzato da un arco ed è di maggiori dimensioni rispetto agli altri due presenti ai lati. Nel secondo ordine della facciata si trovano due finestre ed una trifora di dimensioni considerevoli. Secondo alcuni accertamenti recenti[2] la facciata sarebbe stata preceduta da un portico o nartece per penitenti e catecumeni, mentre il tetto e la pavimentazione sarebbero stati in cotto. Le finestre hanno una particolare forma a «testa di chiodo». Nell’interno a tre navate, divise da una serie di pilastri quadrangolari, la cupola centrale è arricchita da volte a crociera e da minime tracce degli intonaci originali. Dopo anni di degrado la chiesa è stata oggetto di restauro negli ultimi anni. Dopo i restauri sono stati rinvenuti due scheletri di probabile datazione bizantina che farebbe supporre la presenza di un attiguo cimitero basiliano.

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Cuba di Santo Stefano

Un antico rudere di epoca bizantina, la cuba di Santo Stefano (vedi),  si trova in contrada San Michele a Dagala del Re, frazione di Santa Venerina,  alle spalle della chiesa di Bongiardo. Una strada interpoderale porta fino ad un querceto che nasconde l’antico rudere. E’ comunque difficilmente raggiungibile data la mancanza di qualsiasi segnaletica e soprattutto perché si trova in una proprietà privata.

Coperto di edera e di altra vegetazione spontanea, il rudere conserva una buona parte della sua struttura muraria.
La sua scoperta, nei tempi moderni, appartiene a Stefano Bottari, che pubblicava un testo con la descrizione del rudere nella Rivista di Archeologia Cristiana nel 1944-45. Qualche anno dopo Biagio Pace, nella sua monumentale opera “Arte e civiltà della Sicilia antica” fa riferimento alla scoperta di Bottari.
Nel 1959 viene riscoperta dall’allora sovrintendente ai monumenti per la Sicilia Orientale, l’architetto Pietro Lojacono. Mezz’anno dopo pubblicava nella rivista “Tecnica e Ricostruzione” un resoconto di “come avvenne la scoperta della cella trichora” e dei “lavori per mettere in luce il monumento”. Agli occhi di Lojacono il rudere si presentava come “un deposito di pietrame gettatovi dai contadini per la bonifica dei terreni circostanti”. Procedette ai lavori di sterro e di consolidamento delle murature pericolanti. Fece le misurazioni precise ed emesse delle ipotesi sui aspetti costruttivi, nonché sul suo aspetto originale.
In seguito nacque un interesse per il rudere ed il suo recupero. Un progetto per il recupero è stato elaborato dall’architetto Brocato. Al comune di Santa Venerina ci sono intenzioni di acquistare il terreno e realizzare il progetto di recupero, destinando l’area circostante a un museo di mineralogia.
Nonostante tanti anni dalla presa di coscienza del valore del rudere, esso si trova ancora in stato di abbandono. Non è possibile scattare una foto del rudere intero per illustrare la sua monumentalità e l’armonia delle parti, così come lo si può osservare sul posto; esso è immerso nella vegetazione. Però alcuni particolari danno un’idea chiara dello stato del monumento.
L’ingresso, lascia vedere di quanto sia interrato l’edificio. I muri delle absidi danno un’idea dell’ampiezza del naos. Nel nartece possiamo individuare la volta a botte che copriva i braci laterali. Nonostante il rovinoso stato, la finestra dell’abside est ci suggerisce che la sua forma era una bifora o forse una trifora.
Un albero nel nartece, un pezzo di muro in una cornice troppo romantica – sono le espressioni dello stato in cui si trova il monumento.
Comunque per avere un’immagine concludente è opportuno procedere alla presentazione della pianta che è stato possibile rilevare in quanto i muri perimetrali a varie altezze sono tutti presenti.
L’edificio e composto da due parti: una parte trilobata ed uno spazio rettangolare di dimensioni impressionanti. La parte trilobata costituisce la cella trichora.
Una trichora ben conservata è la cuba di Malvagna nella vale dell’Alcantara. Si notano bene le abside e la cupola.
La chiesa di Dagala si distingue dalle altre trichore per le sue armoniose proporzioni, con ampie absidi laterali, leggermente più piccole dell’abside centrale. Del tutto particolare è e il nartece molto ampio, diviso in tre parti marcati da volte a botte. Nell’estremità sinistra del nartece c’è una cisterna con parete doppio, è una modifica ulteriore che portò alla chiusura di uno degli ingressi del prospetto. Il lato opposto poteva essere chiuso per necessità funzionali. Durante i lavori di rimozione delle macerie e del pietrame, effettuate da Lojacono, non fu trovato alcun pavimento primitivo, invece fu trovato nella zona centrale del nartece un pozzetto formato da pietre laviche che doveva servire da fonte battesimale.
La muratura è fatta con la pietra lavica e calce con l’integrazione di conci di cotto. E’ un tipo di muratura caratteristico per le costruzioni della valle d’Alcantara coeve. Nei muri del nartece erano inserite piccole anforette in posizione verticale e orizontale (con la bocca verso l’esterno). Non è del tutto chiaro la loro funzione. Comunque, la presenza del cotto nella muratura contribuisce a mantenere asciutto le pareti affrescate.
La copertura della chiesa comprendeva la cupola sopra il naos e tre volte a botte per il nartece, che segnavano la divisione di questo spazio in tre elementi. Le due volte laterali sono indicate dalla conclusione dei muri in altezza in forma di arco ed una piccola parte della volta rimasta. La volta a botte centrale è più una conclusione logica che un indizio esatto degli elementi strutturali rimasti.
L’architetto Lojacono nel studiare il rudere ricostruì l’aspetto originale con due sezioni: una longitudinale che mostra la disposizione degli spazi lungo l’asse della chiesa e altra del nartece che illustra l’articolazione di questo elemento particolare per la chiesa di Dagala.
L’aspetto esteriore visto da nord-est da un punto più alto dà un’idea dell’insieme.
Non c’è dubbio sull’epoca alla quale ascrivere l’edificio. Si tratta del periodo prearabo, tra la seconda metà del VII secolo e inizio del IX, più probabile verso la fine dell’intervallo indicato. Quanto riguarda il nartece, sono state avanzate ipotesi che sia una aggiunta posteriore del periodo normanno. E possibile, ma poteva benissimo essere contemporaneo con la parte centrale della chiesa, in quanto un nartece, pronao, è un accessorio utile e indispensabile delle chiese bizantine. Le dimensioni sproporzionate del nartece sembrano rispondere a una propensione per sottolineare l’importanza, ma osserviamo che rispondeva a concrete esigenze pratiche. Si nota chiaramente che il nartece e un corpo giustapposto alle pareti delle abside; delle fessure chiare si vedono sulla linea di giunzione tra il nartece e le abside. Il tipo di muratura, pietra lavica di dimensioni diversi legati con la calce e l’aggiunta di cocci di cotto, è la stessa. Il nartece, probabilmente costituisce una aggiunta nei tempi coevi alla costruzione della trichora stessa.
Il monastero era con certezza uno basiliano alla data della sua fondazione, dato il periodo di costruzione e la sua forma architettonica. Sembra che era attivo nell’inizio del XII secolo, un secolo di grande fiorire del monachesimo basiliano. Possibilmente venne affrescato come successe a Nunziatella, ma dei colori si è persa qualsiasi traccia per causa della caduta del intonaco. Il rapido declino dei monasteri basiliani dalla fine del XII secolo, favorì il passaggio della chiesa al monastero benedettino che venne ricordato nella “Cronaca” di Nicolò Speciale nell’occasione dell’eruzione dell’Etna del 1284, quando,molto probabile fu abbandonato, forse per sempre.

Nello stato attuale non si può parlare di qualsiasi fruizione, dato lo stato di abbandono e di trovarsi in proprietà privata. In attesa della realizzazione dei progetti interessanti per il recupero che per il loro costo possono ancora ritardare per un po’, una contenuta azione di pulizia e di assicurazione dell’agibilità potrebbe ridare vita al rudere. Operazioni per niente facili quelle di pulizia, si tratta di alberi cresciuti dentro la chiesa, di tanta vegetazione che con le loro radici distruggeranno la solidità dei muri di basalto e calce, le stesse radici che in certe parti tengono ancora insieme le pietre. Un’operazione decisiva di liberazione dei muri di vegetazione con la necessaria consolidazione si impone. Il concetto ottocentesco del rudere coperto da vegetazione, condiviso anche da Lojacono più di quarant’anni fa che cercò di rispettare “finchè è stato possibile, la veste di edera, che conferisce al rudere un aspetto pittoresco e romantico” non aiuterebbe molto alla fruizione del rudere come insieme di indizi della sua forma originaria. Un azione congiunta di tutti i fattori che condividono l’importanza del rudere e la necessità di trasmetterlo ai posteri, potrebbe essere utile nel trovare forze e mezzi per il recupero.

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Vergine con bambino. Santuario di Vena

Il Santuario mariano di Vena (vedi) custodisce una immagine antica della Vergine col Bambino. Una tavola spessa di cm. 3, di dimensioni cm. 170 x 67. Si ritiene che sia una icona bizantina del VI secolo. E’ un’immagine della Vergine di tipo Odigitria. Il disegno e la trattazione del colore rende difficilmente ogni raffronto con altri dipinti antichi conosciuti dell’area bizantina. E’ un dipinto molto venerato a Vena, in Provincia di Catania, e nei dintorni. Con questo dipinto, storia, legenda e tradizione si mescolano nel sentire della gente del paese e si trasforma in atto di fede, di verità santa, ed acquista valore simbolico che irradia un fascino sui paesi lontani e vicini. Tre sono i pilastri della storia di Vena: un monastero fondato da Gregorio Magno, un’icona che il pontefice donò al monastero ed un poeta che dedicò parole d’amore al santo dipinto.
Nella ricca corrispondenza di Gregorio Magno molte lettere riguardano la Sicilia, dove lui fondo sei monasteri, probabilmente nel 575. Tra i riferimenti ai monasteri siciliani c’è uno dedicato al monastero Sant’Andrea sopra Mascali.
La legenda narra che i frati diretti da Mascali verso le terre indicati da Gregorio, i possedimenti di Silvia, la madre di Gregorio, portavano con loro l’icona della Vergine. Per volere del cielo i frati vengono fermati dal peso della tavola. Trovano una fonte d’acqua e riconoscono in essa un segno dall’alto, fondano il monastero. Era l’anno 597. Molto tempo dopo la legenda verrà sancita con una lapide recante un’iscrizione latina : “Qui l’immagine della Vergine si ferma, dà l’acqua, vuole un tempio. San Gregorio dona gli edifici (chiesa e monastero) e Silvia il bosco”.
Teofane Cerameo, scrittore e predicatore, formatosi nel monastero Sant’Andrea fondato da Gregorio Magno “sopra Mascali”, torna in seguito ed in una omelia chiama l’immagine della Vergine che lui conosceva dai tempi di studio “non manufatta”. Questa è un’altra conferma della presenza dell’icona nel monastero. E vero che la figura di Teofane Cerameo suscita molte controversie. E’ possibile che sia esistito più di uno con questo nome dato che i testi del Cerameo fanno riferimenti riscontrabili nell’età normanna, o che al corpo dei testi del celebre scrittore del IX secolo, che interessa la nostra storia, siano aggiunti altri testi in epoche posteriori dagli anonimi, contribuendo così al mistero del personaggio in questione. Per la nostra storia importa la menzione dell’esistenza del dipinto della Vergine nel monastero Sant’Andrea nell’età prearaba.
Il monastero sorgeva vicino all’attuale Santuario, i suoi resti erano visibili all’inizio del ‘900. Non ci sono informazioni del monastero dopo il Cerameo. A quel tempo il monastero era basiliano, lo si deduce dalle omelie dello stesso scrittore. E’ possibile che il monastero è stato abbandonato dopo l’epoca normanna con il declino dei monasteri basiliani oppure in seguito alle minacce dell’Etna. Verso il 1500 e già Abbazia di Santa Maria della Vena. Quale sia stato il destino del dipinto in tanti secoli di buio della memoria non si sa. Don Paolo Cannavò, nel suo ampio volume dedicato al Santuario, trova una analogia, ricordando la legenda della Madonna di Guadalupe, un’icona donata da Gregorio Magno a S. Leonardo, vescovo di Seviglia, e nascosta all’incalzare del pericolo arabo, viene miracolosamente conservata e riscoperta circa seicento anni dopo.
Non ha molta importanza se il dipinto è proprio quello donato da Gregorio Magno e cantato da Teofane Cerameo o è un dipinto del XIII secolo, opera di un pittore locale, dato il modo di modellare la materia pittorica. Questo dipinto si identifica con la fede popolare in una tale misura da acquistare potere di sottrarsi alla qualsiasi indagine scientifica, come un oggetto sacro e santo che non accetta altro che la venerazione. Questo è il vero significato del dipinto.
Il Santuario di Vena, più che un monumento storico, è una testimonianza di fede in un passato lontano simboleggiato da un oggetto di culto, collegato alla sua provenienza bizantina come al modo di venerare le immagini, caratteristico all’Oriente cristiano.

 

27-01-2014 15-35-04

La Nunziatella

La Chiesa S. Maria Annunziata (vedi) si trova non lontano dalla matrice S. Maria dell’Itria in via Etnea a Nunziata, frazione di Mascali(CT). Chiamata anche “Nunziatella”, la chiesa ha acquisito una certa notorietà grazie agli affreschi bizantini rinvenuti nell’abside.
La chiesa ha la forma basilicale con l’abside orientata all’Ovest. Prospetto principale: un portone d’ingresso ed una finestra sovrastante; in alto il campanile a vela con due volute raccordanti. Prospetto laterale Sud si affaccia sulla strada, ha in alto tre finestre, sull’estrema sinistra una finestra più bassa, un’apertura d’ingresso laterale e tracce di un’altra apertura più bassa a tutto sesto. Ad Ovest la navata si conclude con un’abside.
L’attuale forma basilicale risale al periodo normanno. A questo indica lo studio comparato degli affreschi del sito con dipinti coevi.
La chiesa apparteneva forse ad un monastero basiliano che riuscì a coagulare un piccolo centro abitato dandoli il suo nome.
L’esecuzione degli affreschi è ascrivibile alla seconda metà del XII secolo e sono un esempio di pura pittura bizantina; affinità tecniche con gli affreschi eseguiti nell’Impero bizantino verso la metà di quel secolo.
Poche sono le informazioni sulla storia della Nunziatella nei secoli successivi. Sappiamo che divenne un priorato forse già nel seicento e che la comunità sorta attorno la chiesa era cresciuta fino a uguagliare Mascali da dove provenivano gli abitanti di Nunziata. Nel XX secolo appariva come una modesta chiesa ottocentesca, il suo passato bizantino era rimasto nascosto sotto l’intonaco.
Fu il Professore Enzo Maganuco, docente di Storia dell’Arte dell’Ateneo di Messina, che scoprì nel 1939 l’esistenza di affreschi bizantini sotto l’intonaco bianco delle pareti. Pur avendo visto solo un piccolo frammento dell’antico dipinto, fecce delle osservazioni giuste sull’epoca, sull’esecuzione e soprattutto sul valore artistico dei dipinti nascosti.
Lavori di restauro sono stati intrapresi dalla Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Catania negli anni 1985 – 1990. La rimozione dell’intonaco ha permesso vedere la struttura muraria antica. La muratura presenta due tecniche: la parte inferiore – grossi conci di pietra squadrati ed intercalati da filari regolari di elementi di cotto (tipo di muratura caratteristico per le chiese greche e ortodosse), la parte superiore è composta da pietre piccole con maggiore quantità di malta ( si tratta di un innalzamento ulteriore). In seguito agli scavi interni è rinvenuto un impianto quadrato con l’abside più stretta rispetto all’attuale. Ciò suggerisce che la chiesa attuale è stata costruita sul posto di un’altra più antica.
Di rilevanza maggiore è la scoperta di frammenti di affresco nella conca dell’abside e sulla parete sud. Questi affreschi sono di grande valore artistico e storico. La conca dell’abside necessita di ulteriori interventi di restauro ed è possibile far rinvenire altri particolari ancora nascosti sotto l’intonaco. Ma già la parte visibile è sufficiente per fornire un idea precisa sul valore artistico e storico, nonché sul programma iconografico.
Nel 1939 il professore Enzo Maganuco, docente di Storia dell’Arte dell’Ateneo di Messina, in seguito ad un sopralluogo nelle chiese superstite dopo la colata lavica del 1928 scopri nella chiesa della Nunziatella un “piccolo affresco che trovasi all’inizio del lato destro della calotta absidale”. Il Professore pensò che si trattava di un ciclo di immagini “della vita di Cristo di cui questo frammento sarebbe un passo iniziale, cioè Cristo tra i dottori”.
In seguito ai lavori di restauro sono stati portati alla luci vari frammenti di affresco nella conca dell’abside. I frammenti del dipinto rinvenuti forniscono informazioni certi sulla composizione e sul valore artistico, e storico, nonché sul significato religioso del dipinto.
Due frammenti di affresco si trovano ai lati sotto la conca dell’abside. Sembra che la conca forma un registro distinto nella decorazione dell’abside. I due frammenti nella parte inferiore sembrano far parte di due composizioni distinte che insieme ad altre decoravano la parete dell’abside. E’ possibile che si tratti di immagini a carattere narrativo con significato teologico. Si tratta della testa nimbata di un santo al margine sinistro dell’abside e sul lato opposto la Madre di Dio col Bambino. Maganuco non ha visto il volto della Vergine e per questo pensò al tema Cristo tra i dottori; a questo lo spinse il volto del Cristo giovinetto. Nell’arte bizantina il Bambino è rappresentato nella sua natura divina e ci appare come Signore benedicente e portatore della Legge, di conseguenza il viso non è di un bambino, ma un volto maturo, pieno di saggezza divina.
La posizione di questo particolare sulla parete dell’abside fa supporre che faceva parte di una composizione nella quale occupava la parte destra in alto. Poteva rappresentare l’Adorazione dei Magi – l’immagine che ha come significato teologico l’incarnazione del Verbo– un tema ricorrente per la zona del presbiterio. Quanto riguarda la testa nimbata nella parte sinistra dell’abside è difficile risalire al significato della composizione della quale faceva parte.
Nella conca dell’abside osserviamo il Cristo Pantocratore con il nimbo crocifero, benedice con la mano destra e regge con la sinistra il libro. In basso alla sinistra di Cristo un busto con la testa nimbata di un angelo ben visibile; in alto alla destra di Cristo un angelo alato e con le mani coperte in segno di riverenza di fronte al Cristo.
I frammenti di affresco rinvenuti per prima cosa indicano che si tratta di pittura bizantina nella sua forma pura greca dell’epoca comnena, XII secolo. Con questi affreschi ci troviamo di fronte alla vera arte bizantina del suo periodo classico.
Nelle chiese bizantine l’immagine del Pantocratore occupa di solito la cupola, il posto più alto nella chiesa bizantina. In Italia nelle chiese di tipo basilicale, in mancanza della cupola il suo posto è nell’abside: busto nella cattedrale di Cefalù (mosaico costantinopolitano), in trono nell’abside a Sant’Angelo in Formis e qui a Nunziatella.
Il volto di Cristo di Nunziatella lo troviamo più vicino a quello della chiesa San Pantelimone di Nérézi (Macedonia) costruita nel 1164. La caratteristica principale di quel periodo sta in una stilizzazione avanzata delle pieghe dei vestimenti, un linearismo armonioso che tende ad appiattire i volumi (esempio). Nello stesso tempo, i dipinti conservano i tratti delicati dei volti greci con una certa libertà di movimento e concentrazione psicologica. Sul piano dello stile del trattamento delle forme, le proporzioni, l’armonia delle linee e dei dettagli, i dipinti della Nunziatella appartengono all’arte greca del XII secolo
E’ possibile una ricostruzione della composizione della conca dell’abside. Sono visibili il Cristo Pantocratore, i cuscini del trono sul quale siede, i piedi che poggiano sull’ovale che racchiude l’intera figura, un Angelo alato che sorregge con un ala l’ovale in alto a sinistra, mentre altro in basso a destra svolge una funzione similare. Sul intradosso un nastro a zig-zag delimita la composizione. Riassumendo questi elementi in un disegno e completandolo, con la consapevolezza che la composizione doveva essere simmetria, otteniamo la ricostruzione della composizione.
Il particolare dell’affresco rinvenuto sulla parete Sud, scoperto durante i lavori di restauro, costituisce un argomento forte in favore di un programma iconografico esteso a tutto l’interno della chiesa del XII secolo; esso si trova a destra di un’apertura con l’arco a tutto sesto (parete sud). L’attenta osservazione dei colori di questo frammento di affresco e dell’esecuzione tecnica dà la certezza che sia eseguito dagli stessi pittori che hanno affrescato l’abside. Questo vuol dire che la forma basilicale della chiesa esisteva al tempo dell’esecuzione degli affreschi.

21-01-2014 17-19-28

Cappella Bonajuto

A Catania del periodo bizantino sono rimasti ricordi di alcune chiese. Colate laviche e terremoti, specialmente quello del 1693, hanno distrutto la maggior parte delle testimonianze dell’epoca bizantina. Si è salvato la Cappella Bonaiuto (vedi), detta del Salvatorello.
La Cappella Binajuto o del Salvaterello si trova nel centro storico di Catania, inglobato nel settecentesco palazzo Bonaiuto in via Bonaiuto 7 ed è l’unico monumento bizantino inserito nel circuito culturale e turistico di Catania.
Altre strutture architettoniche sono state aggiunte nel XV secolo. Nella sistemazione del settecento è stato chiuso l’ingresso originale, lato sud, e aperto uno nell’abside ovest; l’abside nord è stata chiusa parzialmente con un muro facente parte di un’altra fabbrica.
Attualmente la chiesa è interrata a due metri dal livello della strada, come indica la sezione.
Non è conosciuto il titolo originario, ma si riteneva verso il ‘700 che fosse dedicata al SS Salvatore.
E’ stata ritenuta, dai scrittori catanesi, un Pantheon pagano, un sepolcro romano o un elemento di terme.
Nella seconda metà del XVIII secolo è la chiesa della casa Bonaiuto, viene trasformata in cappella mortuaria.
Negli anni trenta del secolo scorso la Soprintendenza di Catania esegui lavori di restauro sotto la direzione del arch. Sebastiano Agati, continuati dall’arch. Piero Gazzola che operò la demolizione ed il ripristino delle strutture originare del monumento.
L’edificio è una cella trichora, costituita da un vano centrale quadrato di m. 8,1 per lato coperto da una volta a vela a tutto sesto a circa 10 m, tre grandi nicchioni, nel quarto lato a mezzogiorno si trovava l’ingresso.
La volta ha un occhio di luce in chiave, aperto in un epoca relativamente recente. Quattro appoggi particolari sostengono la volta, sotto di essi – quattro colonne ioniche con ruolo decorativo e non di sostegno. Si conserva una delle basi e porzioni del capitello. La volta attuale è rifatta, riprendendo la geometria di quella originaria.
La chiesa è stata costruita con materiale di recupero romano. Forse l’impiego decorativo delle colonne ioniche fosse stimolato dall’esistenza di elementi architettonici degli ruderi antichi.
La pavimentazione originaria – basalto lavico, parte della quale è stata individuata in un locale adiacente.
L’edificio è datato a partire dal VI secolo. Probabilmente si deve posticipare questa data verso la seconda meta del secolo successivo. Per tutto il VI e inizio del VII secolo Sicilia prende ispirazione da Roma ed è alquanto improbabile che il tipo di chiesa a pianta centrale, che proprio nel VI secolo si affermava come elemento distintivo della cristianità orientale, poteva essere realizzata in Sicilia. Invece a partire del primo quarto del VII secolo la Sicilia conosce la prima grande ondata di immigrazione dell’elemento etnico greco e di rito orientale. Solo in seguito a questo fenomeno in Sicilia si diffonde la pianta centrale trilobata. Di dimensioni ridotte, la Cella Trichora, come viene riconosciuta dalla storiografia, è riscontrabile nell’Africa del Nord da dove viene portata nell’Isola.
Menzioni della chiesa si ha a partire del XVII secolo. La vediamo indicato in un disegno, la pianta di Catania, di G. Merelli tra 1676 e il 1677. Cent’anni più tardi viene menzionata da J. Houel nel Catalogue Raisoné del Voyage Pittoresque des iles de Sicilie, de Malte et de Lipari, Paris, 1782; un guazzo di J. Houel si trova al Louvre – la pianta e la vista interna della chiesa del palazzo Bonaiuto. Già a quel tempo la chiesa era trasformata in cappella privata della famiglia Bonaiuto. I primi scavi archeologici sono stati eseguiti sotto la direzione del principe Biscari nel terzo quarto del XVIII secolo e documentati da Meyer.
La Capella Bonaiuto è gestita dalla società Cappella Bonaiuto di Salvatore Bonaiuto & c. s.a.s che ha curato il restauro; destinata ad attività polivalente, rivolta principalmente alla realizzazione di servizi nei settori della fruizione dei beni culturali.

Le terme della Rotonda

Le terme della Rotonda

Le Terme della Rotonda (vedi) sono delle strutture termali di epoca romana, datate al I-II secolo d.C. e site nel centro storico di Catania. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. Della decorazione pittorica di quella che fu la chiesa rimangono poche tracce. Le più antiche identificate rappresentano i Santi vescovi Leone e Nicola, a decorazione degli stipiti dell’arco ovest del presbiterio; una Madonna in Trono sulla parete orientale dello stesso ambiente; una Madonna in Trono con Bambino. Tali affreschi si possono identificare quali appartenenti al periodo compreso tra il XII e il XIV secolo.

Cuba di Malvagna

Cuba di Malvagna

La Cuba di Malvagna (vedi), edificata nella metà del VII secolo, mostra evidenti imprecisioni costruttive ed una insufficiente cura nell’impostazione simmetrica rispetto ad  altre cube della zona etnea. Né la porta di ingresso, infatti, né l’abside sul lato est si trovano in asse e le rispettive pareti risultano avere differenti dimensioni. Nell’abside centrale si evidenziano due scarne aperture sovrapposte mentre i profili dei catini absidali, tutti dotati di riseghe alle imposte, alternano mattoni laterizi rossastri a conci di pietra lavica, notoriamente assai diffusa in tutta l’area etnea. Lo stesso materiale è stato inoltre utilizzato per l’edificazione della cupola la quale, realizzata con sistema costruttivo autoportante ad anelli concentrici, si raccorda alla pianta quadrata dell’edificio tramite conchette angolari.

S. Maria la Candelora

S. Maria la Candelora. Foto di Michele Torrisi.

La chiesa di Gesù e Maria, o del Salvatore  (vedi), o più remotamente chiamata di Santa Maria la Candelora o di Santa Maria dei Cerei, è un insigne monumento bizantino (VI° – IX° secolo) che si trova nel comune di Rometta. Questa chiesa pare facesse parte di un antichissimo monastero di suore clarisse venute a Rometta nel 1320 e a suo ricordo è rimasta la denominazione popolare di “badia vecchia”. L’edificio antico di questo monastero, che più non c’è, si sviluppava fino alla vicina “porta terra” (o porta Milazzo). Pare che queste suore siano venute a Rometta nel 1320; nel 1342 la regina Elisabetta chiese al Pontefice un breve per il trasferimento del monastero a Messina che avvenne nel 1345 e qui prese il nome di Monastero di Basicò, dal nome della strada (da “Notizie storiche di Rometta ” di Nicolò Saija).

 

Chiesa dei santi Pietro e Paolo

Chiesa dei santi Pietro e Paolo

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò (vedi) si trova in Sicilia, in provincia di Messina, nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. È facilmente raggiungibile percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Raggiunto e superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all’Abbazia. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.La chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò si trova in Sicilia, in provincia di Messina, nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. È facilmente raggiungibile percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Raggiunto e superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all’Abbazia. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.

Cuba Imbisci

Cuba Imbisci

Nessun dato storico aiuta a collocare cronologicamente la Cuba Imbisci (vedi). La piccola chiesa di contrada Imbischi sorge limitrofa al corso del fiume Alcantara. Tutt’intorno si intravedono resti architettonici reimpiegati in muretti a secco o in edifici rurali. Questo riutilizzo testimonierebbe un’ampia frequentazione dei luoghi ove sorgeva la chiesetta che certamente non giaceva isolata, ma inserita in un contesto abitativo ormai scomparso. L’edificio è orientato ovest/est e possiede una pianta rettangolare. Ad oriente si trova un abside semicircolare con catino emisferico. Il fianco settentrionale è conservato fino all’innesto del soffitto, al contrario di quello meridionale, del quale rimangono solo pochissime assise appena affioranti dall’attuale piano di calpestio. Nessun prospetto si conserva ad occidente.Il piccolo edificio sacro si componeva, all’interno, di un’unica navata, la cui copertura doveva essere probabilmente a volta. All’esterno, le fiancate laterali erano contraffortate e di tali semi pilastri oggi sopravvivono solo quelli settentrionali in numero di tre. Ancora, la lunga parete settentrionale presenta due finestre a forte strombo esterno, internamente caratterizzate da archetti a testa di chiodo. Si tratta di un elemento che, insieme con i contrafforti esterni, accomuna la chiesetta di Imbischi con la Cuba di S. Domenica presso Castiglione. A livello dell’imposta, si possono osservare altre due finestre rettangolari. L’abside è composto da conci di pietra lavica squadrati. La Fronte dell’abside è formata da un ampio arco a tutto sesto composto da blocchi di pietra lavica squadrata non inframmezzata da laterizi e poggiante lateralmente su due pilastrini sormontati da mensole. Non esistono dati certi che permettano una precisa collocazione cronologica della struttura. Si trattava certamente di una chiesa al servizio di una comunità rurale che viveva nei pressi del fiume Alcantara. Attraverso confronti tipologici con alcune strutture consimili, come la vicina Cuba di Castiglione o la basilichetta di Priolo, si potrebbe azzardare una collocazione temporale compresa tra il V/VI e l’VIII sec. d.C. Agli inizi del XX sec. fu Paolo Orsi ad interessarsi di contrada Imbischi [P. Orsi 1907, pp. 496-97] , compiendo alcune esplorazioni preliminari attraverso l’assistente R. Carta, a seguito dei ritrovamenti che oggi compongono la collezione Vagliasindi, esposta al museo di Randazzo. Carta rinvenne numerose sepolture a tegola dislocate per la maggior parte in contrada S. Anastasia (odierna contrada Feudo?) e nella limitrofa contrada Imbischi osservò la basilichetta che venne prontamente fotografata dal fotografo Rizzo (utilizzando presumibilmente una folding a lastre o “ibrida”, cioè con dorso predisposto per lastre o pellicole). Dalla visione delle fotografie Orsi dichiarava le sue preplessità relative alla datazione della chiesa, dubitando se si trattasse di una struttura risalente al periodo bizantino o normanno.

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