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Foto - Acquedotto Biscari
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Foto di: Salvo Nicotra

Descrizione:
L'acquedotto Biscari è chiamato dagli adraniti "il Ponte Biscari". Costruito a circa 1 km dalle campagne del Mendolito, convoglia in un condotto chiuso le acque delle sorgenti delle "Favare", presso Santa Domenica e, attraverso la contrada della Carrubba e di altre terre, le incanala verso il feudo di contrada Ragona o Aragona. Notizie tratte dal "Dizionario topografico della Sicilia" (Amico, 1865), citano come la contrada Aragona era "Casale un tempo esistente nel territorio detto oggi volgarmente di Ragona, tra Centorbi ed Adernò, con una torre. Appartenevasi nel 1408 a Giovanni Eschisano, come si rileva dal censo di Re Martino; a Perollo di Modica nel 1479, che il vendette ad Artale Mincio, donde pervenne a Giovanni Paternò, ed oggi per dritto dei padri suoi ad Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari." In esso "Ci ha una sorgiva di acqua puzzolente nerastra e zolfurea." Ancora oggi sono visibili i fabbricati ed i ruderi della masseria ubicata nel mezzo della Piana d'Aragona, adiacente alla strada. L'acquedotto attraversa il fiume Simeto nel Passo della Carruba, in contrada Cimino, nel territorio tra i comuni di Adrano e Centuripe. DESCRIZIONE DELL'ACQUEDOTTO La realizzazione dell'acquedotto presentò notevoli difficoltà tecniche legate ai forti dislivelli e alla distanza tra le due sponde laviche che fiancheggiano il fiume Simeto. Difficoltà che furono superate attraverso la realizzazione dell'acquedotto che aveva come obiettivo il miglioramento delle condizioni igieniche sanitarie degli abitanti del territorio. L'acquedotto attraversava l'antico feudo dei Biscari e la parte superiore ha un camminamento di tipo mulattiero e pedonale. La condotta è costituita da 31 archi uniformi a sesto acuto che si sviluppano per centinaia di metri, di varia grandezza e altezza che attraversano le ripe del fiume per una lunghezza di circa 1330 piedi (400 metri) e con un altezza di circa 40 metri.. L'arco principale, infatti, appena ogivato, ha un altezza di 130 piedi (40metri). Sull'acquedotto e sulle sponde venne appoggiato un secondo ordine di archi che raggiunse la lunghezza di 360 canne (circa 740 metri). Il costo complessivo dell'opera fu calcolato in 100.000 scudi. Negli anni trenta crollò la parte centrale, a causa di una forte piena, e il passaggio dell'acqua fu garantito da una grande arcata in cemento. L'acquedotto, secondo il mio modesto parere, merita di essere restaurato e riportato al suo aspetto originario. E' un documento "vivente" della Contea adornese dei Moncada, l'ultima architettura di età aragonese e "precircondariale" di età borbonica. Simboleggia la fine di un secolo di splendore urbanistico e architettonico, che non ha riscontro nei secoli passati nella cittadina etnea. In questo secolo di "ripresa architettonica" si deve inquadrare anche quella economica, basata sull'agricoltura e sul commercio, che furono il vero motivo per cui fu costruito l'acquedotto, per iniziativa del Principe Biscari, Ignazio Paternò Castello, di cui rimane il nome. L'acquedotto-ponte fu costruito per la prima volta nel 1761-1776 e in una seconda volta nel 1786-1791. La fabbrica e altri dieci archi ad ogiva nella prima parte di esso, ci spiegano come questo settore sia il più antico. Forse era già presente un antichissimo ponte al quale, in un secondo tempo, fu addossato l'acquedotto. Non appena completato, il ponte-acquedotto Biscari divenne meta di scrittori e viaggiatori, anche stranieri. Jean Houel, pittore ed architetto francese, in Sicilia tra il 1776 ed il 1780, osservò l'opera già compiuta e nel suo "Voyage pittoresque..." scrisse: "Egli [il principe] ha fatto costruire un acquedotto che per ardimento e dovizia è degno di rivaleggiare con quelli romani...Si tratta di una costruzione di utilità immensa che tanto più è costata al generoso Principe in quanto ha dovuto superare difficoltà di ogni genere". Interessante si presenta il disegno dal tema "Vue de l'Aquedue d'Aragona" nel quale, oltre ad essere raffigurato l'acquedotto in tutta la sua lunghezza, l'Houel mise in risalto la fiumara dalla quale si diparte un canale (saja) che porta l'acqua ad un mulino. Il marchese di Villabianca, nel trattato sui ponti della Sicilia del 1791, definì l'opera "...un de' ponti più superbi e magnifici della Sicilia, per non dirsi il primo tra i medesimi...[avendo] fatto di sè comparsa così superba in Regno, come di uno de' più eccelsi ornamenti della Sicilia...". Ed ancora, il geografo francese Elisée Reclus, nella relazione di viaggio del 1865 sulla Sicilia, citò la struttura: "Seguendo un piccolo e grazioso sentiero mi trovai ben tosto davanti ad uno dei più grandi monumenti della Sicilia. E' un ponte acquedotto che meriterebbe di essere chiamato il ponte per eccellenza". Il 5 febbraio del 1781 "un colpo di furioso vento" o meglio "un violento turbine...forse accompagnato da tremuoto", abbattè la superba struttura e "...andar videsi tutto in rovina, strascinato dalla tempesta di una fiera illuvione d'acqua, che diè furia alle onde di involarlo al mare." (Villabianca, 1791). Dei trentuno archi di cui si componeva l'opera, ne rimasero in piedi soltanto sette minori. Cinque anni dopo, alla morte del principe avvenuta nel 1786, si diede inizio alla riedificazione dell'acquedotto ad opera del figlio Vincenzo, degno successore, secondo i disegni del francese Pierre Francois Léonard Fontaine, uno dei più illustri architetti del periodo neoclassico. L'esecuzione venne affidata invece all'architetto catanese Salvatore Arancio che portò a compimento l'opera nel 1791. Sul prospetto nord della grande costruzione venne addossato un ponte, del tutto simile a quelli presenti in altri fiumi della Sicilia, il quale permetteva il passaggio da una sponda all'altra alle persone ed alle bestie da soma L'acquedotto, presente ancora al giorno d'oggi, monco in alcune parti e con vistose deturpazioni effettuate a causa dell'impiego del cemento, rimane nel territorio se non in tutta la Sicilia, un'opera ammirabile per l'applicazione delle leggi d'idraulica e per la solidità della costruzione. Il terreno accidentato e i non pochi dislivelli fecero sorgere negli adornesi molto scetticismo nell'esito dell'opera, ignorando in gran parte il principio, in idraulica, dei vasi comunicanti (a). Le critiche sull'opera non distolsero l'architetto Arancio dal proseguire e portare a termine l'acquedotto. A questo punto, per tradizione orale che si trasmette di generazione in generazione (penso che si debba accettare come vera), nella giornata ufficiale dell'inaugurazione, presenti molti curiosi, autorevoli persone e tecnici di gran fama, avvenne la tragedia. Immessa l'acqua nell'acquedotto, si aspettò a lungo. L'acqua non arrivava nella contrada Ragona. L'atmosfera diventò ricca di ilarità e di critiche e l'umiliazione, a causa dell'insuccesso, depresse a tal punto Arancio, da spingerlo al suicidio. Subito dopo, per un tragico destino, l'acqua abbondantissima, venne fuori, dando ragione al povero architetto Arancio, che non potè raccogliere a causa del suo gesto, i giusti meriti per il successo dell'opera.. L'acquedotto e la coltivazione del riso La realizzazione dell'acquedotto, da parte del Principe Ignazio Paternò Castello, deve essere collocata nel piano di risanamento e di sviluppo del territorio. Il piano fu quello di garantire occupazione per le masse popolari in continua crescita. L'intervento era destinato all'ammodernamento dell'agricoltura che diventò, grazie alla disponibilità dell'acqua, sempre più specializzata. La costruzione dell'acquedotto, di mulini ad acqua, di strade, vasche e bevai favorì lo sviluppo di una fertile agricoltura e come conseguenza l'occupazione per le masse popolari. Ma è soprattutto la coltivazione del riso, pianta esigente in fabbisogno d'acqua, che spinse il principe nella realizzazione dell'acquedotto. Fin oltre la metà dell'Ottocento il riso, cereale a semina primaverile, veniva coltivato in quasi tutte le pianure fluviali della Sicilia. Centri di produzione erano Lentini, la Piana di Catania, i territori del Simeto, Centuripe, Paternò, ed ancora Calatabiano, Vittoria e Bivona. Anche la terra di Carcaci, limitrofa al feudo di Ragona, assieme ad altri piccoli centri della Sicilia era conosciuta in questo periodo per la coltivazione del riso: "...hanno molto nome quelli di Carcaci a occidente dell'Etna e quello di Roccella nel lato settentrionale." (Ferrara, 1834). Pianta coltivata con successo nella nostra Isola poiché fornisce rese elevate ed un reddito di molto superiore a quello del frumento "...sino al centuplicare il suo fruttato in quei siti abbondanti di sorgive di acqua o contigui ai fiumi ove possano facilmente congegnarsi delle prese..." (La Via, 1845). La sua coltivazione durerà fino al 1877, sempre più delimitata in zone lontane dai centri abitati ed, infine, proibita per motivi di carattere sanitario. Un Regio Decreto del 1820 ne proibiva già la diffusione nei luoghi prossimi all'abitato e lungo le strade principali, incoraggiandone la coltivazione cosiddetta a secco. Le tecniche colturali e l'elevato fabbisogno idrico di questa pianta fecero sì che i territori dove era diffusa diventarono ben presto malarici: "Pianta paludosa ricerca acque abbondanti e stagnanti onde nudrisce la gente lontana, e ammazza quella che coltiva o che abita i paesi vicini..." (Ferrara, 1834). Tentativi di coltivare il riso a secco, cioè mediante sistemi di irrigazione simili a quelli impiegati per gli ortaggi, didero scarsi risultati, soprattutto nelle rese. Nel territorio di Carcaci, dunque, a metà Settecento "...vi si numerano circa 100 case e 345 abitanti...l'aria è malefica perlochè la gente non può prosperarsi, infatti vi si contavano nel 1798 soli 251 abitanti, diminuiti sino al 1831 a 134, ed a 90 nel fine del 1852, onde è imminente un dissolvimento." (Amico, 1856). Nel 1853 le superfici coltivate a riso erano circa 650 ettari. La stessa Adernò, situata più a monte, risentì di quest'aria malsana: pur essendo "posta sopra elevato sito ha buono aere dalla parte dell'Etna, pessimo dalla parte del fiume per le piantaggioni di riso e per la macerazione dei lini e canapi nelle sottoposte pianure bagnate da copiose acque." (Ferrara, 1834). In questi luoghi di produzione, alcune piste, mulini idraulici impiegati nella brillatura del riso, ubicate lungo il corso del Simeto, pestavano in appositi recipienti, mediante piedi di legno foderati di sughero, i chicchi di riso al fine di distaccarne la pula. Il Principe Biscari, Ignazio Paterno' Castello Ô stato descritto come il personaggio più prestigioso della nobiltà siciliana, gentiluomo, archeologo e mecenate. Accolse ed ospitò molti viaggiatori stranieri tra i quali Riedesel, Brydone, Milnter, Bartels, Swinburne, Dolomieu, guidandoli attraverso le sue collezioni. Così lo ricorda Munter: "Incoraggiò i Catanesi allo zelo e all'operosità, fu amico e padre dei poveri, mecenate delle scienze e fece di tutto per rendere florida Catania". Contribuì alla ricostruzione di Catania, bonificò una valle paludosa, studiò lo sfruttamento della lava. Nel suo palazzo, oltre al bizzarro laboratorio, oggetto di curiosità per i visitatori, aveva un teatro privato e un museo, nella sua collezione si trovano strumenti e minerali, quali campioni di lava, zolfo, ecc. definiti "frutti dell'Etna". Molti reperti sono attualmente custoditi nel castello Ursino di Catania. Impiantò inoltre un giardino detto Villa Scabrosa nella Sciara che affascinò particolarmente Houel. Il principe, con merito, fu considerato uno dei personaggi più prestigiosi della nobiltà siciliana. Nato a Catania nel 1719, progettò e realizzò l'acquedotto Biscari nel suo feudo Ragona. Un altro acquedotto, adoperato per portare l'acqua da un suo pozzo di Cifali (Catania) al giardino di Villa Laberinto (oggi, Villa Bellii), fu costruito a Catania dallo stesso principe. L'acquedotto ha contribuito per secoli a dare vita a migliaia di famiglie di agricoltori oltre a rimanere una gigantesca architettura artisticamente ed esteticamente tra le più belle della Sicilia Orientale.
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