Le terme
Le terme romane erano degli edifici pubblici con degli impianti che oggi chiameremmo igienico-sanitari. Sono i precursori degli impianti odierni e rappresentavano uno dei principali luoghi di ritrovo durante l’antica Roma, a partire dal II secolo a.C.. Alle terme poteva avere accesso quasi chiunque, anche i più poveri, in quanto in molti stabilimenti l’entrata era gratuita o quasi. Le numerose terme erano un luogo di socializzazione, di relax e di sviluppo di attività vive per uomini e donne che, in spazi ed orari separati, facevano il bagno completamente nudi. Le prime terme nacquero in luoghi dove era possibile sfruttare le sorgenti naturali di acque calde o dotate di particolari doti curative. Col tempo, soprattutto in età imperiale, si diffusero anche dentro le città, grazie allo sviluppo di tecniche di riscaldamento delle acque sempre più evolute. Al riscaldamento dell’acqua provvedevano i focolari sotterranei che diffondevano aria calda dagli ipocausti, gli spazi sottostanti alle pavimentazioni sospese (suspensùra) dei vani da riscaldare.
Esse erano veri e propri monumenti o addirittura piccole città all’ interno della città stessa, esistevano due classi di terme, una più povera destinata alla plebe, e una più fastosa destinata ai patrizi. Lo sviluppo interno tipico era quello di una successione di stanze, con all’interno una vasca di acqua fredda, la sala del frigidario, solitamente circolare e con copertura a cupola e acqua a temperatura bassa, seguita all’esterno dal calidario, generalmente rivolto a mezzogiorno, con bacini di acqua calda. Tra il frigidario e il calidario vi era probabilmente una stanza mantenuta a temperatura moderata, il tepidario, stanza adiacente al calidario in cui veniva creato un raffreddamento artificiale. Assieme al calidario veniva usata quella che ai nostri giorni viene chiamata la sauna finlandese, ovvero il passaggio repentino dal caldo al freddo e viceversa. Le natationes erano invece le vasche utilizzate per nuotare. Attorno a questi spazi principali, si sviluppavano gli spazi accessori: l’apodyterium (uno spazio non riscaldato adibito a spogliatoio), la sauna, la sala di pulizia, la palestra. All’interno delle terme più sontuose (come le Terme di Caracalla) si poteva trovare spazio anche per piccoli teatri, fontane, mosaici, statue e altre opere d’arte, biblioteche, sale di studio e addirittura negozi. Una delle abitudini legate all’uso delle terme era quella di gettare nell’acqua profumi e vini speziati (similmente agli antichi Egizi che mescolavano nell’acqua varie sostanze). Per lavarsi, i Romani usavano la pietra pomice e la cenere di faggio (sostanze che portavano all’inaridimento della pelle), oppure una pasta composta da polvere d’equiseto (leggermente abrasiva), argilla e olio d’oliva. Dopo il lavaggio, i fruitori delle terme erano soliti spostarsi nelle sale adibite ai massaggi, che effettuavano con oli profumati e unguenti speciali (importati per lo più dall’Oriente e dall’Egitto, come la mirra e l’olio di mandorle).
Catania romana
La conquista romana del 263 a.C., agli inizi della prima guerra punica, aprì per Catania (vedi) un periodo di circa sette secoli durante il quale essa accrebbe notevolmente la sua importanza e il suo prestigio, fino al punto che nel IV secolo d.C. il poeta gallico Ausonio associandola a Siracusa la collocò tra i primi centri dell’impero romano. Catania rimase città decumana, cioè soggetta al versamento di una quota di un decimo dei prodotti del suo territorio, per quasi due secoli dopo la sistemazione della provincia di Sicilia da parte del proconsole M.Valerio Levino intorno al 210 a.C.. Un deciso miglioramento nella sua condizione si registrò quando, un quindicennio dopo aver sconfitto nell’isola Sesto Pompeo, nel 21 a.C. Augusto la innalzò al rango di colonia romana, forse per suggerimento del suo principale collaboratore M. Vipsanio Agrippa, grande proprietario terriero nella zona. dist4.gif (65 byte)La decisione imperiale comportò un incremento nel numero degli abitanti di Catania determinato dall’immissione nel corpo cittadino di nuclei di veterani, e comportò ancora un notevole ampliamento del territorio della città grazie all’acquisizione della fertile piana a sud del Simeto, precedentemente controllata da Leontini. Tutto ciò, sommato ai vari privilegi connessi con lo status coloniale, favorì la crescita economica di Catania durante l’epoca imperiale. Subito agli anni dell’istituzione della colonia, quand’era necessario dare un’impronta romana alla città, è da ricondurre la sistemazione dell’area forense intorno all’attuale cortile S. Pantaleone; allo stesso periodo inoltre sembra risalire una decisa azione di riordinamento del tessuto viario della città. Sulla base di recenti scavi condotti in via Crociferi e di una carta manoscritta del Cinquecento, la rete stradale della colonia risulta in qualche modo rintracciabile in quella odierna della zona che ruota intorno alla via Vittorio Emanuele nel tratto compreso tra la piazza Duomo e la via Plebiscito; nei secoli dell’impero comunque il tracciato augusteo fornì le direttrici per l’espansione dell’area urbana in particolare verso sud, dove verrà anche edificato il circo per le corse dei carri. Il limite nord della città imperiale fu invece rappresentato dall’anfiteatro: costruito nel II secolo d.C. l’edificio nella sua grandiosità può ritenersi il coronamento del processo di accumulazione di ricchezze iniziatosi a Catania con l’elevazione al rango di colonia. Esso, inoltre, considerato insieme agli altri luoghi di spettacolo della città come il teatro e l’odeon, ai numerosi complessi termali o all’efficientissimo sistema di approvvigionamento idrico, è significativo dell’alto livello della qualità della vita che dovette caratterizzare Catania durante l’età imperiale. (1)
Le terme Achilliane (vedi) sono delle strutture termali sotterranee databili al IV-V secolo e situate a Catania, sotto piazza del Duomo. Si accede alle terme passando dal Museo Diocesano di Catania: un corridoio con volta a botte ricavato nell’intercapedine tra le strutture romane e le fondamenta della cattedrale (il cui accesso è costituito da una breve gradinata di epoche diverse posta a destra della facciata) consente di fare un viaggio nelle viscere della città, dove scorre il fiume Amenano le cui acque risalgono in superficie nella vicina fontana dell’Amenano nella piazza antistante. Il nome dell’impianto è dedotto da un’iscrizione su lastra di marmo lunense ridottasi in sei frammenti principali molto lacunosi, databile alla prima metà del V secolo, oggi esposta all’interno del Museo civico al Castello Ursino. L’epoca di fondazione dell’edificio è ancora discussa, ma si ritiene probabile che esistesse già nel IV secolo: l’esistenza dell’edificio in epoca costantiniana è ipotizzata in base al reimpiego all’interno della cattedrale di un gruppo di capitelli del periodo, che potrebbero provenire da questo edificio. Sepolti dai terremoti del 4 febbraio 1169 e dell’11 gennaio 1693, i resti – già noti in antico – furono dapprima liberati dal principe di Biscari. Nel 1856, durante la realizzazione della galleria che passa sotto al Seminario dei chierici destinata ad essere la Pescheria di Catania, si trovarono dei ruderi che pure furono attribuiti allo stesso edificio, pertinenti forse ad un calidarium, in quanto vi erano presenti tracce di un pavimento ad ipocausto. La struttura doveva estendersi fino alla via Garibaldi, dove si trovarono altri avanzi. Secondo la ricostruzione planimetrica ottocentesca del complesso, la parte attualmente visitabile comprendeva probabilmente solo una parte del frigidarium. Dal 1974 al 1994 furono chiuse perché considerate insicure. Furono riaperte dopo un restauro del comune (1997) e nuovamente richiuse per problemi di allagamento. Dopo i lavori di pavimentazione della piazza del Duomo (2004-2006) – nel corso dei quali si è ritenuto di coprire l’impianto con una poderosa piastra d’acciaio per rinforzare l’impiantito della piazza stessa – l’edificio termale è stato nuovamente riaperto al pubblico e alla realizzazione di eventi. Dell’impianto originale si conserva una camera centrale il cui soffitto a crociere è sorretto da quattro pilastri a pianta quadrangolare. Al vano si accede tramite un corridoio con volta a botte che corre in direzione est-ovest e terminante in una porta che si apre su una serie di vasche ad ipocausto parallele tra loro, facenti parte di un complesso sistema di canalizzazione dell’acqua che si estende verso nord. Anche il vano principale si apre con tre ingressi ad arco sulle vasche, ad ovest del vano stesso. L’ambiente misurerebbe 11,40 m di larghezza e 12,15 m di lunghezza, mentre le stanze ad ipocausto sarebbero lunghe in tutto 18,65 m. Il corridoio misurerebbe 2,50 metri in larghezza per una lunghezza di oltre 16 m. Una ipotesi molto fantasiosa sulla estensione delle terme la fece nel 1633 il D’Arcangelo, erudito di storia locale, il quale fece realizzare una planimetria priva di elementi reali e riconoscibili, sebbene abbia il merito di essere il primo lavoro avanzato in tal direzione. Molto più accurata è la planimetria resa da Sebastiano Ittar nella pianta generale della città di Catania. In essa viene attribuita alle terme una cortina muraria che correva a sud della piazza Duomo, identificata quale muro perimetrale dell’area termale. Anticamente i pavimenti (di cui oggi non rimangono che labili tracce) erano in marmo, come dimostrano i resti di una vasca posta al centro dell’aula, mentre alle pareti e sul soffitto vi erano stucchi sicuramente dipinti ispirati al mondo della vendemmia, con eroti e tralci di vite. L’epigrafe, scritta in alfabeto e lingua greci è posta su quattro linee ed è formata da sei lastre incise, con lacune peraltro non gravi, ritrovate in diverse epoche, ma originariamente facenti parte di un unico lastrone in marmo lunense. Esse misurano 0,30 metri in altezza ed hanno una lunghezza complessiva di quasi 4,30 metri. Si suppone che tale incisione faccia parte dell’edificio sito al di sotto della piazza Duomo. Ricordiamo anche la presenza di quattro lapidi riportanti la scritta Q. LUSIUS/ LABERIUS/ PROCONSUE/ TÆRMAS, che confermerebbe ulteriormente tale ipotesi e che un tempo erano forse esposte all’ingresso delle terme e in seguito murate sulla base di quattro dei pilastri che dividono le tre navate della cattedrale. Prima del terremoto del 1693, i primi tre frammenti che costituivano la lapide furono murati nella facciata della cattedrale, poi spostati in una parete del vescovato secentesco e da qui vennero trasportati nell’antica Loggia. Nel 1702 si ritrovarono altri due frammenti che l’abate Vito Maria Amico unificò con gli altri e tradusse. In seguito furono esposti al Museo del principe Biscari e da qui all’attuale collocazione presso il museo civico del Castello Ursino. L’iscrizione è stata ricomposta utilizzando tutti i frammenti conosciuti ed è messa a terra, appoggiata a una parete, in modo non consono alla sua importanza, della grande sala ovest detta delle Anfore dal 2007. Nell’interpretazione che ne dà Francesco Ferrara le terme sono chiamate Achillianai e non Achellianai, come invece riportato da Holm e dal Kaibel e tratterebbe di un ipotetico incendio che rovinò la struttura, restaurata da Flavio Felice Eumazio. Qui inoltre si farebbe riferimento a Massimo Petronio, preceduto da un non ben identificato Julium filium Augusti. In una delle interpretazioni, effettuata da Giacomo Manganaro, la lapide la si potrebbe datare al 434 sulla base della successione dei governatori. Sempre secondo il Manganaro in essa si celebrerebbe l’opera di ristrutturazione (forse un ridimensionamento) esplicitamente tendente a economizzare legna da ardere negli ipocausti, conclusa dal neo governatore di Sicilia, Flavio Felice Eumazio, già avviata dal suo predecessore Flavio Liberalio, consularis Siciliae secondo la sua interpretazione, sotto l’imperatore d’Oriente Teodosio II. Tale ricostruzione permetterebbe dunque, sempre secondo l’ipotesi del Manganaro, di dare almeno due nomi ai proconsoli Siciliani della prima metà del V secolo: Eumazio e Liberalio. Inoltre avrebbe riconosciuto il nome di Leone quale architetto artefice del restauro.
Terme della rotonda
Le Terme della Rotonda (vedi) sono delle strutture termali di epoca romana, datate al I-II secolo d.C. e site nel centro storico di Catania. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. Etimologia. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. La struttura termale è stata solo di recente chiarificata, come un grande complesso di edifici quadrangolari connessi tra loro e seguenti uno stesso orientamento. Tra essi emerge una grande sala absidata – forse un frigidarium – orientata in direzione nord-sud databile alla prima fase vitale delle terme, a cui si appoggia sul lato est un grande ambiente ad ipocausto ricco di numerose suspensurae che dovevano reggere un pavimento mosaicato di cui pure si sono rinvenute esigue tracce e identificabile come calidarium. Le dimensioni di quest’ultimo lo riconducono alla monumentalizzazione dell’area. In un secondo momento (intorno al V-VI secolo d.C.) venne ripartito in più ambienti di minori dimensioni, mentre a ovest della grande sala absidata si apre un vasto ambiente pavimentato in grandi lastre marmoree su cui si rinvennero diverse tombe, alcune realizzate distruggendo il pavimento stesso. A sud si aprono diversi altri ambienti appartenenti alla fase di II-III secolo, come due pavimenti ad ipocausto pertinenti a piccoli ambienti circolari, forse un tepidarium. Altri ambienti quadrangolari proseguono a nord, all’interno dell’edificio della chiesa che in parte si appoggia alle strutture romane. La struttura più appariscente è tuttavia quella dell’ex chiesa di Santa Maria della Rotonda. L’ambiente in pianta quadrata presenta due aperture – una a sud con un portale in calcare del Cinquecento, l’altro a ovest in pietra lavica del Duecento – e due aree presbiterali ad esse corrispondenti: un presbiterio quadrato in forma di triclinium circondato da angusti corridoi che fungono da deambulacro si apre verso nord, mentre a est un piccolo catino absidale di cui rimane una porzione dell’alzato. All’interno del vano quadrato dell’edificio ne è ricavato uno in forma circolare dal diametro di 11 metri e chiuso a cupola, mentre da esso si aprono nei quattro angoli del quadrato altrettanti nicchioni che funsero da cappelle, messe in comunicazione con l’ambiente circolare da arconi in pietra lavica. Sopra la cupola un singolare lucernaio ad archetto faceva forse da piccolo campanile, mentre a decorazione dell’esterno si poteva osservare fino agli anni ’40 una merlatura tutto intorno al suo perimetro.
A est della struttura si aprivano alcuni ambienti, un tempo sagrestia della chiesa, danneggiati dal bombardamento e ricostruiti nell’ultima campagna di lavori per ricavarne un piccolo ambiente per l’organizzazione delle visite. Della decorazione pittorica di quella che fu la chiesa rimangono poche tracce. Le più antiche identificate rappresentano i Santi vescovi Leone e Nicola, a decorazione degli stipiti dell’arco ovest del presbiterio; una Madonna in Trono sulla parete orientale dello stesso ambiente; una Madonna in Trono con Bambino. Tali affreschi si possono identificare quali appartenenti al periodo compreso tra il XII e il XIV secolo. Al XVIII secolo invece risalirebbero gli altri affreschi: nel presbiterio parti di un ciclo rappresentanti l’Annunciazione e la Natività e, sulla volta, l’Assunzione della Vergine al cielo; nei triangoli d’imposta della cupola sono i Santi Pietro, Paolo, Agata, Lucia e gli Evangelisti Luca, Matteo, Marco, Giovanni; sulle pareti che chiudevano le arcate pure vi erano diverse figure prima dei lavori degli anni ’50, tra queste si riconosce Sant’Omobono. Alla base della cupola una lunga iscrizione in latino corre in circolo e recita: «QUOD INANI DEORUM OMNIUM VENERATIONI SUPERSTITIOSAE CATANENSIUM EREXERAT PIETAS IDEM HOC PROFUGATO EMENTITAE RELIGIONIS ERRORE IPISIS NASCENTIS FIDEI EXORDIIS DIVUS PETRUS APOSTOLORUM PRINCEPS ANO GRATIAE 44 CLAUDII IMPERATORIS II. DEO. OP. MAX. EIUSQUE GENITRICI IN TERRIS ADHUC AGENTI SACRAVIT PANTHEON.» («Ciò che la pietà dei Catanesi aveva eretto all’inutile superstiziosa venerazione di tutti gli dei questo stesso tolto l’errore della falsa religione negli stessi primordi della nascente fede San Pietro Principe degli Apostoli consacrò nell’anno di grazia 44 a Dio Ottimo Massimo e alla sua genitrice ancora vivente nell’anno II di Claudio Imperatore»). Secondo recenti studi archeologici condotti durante la campagna di scavo del 2004-2008 atta ad un intervento di valorizzazione e pubblica fruizione del complesso archeologico, la struttura risalirebbe nel suo primitivo impianto al I-II secolo d.C., conobbe una fase di monumentalizzazione intorno al III secolo d.C. durante una fase di notevole arricchimento della città di Catania per poi conoscere una fase di abbandono tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo d.C. L’edificio termale, rimasto inattivo per quasi due secoli e ormai in pesante stato di distruzione e di degrado, divenne sede di una chiesa intorno al IX-X secolo d.C. che sfruttò le pareti ancora integre per gli scopi liturgici. La chiesa ricavata – probabilmente sin dal suo sorgere dedicata al culto della Madonna – venne orientata in senso nord-sud e si utilizzarono i materiali recuperati dalle rovine per la sua costruzione. Qui, addossata alla chiesa e ricavata nelle rovine interrate delle terme, sorse un’ampia area cimiteriale, intensamente utilizzata tra i secoli XII e XIII e attiva ancora fino al XVI secolo. Di questo periodo risale il cambio di orientamento (dal senso nord-sud al senso est-ovest), l’apertura dell’ingresso con portale ad ogiva e la realizzazione di un’abside ad esso contrapposto. La chiesa venne quindi adeguata a cappella funebre per figure alto-borghesi, forse cappella cavalleresca della guardia di Federico II. L’orientamento tornò ad essere nel senso nord-sud nel Cinquecento, con la realizzazione di un nuovo ingresso con portale rinascimentale. Nei primi studi moderni su Catania e già dal Fazello si ha menzione dell’edificio, ritenuto il più antico tempio di culto a Catania, ritenuto un Pantheon pagano convertito in luogo di culto cristiano e consacrato a Maria nel 44 d.C.. Tale tradizione, seppur errata, mantenne per quasi tre secoli il suo fascino, almeno fino ai primi studi del Biscari il quale identificò per primo l’edificio quale ambiente termale di epoca imperiale romana. La corretta identificazione non fece tuttavia diminuire l’interesse per questo edificio e ancora nel Settecento viene ricordato come l’antico Pantheon catanese, ritenuto precedente persino alla struttura romana. Il bombardamento del 1943 devastò la vicina chiesa di Santa Maria La Cava risalente al Settecento e rovinò pesantemente la struttura. Tra gli anni quaranta e cinquanta si operò quindi una serie di lavori di consolidamento delle strutture. La direzione dei lavori fu affidata a Guido Libertini il quale tuttavia non risparmiò le strutture ecclesiastiche, né alcuni preziosi affreschi, per mettere in luce le strutture romane. Libertini suggerì la seguente cronologia: un livello ellenistico-romano con resti delle sue costruzioni termali, oggi meglio identificato con le strutture di I secolo; un rimaneggiamento di età imperiale che diede all’ambiente la forma circolare del calidarium, in realtà la struttura circolare risale all’epoca bizantina; un altro rimaneggiamento di età romana più tarda; il pavimento bizantino; alcune trasformazioni di età medievale; la sistemazione più recente che risale al XVII o al XVIII secolo. Nell’opera di sbancamento venne abbattuta anche una monumentale tomba cavalleresca che faceva da altare durante il XIII secolo e, sulla base dei resti superstiti ospitati presso il Castello Ursino, si deve identificare quale sepolcro di un cavaliere membro della guardia personale di Federico II. Il 23 febbraio 1997 lo studioso Francesco Giordano vi portò in visita una delegazione religiosa composta dall’esarca della Chiesa Cristiana Ortodossa d’Italia il metropolita Ghennadio, l’ex console greco in Catania Mefalopulos e il presidente dell’Associazione Siculo-Romena Lo Meo. Nell’arco di anni dal 2004 al 2008 l’edificio e l’area ad esso orbitante furono interessati da un nuovo ciclo di scavi atti alla preservazione, allo studio e alla fruizione della struttura. In questa campagna di scavo si rinvenne una gran quantità di tombe, si poterono identificare con certezza nove ambienti termali e ipotizzarne molti altri che si estendono al di sotto delle vicine Via Rotonda e Via La Mecca, venne messa in luce l’abside di età sveva e si misero in luce diversi affreschi precedentemente coperti da un anonimo intonaco monocromo. Lo studio, oltre a rivelare le diverse fasi di vita dell’edificio, ha anche permesso il riconoscimento del ciclo di pitture che decoravano gli interni della chiesa, riconducendo a datazioni più corrette quelle più antiche.
Terme dell’indirizzo
Le terme dell’Indirizzo (vedi) sono costituite da alcuni resti di un complesso termale romano risalenti al II secolo. Il complesso evidenzia un calidarium ed un frigidarium, oltre alle fornaci per il riscaldamento dell’acqua e dell’aria e tutte le canalizzazioni per l’approvvigionamento dell’acqua e quelle per lo scarico. Altri ambienti accessori sono evidenziati a livello di fondamenta. La dizione Indirizzo si riferisce al vicino Convento carmelitano dell’Indirizzo, così denominato per un miracolo che avrebbe salvato il viceré Pedro Téllez-Girón, terzo duca di Osuna nel 1610. Sorpreso da una tempesta mentre si avvicinava alla costa durante la notte, venne salvato da una luce votiva di detto convento che lo “indirizzò” al porto.
Terme di Misterbianco
Le terme romane di Misterbianco (vedi) furono costruite grazie all’acquedotto licodiano di età greco-romana, che portava l’acqua da S. Maria di Licodia a Catania. Si tratta di un piccolo edificio termale appartenente ad una villa privata. Il corpo centrale risale alla tarda età imperiale tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. L’ampliamento settentrionale dovrebbe risalire alla fine del IV secolo. Fra il quinto e l’ottavo secolo l’edificio fu arricchito da altri vani probabilmente per uso abitativo.
Terme santa Venera
L’area archeologica di Santa Venera al Pozzo (vedi) è un sito archeologico nel comune di Aci Catena, in provincia di Catania, in Italia. Sul sito affiora una sorgente d’acqua sulfurea, originaria dal vulcano Etna e sfruttata dalle moderne terme di Acireale: si tratta di insediamenti romani, soprattutto terme. Secondo la tradizione sul luogo fu decapitata santa Venera durante le persecuzioni romane contro i cristiani: la sua testa fu gettata dai soldati romani nel pozzo delle acque termali, ritenuto miracolo nel Medioevo. Nella zona fu eretta nel 1300 una chiesa con una statua lignea della santa, con una vasca marmorea, probabilmente di reimpiego dallo stesso sito archeologico. Furono i Greci a trovare una sorgente a bolla di acqua benefica e vi costruirono dei locali probabilmente a scopo termale. Una volta giunti i Romani tali edifici furono abbattuti e sulla loro base furono erette delle strutture termali di cui oggi sono rimasti i ruderi risalenti ad un periodo posteriore al I secolo. Come era antica consuetudine le terme erano costituite da diversi ambienti tra di loro collegati: una prima stanza, della quale non si sa se fosse coperta o meno, costituiva un luogo di incontro dove si parlava, giocava, commerciava; questa era seguita da una seconda, adibita a spogliatoio, dalla quale si poteva passare o al Frigidarium (per un bagno freddo) o al Tepidarium il quale, a sua volta, comunicava con il Calidarium. Il Tepidarium e il Calidarium conservano ancora oggi la caratteristica volta a botte, riscontrabile anche negli edifici termali di Ercolano e Pompei. I due locali presentavano un doppio pavimento e di quello superiore non è stata trovata alcuna traccia perché era presumibilmente in legno. Tale pavimento era sorretto da colonnine di mattone, suspensurae che sono state rinvenute su quello inferiore e, il fatto che ci sia stato un doppio pavimento, è dimostrato anche dal livello della soglia nei due ambienti. Il doppio pavimento e il sistema delle suspensurae (ingegnosa trovata di Sergio Orata, un commerciante di ostriche del I secolo originario di Baia, (località termale) consentiva un’efficiente circolazione dell’aria calda (prodotta da cataste di legna che gli schiavi dall’alba iniziavano a bruciare) attraverso le scanalature. L’aria calda saliva lungo una conduttura a forma di arco e riscaldava anche il Calidarium le cui pareti laterali, per evitare di disperdere il calore, presentavano una bordura in battuto di coccio che sigillava ermeticamente l’ambiente. In questa stanza vi era, inoltre, una vasca per il bagno caldo e una fonte per le abluzioni. Sia il Tepidarium che il Calidarium presentano, come già detto sopra, un soffitto con volta a botte (ancora oggi ben conservato) sulla cui superficie sono distribuite una serie di fori, sfiatatoi dai quali usciva il vapore in eccesso. Nell’area archeologica sono ancora visibili i segni di un tempietto, forse dedicato al culto della dea della bellezza Venere; accanto, invece, i resti di un semplicissimo mosaico e di una grande vasca con la base in battuto di coccio, presumibilmente usata come piscina o per l’allevamento di pesci. All’estremità orientale del fondo, 160 metri più a nord delle Terme, lo scavo archeologico ha portato all’individuazione di un edificio di cui sono stati esplorati finora 37 ambienti, di dimensioni variabili tra i 9 e i 32 m², per un’estensione di un m² 1700. Sono stati messi in luce. Legati tra loro, i muri perimetrali del lato orientale ed occidentale, per metri 25, e dei lati settentrionale e meridionale esplorati per metri 32. Dei 37 ambienti individuati, in alcuni casi comunicanti tra di loro, un grande vano centrale sembrerebbe avere svolto la funzione di corte interna a cielo aperto. Dall’esame delle tecniche costruttive impiegate si ricava la presenza di preesistenti fabbricati, che dovrebbero essere abbandonati o distrutti intorno al 280 a,C, le cui strutture furono parzialmente riusate. I muri, costruiti in pietrame irregolare a secco, in alcuni casi fungono da fondazione agli spiccati di una costruzione realizzata in epoca successiva in muratura oedinaria di pietrame naturale legato da malta di calce.
Di particolare interesse è il vano A il cui lato nord si imposta direttamente su un muro a secco che insieme ad altri tre, costruiti con la stessa tecnica e tra loro legati, costituisce la parte più consistente finora rinvenuta della fase più antica. Lacerti di muri della stessa fase rimasero seppelliti, all’interno di quasi tutti gli ambienti dell’edificio 1, in strati di terra che hanno restituito, oltre a frammenti di età greca arcaica, vasellame a vernice nera ed acromo databile al primo ventennio. Allo stato attuale della ricerca archeologica si può affermare che l’edificio 1, costruito dopo il 280 a.C., era probabilmente in stato di abbandono quando su di esso, all’inizio del IV secolo d.C., si impiantò un’officina per la produzione di laterzi. All’esterno del muro perimetrale est i resti di una colonna in muratura, con il plinto in pietra lavica e fusto in mattoni anulari, e numerosi frammenti di tegole, sia piane con listelli sia coppi, lasciano pensare la presenza di un portico aperto verso il terreno retrostante forse destinato ad orto. Il rinvenimento di frammenti di ceramica a vernice rossa di produzione italica ed africana nella sua tricea di fondazione e l’esame della tecnica edilizia utilizzata fanno datare la costruzione del pozzo ala fine del I secolo. All’interno dell’edificio 1, già in stato di abbandono, nella prima metà del IV secolo fu impiantata un’officina per la produzione di vasellame d’uso comune, di anfore e di laterzi, della quale rimangono ben conservate tre fornaci circolari del tipo verticale. Alcune vasche per contenere l ‘argilla, condutture e piani per la lavorazione del vasellame e dei laterizi. L’approvvigionamento dell’acqua era garantito dal pozzo esistente a nord dell’Edificio 1. Della fornace più grande si conserva la camera di combustione con i sostegni del piano di posta del carico da cuocere, costituiti da muretti radiali. Interessante il rinvenimento, alla loro base, di attrezzi di ferro probabilmente caduti attraverso i fori del sovrastante piano di cottura. La camera di combustione e il prefurnio erano interrati rispetto al piano di calpestio esterno, così da rendere la struttura stabile e resistente alle ripetute escursioni termiche alle quali era sottoposta e da attenuare le dispersioni di calore. Inoltre l’ingresso della camera di cottura della stessa quota del piano esterno facilitava il carico e lo scarico dei materiali a cuocere. Delle altre 2 fornaci, più piccole, si conservano le camere da combustione, costruite una con grandi frammenti di tegole piane con listelli, sovrapposte le une alle altre e l’altra in mattoni. Per tutte le fornaci la forma circolare fu certamente adottata a fine di garantire un migliore tiraggio, utile al raggiungimento di una temperatura omogenea all’interno della camere di cottura, ed il loro orientamento scelto in modo da sfruttare al meglio le correnti del vento. Le dimensioni della fornace grande, la quantità di laterizi rinvenuta all’interno del vano di combustione e nel vano di servizio del prefurium ed il ritrovamento di materiali malcotti, ipercotti e di scorie vetrificate, inducono a presupporre la destinazione alla produzione di questo materiale. Le monete rinvenute all’interno dell’area archeologica di Santa Venera al Pozzo sono ordinate cronologicamente dalle più antiche di età greca classica ed ellenistica, relativa alle zecche di Messana e Siracusa, a quelle di età tardo romana dello stabilimento industriale. Spicca tra tutte, per il suo stato di conservazione, un bel oricalco di Marco Aurelio. Seguono alcune monete di età bizantina, medievale e moderna recuperate negli strati superficiali, ampiamente manomessi dai lavori agricoli che si effettuavano nel fondo, sia nell’area immediatamente circostante l’Antiquarium sia negli ampi terrazzamenti dei settori settentrionale e meridionale.
Balneum di casa Sapuppo
Nella piazza Sant’Antonio ritroviamo il Balneum di casa Sapuppo. Scoperto da Biscari nel Settecento probabilmente struttura termale privata. Purtroppo il sito è “protetto” da un’orribile gabbia di ferro e vetro che ne rende impossibile la fruizione.
Balneum di piazza Dante
Nella piazza antistante il monastero dei Benedettini ancora un edificio termale romano: il balneum di piazza Dante, anch’esso probabilmente struttura termale privata in dote ad un’antica casa patrizia in epoca tardo imperiale.
Terme dell’Itria
Poco lontano dal monastero dei Benedettini i pochi resti di un altro edificio termale: le terme dell’Itria di cui poco o nulla si conosce.
Siti Etnanatura
- Catania romana
- Terme Achilliane
- Terme della rotonda
- Terme dell’indirizzo
- Terme di Misterbianco
- Terme di santa Venera
Foto Etnanatura, Salvo Nicotra, Michele Torrisi.
(1) Giovanni Salmeri – Guida di Catania e Provincia – G. Maimone Editore
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