La discesa agli Inferi di Antonio Nicoloso

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antonio nicoloso guida dell'etnaDi Marinella Fiume

Colui che alla fine del Novecento era la più vecchia guida dell’Etna, Antonio Nicoloso, è scomparso nel 2007 nel paese dov’era nato nel 1933: Nicolosi (Ct), la porta dell’Etna, situato sul versante sud, meta di chi vuole raggiungere le piste da sci e la funivia, arrivando fino al cratere centrale. Fu un uomo dal carattere mansueto, sobrio e taciturno, ma la più leggendaria e carismatica guida dell’Etna, profondo conoscitore dei suoi misteri e di ogni suo segreto, un vero “maestro” per chi voleva scoprire il vulcano, e tutti coloro che hanno imparato da lui a conoscere intimamente e ad amare l’Etna gli sono debitori, perché la sua figura è simbolica del rapporto più autentico tra uomo e natura. Perciò il vulcano senza il suo figlio prediletto è come orfano.

Il suo nome resterà scolpito nell’immaginario collettivo per l’impresa epica compiuta il 24 settembre 1974, allorché – primo uomo al mondo – si calò nelle viscere del cratere centrale in attività. In occasione dell’anniversario della sua scomparsa, l’Ente Parco dell’Etna gli ha dedicato una stele con una targa ricordo nella zona della Torre del Filosofo, teatro principale della sua vita.A lui, però, toccò un destino diverso da quello del leggendario Empedocle: risalì placido e sorridente dalle viscere del vulcano e visse ancora molti anni.

Il rifugio Torre del Filosofo si trova nella zona sommitale,a circa 2900 metri di quota. Secondo la tradizione, sorge proprio nel luogo dove Empedocle “freddo” si gettò nel fuoco dei crateri dell’“Etna ardente” (Orazio).

Nel travaglio ciclico del cosmo, tra il 2002 e il 2003, durante l’eruzione laterale dell’Etna, anche la Torre del Filosofo è sparita dal mondo visibile, seppellita sotto uno strato di 6-7 metri di prodotti piroclastici di ricaduta, provenienti dalla bocca a quota 2800 metri. Antonio Nicoloso non vi poté assistere, ma lui rimarrà per sempre simbolo della ricerca della sapienza aggregatrice dell’  “Amore” contro l’ “Odio” di empedoclea memoria. Antonio eredita un mestiere tanto familiare quanto rischioso, contro il desiderio del padre:

Sono nato sull’Etna e sull’Etna ho vissuto tutta la mia vita. Capii qual era la mia strada quando, bambino di cinque anni, mio padre mi legò con una cordicella e mi portò con sé insieme a mio fratello in una spedizione al cratere centrale a dorso di mulo. Arrivati là ci affacciammo tutti, noi e i forestieri, nella bocca fumante del cratere centrale e mio padre mi disse: «U vidisti? Ora nô vidi cchiù!…» (“L’hai visto? E da questo momento non lo vedrai mai più!…”).

Vano l’interdetto, fu un’attrazione fatale, una fascinazione cui non potrà mai più sottrarsi!

Mio padre – continua pacato – cominciò a sedici anni come portatore, sotto la scuola di suo padre, che era a sua volta guida. Era un mestiere antico, che si tramandava da secoli, questo di condurre viaggiatori, scienziati e turisti per gli impervi sentieri di una montagna sempre diversa. Ma non era una vita facile la sua, perciò non voleva che noi seguissimo il suo esempio. Io, però, cominciai a rubargli il mestiere senza che lui mostrasse di accorgersene;

lui aveva un’esperienza maturata con la lunga permanenza sul vulcano, l’esperienza è la cosa più importante per capire la nostra muntagna, unica tra i vulcani del mondo, bisogna prima sbagliare molte volte per poter dire di capirne qualcosa. Mio padre morì nel 1966, ma io e mio fratello cominciammo già dall’anno prima ad accompagnare turisti e studiosi nell’ascensione al cratere. E poi il lungo apprendistato, la formazione forgiata sul fuoco, la collaborazione con i più grandi vulcanologi del mondo, tra cui Haroun Tazieff (1914-1998), polacco naturalizzato belga e francese, un pioniere della diffusione della comunicazione tra vulcanologi e grande pubblico. Geologo al servizio del Congo belga, l’eruzione del Kituro nel 1948 determinò la passione di Tazieff per i vulcani e gli fece iniziare a studiare attivamente la fenomenologia delle eruzioni e della loro previsione. Da lì una lunga serie di spedizioni vulcanologiche: Valle dei Diecimila Fumi in Alaska, depressione dell’Afar, Nyiragongo, Erta Ale, monte Erebus, Faial, la Grande Soufrière di Guadalupa… L’ Etna, l’incontro fatale. Il lungo, simbiotico rapporto di Antonio Nicoloso col vulcano culmina nell’inevitabile discesa agli Inferi.

Quando scesi nel cratere centrale, quel 24 settembre del 1974, non ci credeva nessuno che io l’avrei fatto davvero: le guide mi deridevano, mi prendevano per pazzo, lo stesso Tazieff non pensava mi spingessi a tanto. I contadini dissero poi che ero stato io il colpevole delle minacce portate della lava ai loro campi coltivati, perché avevo osato scendere nel ventre del vulcano, dove nessun uomo era mai sceso prima, e a muntagna si vendicava della mia temerarietà. Ma neanche io ci avevo mai pensato prima e neanche allora pensavo che l’avrei fatto.

Non è durata che sessanta minuti l’immane esperienza, ma che significato ha il tempo nella dimensione del fuoco?

Il fuoco non è cattivo – insegnava Antonio Nicoloso –, il fuoco è buono, e la lava infuocata dell’Etna, quando scende, è come un fiume o un ruscello, controvento ti puoi avvicinare anche a pochissimi metri, due, o anche uno. Su una colata larga otto-dieci metri ci puoi camminare, la puoi attraversare con i semplici scarponi da montagna, niente di più, basta che fai attenzione a non cadere e non ti fermi, devi percorrerla speditamente, di corsa, perché la lava dell’Etna in superficie è dura ed è questa una delle tante diversità della nostra muntagna dai vulcani di  tutto il resto del mondo. La sua temperatura in superficie generalmente è tra iseicento e i novecento gradi, solo quella del 1971 fece eccezione, una qualità di lava mai vista, che in superficie raggiungeva i milleduecento gradi. Le lave dell’Etna non sono molto fluide, in trecentomila anni, quanti ne ha compiuti il vulcano, ha innalzato una montagna di cumuli di più di tremila metri di altezza, perché la lava, solidificandosi, si stratifica. Nel 2002, per esempio, il vulcano ha raggiunto più di 300 metri di altezza, come quando un gigante bambino cresce e diventa adulto. Al contrario, i vulcani delle Hawaii non alzano il loro livello, perché le lave sono talmente liquide che formano fontane di magma incandescente come fuoco sciolto. Io sono stato a vedere di persona i vulcani d’ogni parte del mondo: Hawaii, Centro America, Giappone, Africa; l’ultima spedizione l’ho fatta in Etiopia che avevo settant’anni, ma nessuno è come la nostra muntagna, insidiosa più di tutti perché ha i caratteri di tutti gli altri messi insieme. Però a muntagna non è cattiva, cattivi siamo noi che la sfidiamo, a muntagna bisogna rispettarla, averne paura senza lasciarsi prendere dal panico, perché i morti dell’eruzione del 1979 li abbiamo visti presi alle spalle dalle bombe, mentre fuggivano alla cieca, senza guardare qual era la direzione migliore verso cui scappare. Io però l’ho sfidata e lei è stata buona e mi ha graziato… L’idea era nata durante una spedizione in Etiopia con un’équipe cinematografica francese che realizzava un film di fantascienza. Il regista si rivolse al professore Haroun Tazieff perché aveva bisogno di scene girate su un vulcano. Tazieff disse che per lui era impossibile accompagnarli, ma che poteva chiederlo a me, e mi chiamò per accompagnarli sull’Erta Ale. Organizzammo una spedizione con una decina di persone, guide e operatori. Il regista era curioso come un bambino, non aveva mai visto un vulcano e mi tempestava di domande. Ma voleva sapere soprattutto dell’Etna, mi chiedeva com’era, che differenza c’era con l’Erta Ale e infine mi propose di fare la discesa nelle viscere del nostro cratere che lui avrebbe ripreso per farne un documentario. Non credevo che l’avrei fatto, ma cominciai subito le ricognizioni sui luoghi. Mi affacciai alla bocca del cratere centrale, quante volte l’avevo guardato e fatto guardare ai turisti, ma mi sembrava ora di vederlo per la prima volta! Del resto, il cratere non è sempre uguale, in quel momento c’era una intensa attività interna. Mi misi a esaminare i bordi della grande bocca per vedere se erano regolari, perché a volte le esplosioni sono regolari e i bordi sono uniformi, a volte invece le esplosioni avvengono da un lato e la bocca pare inclinata da quel lato. Dai sopralluoghi effettuati capii che la situazione era tale per cui era davvero impossibile la discesa. Dissi che in quelle condizioni proibitive l’impresa non poteva aver luogo. Ma, quando l’indomani, alle prime luci del giorno, col freddo di una temperatura di poco superiore allo zero e il vento che arrossava la faccia e inaridiva le labbra, tra le continue scosse che facevano tremare il terreno sotto i piedi e i rimbombi che assordavano le orecchie, l’équipe si piazzò lì con tutto l’armamentario, mentre le guide mi dicevano che era una pazzia, la mia dignità non poté sopportare che venissero vanificati tanti preparativi, una specie di scommessa con me stesso. Avevo paura, era un’impresa al limite delle possibilità umane, ma a un tratto pensai di potercela fare, ne fui certo, sì ce l’avrei fatta, lo dissi a tutti incoraggiando i dubbiosi.

Cominciò allora il rito della vestizione prima della discesa iniziatica:

Mi vestirono come per una spedizione su Marte: tuta d’amianto e scafandro. Nelle viscere del cratere i gas sono i nemici più insidiosi. L’équipe di Tazieff aveva messo a punto una maschera antigas con una batteria a pompa forzata che funzionava una meraviglia, dovevo optare tra lo scafandro tutto chiuso e questa maschera. Scelsi lo scafandro perché a quella profondità e con una temperatura che sarebbe stata di circa trecento gradi la maschera non avrebbe funzionato perché l’ossigeno brucia, mentre funziona bene quando il gas è in superficie, e inoltre lo scafandro mi avrebbe protetto dai proiettili infuocati lanciati dal vulcano. Anche l’operatore che doveva fare le riprese sul bordo del cratere si vestì come me, sembravamo due astronauti. Dopo la vestizione mi imbracarono con una corda rivestita di materiale ignifugo e cominciai la discesa. La voragine si estendeva per una profondità di circa duecento metri e terminava in una piattaforma. Non è sempre così, a volte può esserci una profondità molto minore, anche di una cinquantina di metri, o una trentina; una volta, invece, con Tazieff abbiamo calato un cavetto di millecinquecento metri e non siamo riusciti a toccare il fondo. Dopo vari tentativi, calarono nel vuoto una lunga scala a pioli, la scaletta di salvataggio della vecchia funivia, di corda e pioli di legno, lungo una parete a strapiombo senza che la toccasse mai, perché le pareti incandescenti avrebbero carbonizzato le corde dei due lati. Impassibile, comincio lentamente la discesa. Aiutato dalla corda mi calo per i duecento metri che separano la superficie dalla piattaforma in fondo al cratere e, arrivato lì, comincio la mia passeggiata in un paesaggio verdognolo e crepato d’ogni parte, tra le bianche fumarole, infossando nella cenere fino alle caviglie, verso la bocca che vomita fuoco e fiamme. Ma, a una trentina di metri da essa, si verifica una violenta esplosione, si sprigiona tra i fragori una colonna di fumo e sabbia nera. Da sopra pensano che io sia morto e cercano di recuperarmi tirandomi con la corda di sicurezza. Maledetta corda, mi sarà solo d’impiccio! Mi tirano su un paio di metri e faccio segno di lasciarmi andare. Tra il fumo e i gas acidi e solforosi, i miei occhi gonfi non sono più in grado di vedere niente. Tento di dirigermi verso la bocca che dista una trentina di metri, ma sono costretto a fermarmi e a tornare sui miei passi, sono entrato in una sacca di gas velenosi, mi getto giù strisciando come una salamandra perché i gas salgono verso l’alto. Malgrado lo scafandro, però, i gas entrano lo stesso. Non ho più fiato, non ho più forze, i miei sensi vacillano, sono sfasato, stordito e disorientato. Mi sento in trappola. Rassegnato. Mi preparo a morire, a passare da quella specie di sonno alla morte. Poi, d’istinto, mi riprendo un pochino, recupero e, sempre faccia in giù, tento di strisciare verso la parete dalla quale pende la scala a pioli. Arrivo ad afferrare la scala, mi aggrappo, comincio a salire qualche piolo. È un inferno: la scala si gira e rigira su se stessa continuamente, ogni volta urto contro la parete, continuano a sprigionarsi i gas. L’operatore “marziano” in superficie sviene. Continuo la risalita: cinquanta metri, cento metri, centocinquanta. Sono allo stremo, senza ossigeno. A una quarantina di metri dall’arrivo sto per lasciarmi andare e ripiombare giù. Vistomi in difficoltà, alcune guide si vestono, scendono e riescono a trascinarmi in superficie. Ma prima di riemergere ho già ripreso il mio sangue freddo, mi rianimo, esco fuori con un sorriso.

Uscito vivo da una tale esperienza nel regno ctonio del fuoco primordiale, purificatosi dalle scorie umane e guadagnata la verità attraverso la conquista del cratere,  Antonio Nicoloso sarà per tutti “l’Empedocle reincarnato”. Egli ci insegna l’unico modo possibile di far trionfare l’Amore  sull’Odio, ci affida una volta per tutte l’utopia etnea.

Marinella Fiume

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