Il santo e il professore

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linguaglossa

Il santo è Sant’Egidio, protettore di Linguaglossa, il Professore è Santo Calì, anch’egli di Linguaglossa. Anche in questo racconto di Marinella Fiume il motivo ispiratore ruota intorno all’Etna.

La statua lignea del Santo era stata collocata in una piazza all’ingresso del paese, proprio di fronte all’Etna, il giorno in cui la colata lavica sembrava minacciare l’abitato di Linguaglossa e, come un serpente che tutto fagocita, divorava le strutture sciistiche e alberghiere di Piano Provenzana insieme a un pezzo di quella pineta di pini larici per cui la città era famosa meta di villeggianti. Il fronte più avanzato  camminava nell’ alveo del torrente Sciambro con una velocità di 3-4 metri al minuto.

Da quel braccio, a quota 1.130 metri, aveva preso origine una lingua laterale, ampia circa 10 metri, che si propagava ad una velocità di 10 metri al minuto. Ora, però, i due fronti lavici, uno dei quali a soli cinque chilometri dal paese, sono praticamente fermi, dopo aver tenuto con il fiato sospeso gli abitanti raccolti in preghiera davanti alla statua di Sant’Egidio Abate e Vescovo coperta con un telone di plastica trasparente a protezione dalla cenere vulcanica.

Così, solo dopo pochi giorni, una moltitudine di fedeli riportava il fercolo con il simulacro nella sua Chiesa, la più antica di Linguaglossa, che conserva ancora il portale gotico con la figura allegorica della Sirena con due Serpenti, il vecchio stemma della città.

Le mura della città sono rimaste ancora integre, le chiese svettano ancora i loro campanili, nessun edificio pubblico ha subito danni. La sua storia non mente: fu una delle 42 città demaniali, “città del re”, in Val Demone, ed ebbe l’appellativo regale di “Urbs integra”, a dispetto del suo stesso nome costituito dal latino “lingua” e dal greco “glossa”, ad indicare le “lingue” di lava della città cresciuta attorno ai primi pagliai dei resinatori genovesi e lombardi, i quali la fondarono sopra sette colate laviche, per praticarvi l’estrazione della resina dai grossi tronchi di pini.

Ogni paese ha nella sua tradizione una leggenda che racconta la propria fondazione;  Linguaglossa ne ha due. La prima racconta che il nome deriverebbe dal proprietario di un fondaco, soprannominato “ ’Zu Linguarossa” per il suo linguaggio grossolano e rozzo; un’altra vuole che il soprannome spettasse alla vecchietta alla quale sarebbe apparso Sant’Egidio durante l’eruzione del 1566.

Il vecchio professore di Latino e Greco, docente democratico, instancabile raccoglitore delle tradizioni orali e delle memorie storiche della sua città, capopolo delle rivolte dei senza terra, antimperialista e pacifista, sempre impegnato in politica a fianco dei lavoratori e delle classi più umili, quantunque in pensione, non cessava di radunare intorno a sé, nell’oratorio del Convento dei Cappuccini, torme di ragazzi, ex alunni, liceali e universitari attratti dalla sua appassionata cultura e dal suo pensiero libertario. Raccontava loro i suoi amati classici, escludendo attentamente l’Eneide dell’augusteo Virgilio, ma anche le storie che aveva raccolto nel corso di lunghi anni trascorsi ad ascoltare pastori, taglialegna, tagliapietre e scalpellini etnei, prendendo appunti con le dita nere di nicotina e a documentarsi sui libri rari della ricca biblioteca del convento sulla storia della città. Quella città che la voce popolare voleva che dovesse al suo Santo se era rimasta sempre in piedi malgrado tutto. Più volte distrutta in epoca storica, il professore raccontava antiche leggende che evocavano l’alba del quattro di febbraio dell’anno del Signore 1169, quando “a muntagna” fu scossa da un terremoto violentissimo che solo a Catania fece quindicimila vittime. Lo stesso Vescovo rimase schiacciato dalle macerie fra arcate e capitelli d’altare. La fine del mondo. Dalla terra fracassata e fumante zampillarono ruscelli incandescenti, Mungibeddu si diede a vomitare zolfo e fuoco, come i draghi dell’Apocalisse, e la cima del Vulcano rovinò, in un inferno di fiamme e di ceneri, con boati lunghi e cupi, proprio dalla parte di Linguaglossa. E l’altro, rovinoso, con l’eruzione del 1200. Anche allora, ad alcuni popolani apparve Sant’Egidio, con gli abiti pontificali e la mitra in testa, e fermò il fuoco col bastone pastorale, il suo emblema, imponendogli questa legge:

 – Tu non varcherai questo limite, né oserai toccare la città che mi è stata affidata!

Così aveva detto, e la lava si era fermata.

La leggenda cristiana si ripeteva – spiegava il professore ai giovani che pendevano dalle sue labbra -, si affastellava sulle altre leggende che vedevano nell’Etna ora la bocca dell’Inferno, ora il Paradiso terrestre, dove – nella saga importata qui dai Normanni – vivrebbero una seconda vita beata Re Artù, la sorella Morgana e i cavalieri della tavola rotonda. La leggenda che i crateri dei vulcani siano le porte dell’Inferno sarebbe fiorita in terra d’Egitto, dalle sponde del Nilo,  passò in Grecia, da lì in Etruria e poi a Roma. In molte leggende ancora vive tra i pastori e i vignaioli etnei,  raccolte dal professore dalla loro viva voce, il cratere dell’Etna sarebbe la più ampia e terribile porta dell’Inferno, la sede dei diavoli.

Anche i bambini in queste nostre contrade conoscono la canzoncina :

 Diavuli c’abbitàti a Muncibeddu

Scinnìti ca bbi veni di calata,

puttativi la ‘ncunia e lu matteddu,

c’è di buscari na bbona junnata.

E non c’è chi non abbia sentito parlare del “Diavolo meridiano”, altrimenti detto “Satana bello”, che compare subdolamente alle ragazze dei paesi etnei nel primo pomeriggio dei mesi più caldi della stagione estiva, luglio e agosto, sotto forme diverse, mentre le ragazze hanno la testa piena di nebbia, una noia, una pigrizia, un’accidia, un rilassamento dei sensi tale che non hanno la forza di resistere alla lasciva tentazione e respingerlo. Così si spiega che virtuose vergini siano rimaste inspiegabilmente incinte… – sorride il professore, suscitando l’ilarità generale.

Le leggende cristiane – continua – si aggiungono ai miti pagani e si stratificano in  quel magico catasto che è il Mongibello, il Gebel degli Arabi, una delle sette meraviglie di Dio. E così Virgilio lo dice dimora del superbo Encelado che fa scuotere lo stesso monte e la Trinacria tutta quando sospira “per duolo o per lassezza”, e Ovidio rammenta il suo compagno Tifeo che, appena sospira, esala fuoco e fumo, mentre ancora Virgilio dice che dentro vi si trovano le fucine dove i Ciclopi, con pesanti incudini e gran rimbombo, fabbricano le saette per Giove tonante. E si racconta anche del ciclope Polifemo che, pazzamente innamorato della ninfa Galatea, accecato dalla  gelosia nel vederla dagli alti gioghi etnei amoreggiare sugli scogli di Acitrezza con il biondo pastorello Aci,  si dà a scagliare con furia grossi massi incandescenti che raggiungono i due giovinetti amanti, ferendoli mortalmente; ma questi si trasformano negli omonimi fiumi, le cui acque mormorano mescolate e confuse per l’eternità nel mare di Trezza. E dei Fratelli Pii, Anfinomo e Anapio,  che non ebbero timore di andare incontro alla morte, tornando sui loro passi per salvare i due vecchi genitori paralitici e, mentre il torrente di lava stava investendo la misera capanna, se li caricarono sulle spalle e si diedero a correre come il vento in salvo verso la valle.

Tra mito e scienza, il vulcano diveniva poi oggetto dei primi esperimenti di quei filosofi che volevano scoprirne la vera natura, perché Eraclito aveva individuato nel fuoco l’origine di ogni cosa. Così, il filosofo agrigentino Empedocle finì inghiottito dalla bocca del cratere centrale e di lui non emerse che un sandalo, eruttato orrendamente dal mostro durante la sua digestione.

Ma torniamo al nostro Sant’Egidio – riprende il professore aggiustandosi gli occhialini sul naso e accendendosi con il mozzicone della sigaretta l’altra sigaretta presa da dietro l’orecchio -, perché l’Etna, con la ricchezza e la varietà della sua storia e la  tortuosità dei suoi sentieri, rischia di farci smarrire la strada maestra, come succede a più d’un turista forestiero, avventuratosi alle alte quote senza guida e recuperato dalle guardie forestali prima della discesa della grande notte, appena in tempo per non morire assiderato o preda di animali selvatici…

La leggenda più popolare che lo riguarda è affrescata in un dipinto della chiesa che porta il suo nome e risale al Cinquecento, quando Linguaglossa non era che il pugno di case dell’attuale quartiere Monacaglia, dal nome della monaca di casa condannata al rogo come strega dal tribunale siculo – spagnolo del Sant’Uffizio. Nel corso dell’ennesima colata che aveva raggiunto le porte della cittadina, una notte, uno spaventoso terremoto seguito da un rombo sordo, gettò l’allarme in paese. Gli abitanti, in preda al terrore, si riversarono nel piano e nelle vie. “A muntagna scassàu!” era il grido che rimbombava da un cantone all’altro,  e difatti la lava scendeva giù in direzione del paese. La gente, non potendo salvare le case dalle fiamme, che presto avrebbero invaso tutto il paese, pensò di mettere al sicuro se stessa e le povere masserizie, e molti portarono via anche le tegole e il legname dei tetti con l’idea di poter aggiustare un pagliaio, un rifugio qualunque quando i poveri abituri sarebbero stati divorati dalla lava. Il fuoco, intanto, aveva devastato le vicine campagne e continuava la sua marcia minacciosa in direzione del paese.

Una vecchina storpia, inferma e carica d’anni, sola al mondo, rimase nel suo misero casolare; la sorte che l’attendeva era orribile. Non avendo che la sua fede da opporre alla piena di lava incandescente che bruciava già le prime case, una ispirazione divina la spinse a trascinarsi sulle sue grucce fin dentro la chiesa. Si mise a pregare genuflessa davanti ad un’icona del Santo dipinta in una parete e quegli le apparve vestito degli abiti pontificali e con la mitria in capo, le diede il suo bastone e la incitò ad affrontare la lava:

– Lèvati, non avere paura, getta le grucce e prendi il mio bastone pastorale, appoggiati ad esso e alzati, vai davanti alla lava che scende, tocca le pietre infuocate con questo bastone, piantalo sulla terra e vedrai che la lava si fermerà, perché da oggi in avanti io assumo la protezione del paese.

La visione disparve. La vecchia obbedì ai comandi, si levò dritta in piedi, prese il bastone, lo piantò presso il fronte del fuoco e fermò il torrente di lava, salvando se stessa e la città. Da allora, Sant’Egidio è il protettore di Linguaglossa ed è da allora che la città non ha più subìto seri danni. Ad ogni minacciosa colata, infatti, gli abitanti continuano a ripetere il rito: portano il Santo sulla  prima linea del fuoco, prendono il suo bastone e lo piantano  in una zolla di terra bruna.

Incuriositi e desiderosi di saperne di più, alcuni ragazzi cominciano a porre al professore domande sulla figura del Santo e ne ascoltano rapiti la  risposta, che arriva precisa e fascinosa come sempre.

Anche su Egidio – continua il professore – si raccontano miti sacri e pagani.  Così, alcuni pensano che egli fosse di origine ateniese e l’etimologia del suo nome deriverebbe dal greco “Figlio o discendente di Egeo”, o “Nato sull’Egeo”, dal nome del mare greco; altri dicono che il suo nome significa  “di pelle di capra”, l’otre contenente il vino. Anche per il nostro vino mito e storia si intrecciano. Si narra di quando i coloni greci, i Calcidesi, sbarcati nella vicina Naxos, si dedicarono alla cultura della vite e chiamarono Enotria l’Italia, la terra della vite. Ma il ritrovamento di viti del Terziario alle falde dell’Etna, dimostra la presenza della vite selvatica tra la flora mediterranea molto prima che i Fenici la introducessero in tutto il Mediterraneo. In epoca romana la coltura del vino si sviluppò, ma, con la caduta dell’Impero Romano, lo sfacelo politico e le scorribande barbariche determinarono l’abbandono e l’esodo dalle campagne: i contadini cercavano rifugio nei monasteri ove si continuava a coltivare la vite anche per trarne l’elemento essenziale –con il pane- dell’ultima cena. I monaci insegnavano le tecniche di coltivazione e di vinificazione e l’Abate e il Vescovo erano il punto di riferimento per la vita agricola e cittadina.

Non smetterebbe più di raccontare il vecchio professore né i giovani si stancano di ascoltarlo e seguirlo tra le volute del fumo delle sue sigarette nei fitti riferimenti culturali delle sue scorribande nei lunghi secoli della storia passata, dimenticando persino la televisione e la cena. Tuttavia, per l’ora tarda, si decide saggiamente di rimandare alla prossima. Così, il gruppo infila l’arco del convento e si disperde per i reticoli di viuzze della città vecchia tra gli schiamazzi dei ragazzi.

Ma non ci sarà una prossima volta e incolmabile rimane il vuoto lasciato dal professore dai polmoni  nerofumo, appassionato raccoglitore di memorie patrie, strabiliante affabulatore, la cui mente sapiente e la cui parola in ogni momento era capace di mettere ordine dov’era il caos del vulcano. Anche noi, da studenti universitari, siamo stati a trovare spesso il vecchio professore nel suo studio pieno di libri e fumo e ad ascoltarne i racconti che, ora che lui non c’è, sentiamo di dover tramandare a nostra volta, come segno dell’identità del nostro territorio, in questo mondo globalizzato. Rimane forte la sua memoria come il senso ultimo del suo raccontare: è difficile trovare un luogo dove lo sposalizio tra caratteri del terreno e condizioni ambientali sia più fortunato delle plaghe vulcaniche di Linguaglossa, patria del  vino rosso dell’Etna, così come è difficile trovare un Santo che, meglio di Egidio, sia posto a protettore di queste contrade. Il santo rappresenta la lotta dell’uomo, sin dal suo apparire, contro i mostri naturali che gli contendevano spazio vitale. Il suo dionisiaco bastone è l’albero della vite, con il quale egli segna la “linea della lava”; egli è l’abate che seppe conservarne e trasmetterne la cultura  nel monastero; il santo, infine, che sa come usare il potere antidepressivo del vino nelle calamità naturali dei terremoti e delle colate che minacciano di devastare il corpo e la psiche degli impotenti abitanti. La vite, insomma, simbolo della natura umanizzata, e il vino, rimedio per esorcizzare la paura della distruzione, della morte e della discesa agli Inferi, cui alluderebbe anche quello strano “stemma” della città con la raffigurazione della Sirena e dei serpenti, allegoria della lotta tra il bene e il male, nel portale della Chiesa di S. Egidio.

Marinella Fiume

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