Mediterraneo di Sebastiano Tusa

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Una lettura di Marinella Fiume in ricordo dell’illustre archeologo siciliano e delle vittime italiane del tragico incidente aereo avvenuto in Etiopia: persone che hanno sacrificato la loro vita per aiutare i popoli del continente africano.

Da dove cominciare per cercare di comunicarvi la magia che alle pagine di questo libro mi ha tenuta incatenata dalla prima all’ultima pagina? Per l’oggetto di questo libro, mi sono detta, il Mediterraneo, catasto magico che sotto questo profilo assimilo alla mia Etna, catasto magico anch’essa che conosco meglio perché sui suoi simboli ci ho indagato lungamente, ci ho scritto persino? Per la grande capacità di fartelo amare, non solo di fartelo capire, di questo grande archeologo che è Sebastiano Tusa, capace di coniugare nus, logos scienza e poiesis, senza le rigide presunzioni della scienza positiva di cui pure egli è maestro?

E quali poi saranno i confini di entrambi nel pensiero mitico che è origine ma anche approdo in questo mare che è nostro, non solo mare nostrum? Proviamo a smontarlo un catasto magico e vedremo che le competenze non ci basteranno mai per arrivarne al fondo là dove tutto comincia, perché forse non c’è neanche una data di inizio ed esso è là sin dalla creazione, dal Pleistocene della separazione delle terre emerse dal mare, e nessuna archeologia, nessuna scienza potrà restituircene che solo gli strati più superficiali quelli che risalgono a 5, 6 millenni fa e non sono che ieri nella storia del creato. E come capire allora il mare più antico della storia, mare plurale, fonte di attrazione primordiale, esoterico ventre molle di simboli che sono miti e riti che sempre si riattualizzano per sua stessa natura e rimandano agli eterni interrogativi dell’uomo sul senso della vita e della morte, del bene e del male, sulla individualità dell’essere umano e sulla sua coralità, sull’eroismo solitario di Odisseo e sui popoli in viaggio, sulla dimensione di insularità, sugli orizzonti chiusi e gli spazi sconfinati dei mari aperti che noi siciliani ben conosciamo; miti e simboli contraddittori come Jung sapeva essere questi miti appunto, in una dualità che va all’essenziale perché ogni faccia contiene se stessa e il suo contrario: Scilla, Cariddi, la grande madre, la vita e Horcinus Orca di D’arrigo, simbolo trionfale, barocco ma non barocco, di morte per mare, grandiosa metafora della morte sic et simpliciter. La Sicilia come metafora scrisse Sciascia e Bufalino gli fece eco con la sua sicilitudine, la luce e il lutto, e qui, nelle pagine di questo fantastico libro che definire un saggio di archeologia sul mediterraneo è davvero limitante, il Mediterraneo si fa metafora, dal neolitico ai nostri miserandi giorni del siriano Aylan, bimbo di 3 anni, sul bagnasciuga di una spiaggia turca con i suoi calzoncini azzurri, la maglietta rossa e le scarpette ancora ai piedi… Metafora perché, al di là delle pur provvisoriamente esatte conoscenze che le discipline scientifiche ci restituiscono, tutto può mutare a seconda della prospettiva geografica, dell’angolo di osservazione, dei “portolani” che sono i nostri maestri e i libri, le scuole di pensiero, gli indirizzi accademici che via via ti guidano nell’avventura del tuo percorso conoscitivo. Mediterraneo come molla di ogni curiosità, di ogni desiderio umano d’avventura, di sfida, di desiderio, d’ignoto, ma anche come risorsa, anche energetica, di quell’invenzione della pesca che risale almeno al VI millennio, al Neolitico; ma Mediterraneo anche come via di comunicazione, luogo di incontro/ scontro…; di saperi tramandati all’ombra di foreste da cui un mago egizio insegnò a ricavare barche scavando un buco nell’albero tagliato per affrontare fiumi e laghi prima che il mare aperto. E prima che questi saperi diventassero scienza delle marinerie nel II millennio a.C. con la civiltà egiziana e minoica. E tutto ciò è possibile non solo perché l’archeologo è studioso degli archivi sommersi del mare, ma perché sa coniugare alla capacità di vedere con gli occhi dello storico la passione della memoria e perché da archeologo militante, a tutto tondo, sa farsi uomo integrale e vedere il Mediteraneo come luogo di unione di popoli, di civiltà, di culture diverse che hanno contribuito a creare le identità che oggi siamo. E smonta in tal modo molti luoghi comuni cari a certi sicilianisti e a qualche scrittore, quello di isolitudine, una concezione di isolatezza tipica del nascere nell’isola, mentre dimostra ancora una volta che, al contrario, la ragnatela delle isole mediterranee non fu mai isolata. E sul mare con le merci non viaggiano solo ceramiche e metalli, ossidiane ambre e coralli, ma viaggiano le idee, la lingua, la religione, producendo un mescolamento che non è solo sincretismo tra Occidente mediterraneo e Oriente egeo-miceneo, nel XII sec. a.C. Poi la crisi micenea, il tracollo dei traffici (I millennio a.C.) e la diaspora fenicia e la colonizzazione greca… Argomentazioni che l’Autore dimostra attraverso un’equilibrata dialettica tra indagine diacronica sui reperti archeologici e viaggio attraverso fonti testuali che la conoscenza approfondita dei testi classici e della filologia gli permette di svolgere senza smettere mai l’abito dello scienziato ma senza tuttavia rinunciare all’intuizione, quell’intueor (composto da in = «dentro», + tueor = «guardare», cioè «entrar dentro con lo sguardo»), che rappresenta una forma di sapere che si rivela per lampi improvvisi, che per Platone ed Aristotele era la percezione immediata dei princìpi primi, e dunque espressione di una conoscenza certa perché in essa il pensiero ha direttamente accesso ai propri contenuti, essendo insieme soggetto e oggetto. Così come non rinuncia all’indagine sulle componenti universali dello spirito umano, all’uso della fantasia, da ϕαίνω «mostrare», facoltà della mente umana di creare immagini, di rappresentarsi cose e fatti. E lo diceva Einstein che la scoperta in ambito scientifico non è che un’intuizione fantastica imprevista… E questo gli è possibile perché ha l’occhio allenato a leggere simboli e perché ha il coraggio di contaminare discipline dalla nobile troppe volte paludata archeologia alla etnostoria fino agli umili repertori di tradizioni popolari iconografici e proverbiali che ancora si vedono e si sentono tra i nostri pescatori. Paradigmatica e impagabile è una di quelle pagine verso la fine (p. 112), quando parla dei fari portuali dell’antichità e, citando il leggendario colosso di Rodi che raffigurava il dio del sole Helios che reggeva una torcia, eretto da Cario di Lindos alla fine del III secolo a.C. all’ingresso del porto, lo definisce “ideale antesignano dell’altrettanto imponente statua della Libertà che salutava coloro che giungevano nell’agognata America”. Dove non c’è solo l’occhio avvezzo a cogliere simbologie, ma c’è l’archeologo militante, c’è un’archeologia che definirei etica, come dimostra anche l’Epilogo del libro dove l’Autore intona il suo peana al Mediterraneo e scioglie un inno non solo al mare, ma agli anonimi, ignoti naviganti che ogni giorno lo percorrono, migranti e pescatori, che vi cercano la salvezza e spesso vi incontrano la morte! Marinella Fiume  

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