Preistoria
Il periodo antecedente la colonizzazione greca di Leontinoi è oscuro. Delle civiltà preelleniche rimangono i ritrovamenti nelle zone archeologiche, in particolare grotte murate e capanne del tipo italico. Popolazioni di varia origine avevano occupato le colline. Tra queste i Sicani. Essi passarono dall’Italia in Sicilia. Giunti sull’isola cacciarono i Sicani verso occidente. I Siculi si stanziarono sul colle di Metapiccola, dando origine ad un insediamento che gli studiosi hanno identificato con la mitica Xouthia. La loro economia si basava sull’agricoltura, ma anche sulla pesca e sul commercio, esercitato attraverso lo scalo di Castelluccio. Contemporaneamente, sui colli circostanti continuavano a vivere popoli indigeni, che sembrano aver mantenuto con i Siculi rapporti amichevoli e che continuarono ad occupare la stessa zona anche quando dei Siculi si persero le tracce. Sono queste le genti che i calcidesi trovano sul colle di San Mauro nel 729 a.C. o, come è più probabile, nel 751-750 a.C. (1)
Mappa dei siti
Castellana (vedi).
Castellana costituisce l’area che più conserva testimonianze del suo passato nel territorio di Lentini. Sull’intero sito mancano studi dettagliati ma sono state segnalate nel tempo testimonianze che, partendo dal tardo neolitico (cultura di Serra d’Alto), passano dall’età del rame (Serraferlicchio e Malpasso, arrivando alla media-fine età del bronzo (cultura di Castelluccio, Thapsos e Pantalica), inoltre si trova una necropoli con tombe a forno. Sulla sommità della collinetta, verso la piana, sono state rinvenute tracce di strutture murarie, cocciopesto e numerosi frammenti di ceramica romana di età imperiale (databile tra il II ed il IV sec. d.C.) e bizantina. Lungo una balza arenarica sono presenti diverse decine di fori di capanne preistoriche, alcune antiche cave e una piccola necropoli con tombe a fossa. Inoltre si riscontrano decine di escavazioni molto rovinate che, dai tagli sul tetto, dovevano essere dei grandi cameroni rettangolari. Nella parte bassa si trova una struttura a “T” interamente scavata nell’arenaria. Nel primo vano rettangolare (10,40 x 5,45 x 4 m) la parte orientale è impreziosita da un’abside mentre nella parete occidentale, quasi addossata ed al centro, è scavata una tomba a fossa. Attraverso una porta, a metà della parete nord, si accede ad un secondo vano (10,15 x 5,15 x 4 m) perpendicolare al primo e con orientamento sud-nord. Nella parte più interna, sulla parete est una tomba ad arcosolio (1,33 x 0,50 x 0,90 m). Una decina di metri più avanti in alto è presente una tomba a forno, a prospetto monumentale con nicchia; sul ciglio orientale alcune tombe a fossa ben conservate. Sul pianoro sovrastante centinaia di fori per capanne di diversa grandezza oltre moltissime tracce di strade che collegavano il sito con il Casale. Al centro della parete, a circa 20 m di altezza, si trova un grande camerone rettangolare inteso come il Carcere del Saracino, al quale si accede con una scala intagliata nel calcare. La parte centro occidentale è interessata da numerosi cameroni rettangolari e da una piccola necropoli paleocristiana con tombe ad arcosolio (ad una o più inumazioni) e una a mensoloni. Inoltre nella parete sovrastante sono presenti numerose tombe a fossa. Quasi sul finire della parete vi sono tracce di un taglio nella roccia, resti di una strada a scalini in linea con le numerose carraie della parte est, e numerosi buchi per pali di una capanna rettangolare di grandi dimensioni. (2)
Palazzelli (vedi)
In contrada Palazzelli si trovano numerosi cameroni dei quali molti riutilizzati in età moderna. Già nella metà del XIX secolo sono segnalati alcuni ritrovamenti come quelli di “colonnette di marmo bianco, attorcigliate nella loro superficie di spire con cavette o scanalature […] un pregevole lastrico di elegantissimo marmo cipollino, di bel marmo rosso e di granito greggio, tutto messo in bella simmetria a foggia di mosaico”. Lo Schubring, seguito dall’Holm, segnala alla fine del XIX secolo, un edificio termale. Lungo il costone sud si trova un gruppo di tombe ad arcosolio mentre si rinviene nel terreno circostante ceramica romana di età imperiale databile tra il III ed il IV secolo d.C.. (2)
Cugno Carruba (vedi)
Nei pressi delle pendici sud-occidentali e nel versante occidentale del Cugno Carrubba, si ritrovan alcune tombe ad arcosolio e una grande necropoli preistorica (prima età del bronzo) con tombe a grotticella artificiale. Continuando, sempre verso Pancali, si giunge in prossimità di un bivio, si prende la strada che volge a destra, verso ovest, e si giunge nei pressi di una masseria (Vuturo) di forma quadrangolare, che nel corpo centrale a guisa di torre presenta un vano quadrangolare sopraelevato al resto dell’edificio. Nelle pendici dei colli, adiacenti alla costruzione rurale, si possono osservare numerose tombe a grotticella artificiale che coprono un arco di età che va dalla prima età del bronzo giunge sino all’inizio dell’età del ferro. (3)
Fontana Paradiso (vedi)
A est di Pedagaggi, a circa due chilometri dall’abitato, si trova contrada Fontana Paradiso, il cui toponimo rimanda all’esistenza di una ricca sorgente, la sorgente Paradiso appunto, che in passato favorì certamente lo stanziamento dell’uomo, attratto probabilmente, oltre che dall’acqua, anche dalla presenza di una fitta boscaglia e di un’abbondante selvaggina. La presenza dell’uomo in quell’area è testimoniata dalle numerose grotticelle artificiali preistoriche realizzate lungo i fianchi della profonda cava scavata nel corso dei secoli dal torrente Gelso, alimentato dalla sorgente Paradiso. Due le grotte archeologicamente più rilevanti visitate a metà degli anni ’60 dal prof. Luigi Bernabò Brea. Nella prima, un riparo sotto roccia, furono rinvenuti e raccolti diversi utensili di pietra riconducibili al Paleolitico superiore. Gli oggetti litici scoperti appartengono, nello specifico, alla fase iniziale del cosiddetto Epigravettiano finale, tra 14 e 12 milioni di anni fa. Nella seconda grotta, conosciuta come «Grotta del fico», l’indagine dell’illustre archeologo ligure consentì di accertare la presenza di ossa umane e di numerosi frammenti di ceramica appartenenti allo stile di Diana del Neolitico superiore, agli stili del Conzo e di Malpasso dell’Eneolitico, e allo stile di Castelluccio dell’Età del Bronzo antico. (4)
Metapiccola (vedi)
Villaggio preistorico dell’età del ferro che rappresenta la prima fase d’insediamento dell’area di Leontinoi. Gli scavi del 1955 da parte di G.Rizza protarono alla luce manufatti che datarono l’insediamento tra il XI e IX a.C. L’insediamento protostorico era costituito da un insieme di capanne il cui basamento era incassato nella roccia e il tetto a spiovente era sostenuto da pali lignei. L’ingresso era sul lato corto ed era preceduto da un porticaletto. Il villaggio è associato alla cultura Ausonio I di Lipari e ai villaggi sul colle Palatino a Roma, per cui, secondo alcuni, potrebbe essere questo l’insediamento di XOUTHIA fondata da XOUTHOS discendente di Liparo, associata all’immigrazione di popoli italici tramanda da Diodoro Siculo. All’arrivo dei greci (729 a.C.) il sito forse era già abbandonato, qui fu costruito un piccolo tempio e delle abitazioni di cui sono visibili le fondazioni. La necropoli con tombe tipiche dell’età del ferrò si sviluppa sul lato orientale del colle. Si tratta di tombe a grotticella artificiale con un vestibolo di ingresso ed una cella rettangolare. (5)
Periodo Greco
Parco Archeologico (vedi)
Ricadente nei comuni di Lentini e Carlentini, comprende anzitutto i resti di un insediamento dell’età del ferro con un villaggio capannicolo (su cui si impianta successivamente l’abitato di età arcaica) sul colle della Metapiccola, e la corrispondente necropoli lungo le pendici della contigua Cava Ruccia. Sull’opposto colle San Mauro, si trovano i resti dell’acropoli della colonia fondata intorno al 730 a.C. dai Calcidesi di Naxos, il cui abitato, descritto dallo storico Polibio, si estendeva lungo le pendici della valle S. Mauro, interposta fra i due colli e racchiusa dal complesso delle fortificazioni. La cinta più arcaica racchiudeva la sola acropoli; nel VI sec., le opere di difesa comprendono i due colli e sbarrano con una poderosa porta a tenaglia l’imbocco settentrionale della valle, oltre cui si estende la vasta necropoli ellenistica, che allinea lungo l’antica via per Siracusa più di 600 sepolcri, alcuni dei quali caratterizzati da piccoli monumenti funerari a piramide gradinata. (6)
San Basilio (vedi)
Monte San Basilio è un’antica struttura di epoca greca che prende il nome dall’omonimo monte in cui è collocata, nel territorio di Lentini. Per quanto non vi sia un nome ufficiale, alcuni identificano il sito impropriamente con Colonne di San Basilio. L’area sommitale del monte mostra tracce di un antico insediamento già dalla preistoria con evidenti fori di capanna probabilmente riconducibili alla Cultura di Castelluccio. Poco distante sorge la struttura imponente scavata nella roccia calcarea e con un’estensione di 18×16 metri e ben 32 colonne atte a sorreggere delle lastre in pietra. Parte della struttura è crollata ma restano ancora in piedi molte colonne. L’imponenza del monumento richiamò l’attenzione del viaggiatore Jean Houel che ne tracciò degli schizzi nel 1777 nonché un’interessante testimonianza scritta: « Questi resti rappresentano un bellissimo edificio di cui tutto ignoto, persino il nome. L’edificio delle strutture che lo circondano non potevano essere che la residenza di signori nobili e benestanti. Non ho potuto rappresentare questo luogo sotterraneo-una specie di scantinato-se non mostrando nello spaccato. La sua pianta è quadrata. Guardate A nella parte in basso della stampa. Vi si discende da una scala B, che si scorge nell’angolo a destra, attraverso i pilastri conclusi da elementi lapidei che sostengono grandi pietre. Queste, imitando le travi, sorreggono delle piccole pietre che si alternano ad esse. Molte lastre mancano, e io raffiguro l’insieme nello stato di degrado in cui è pervenuto. C’è una grande porta, un ridotto in cui si vedono ancora delle pitture: vi si celebrava la messa nel periodo in cui devoti di San Basilio occupavano questo luogo. Ho inserito nella stampa la pianta dell’edificio con il proposito di dare un’idea esatta della sua forma e dei suoi dettagli: D è il posto in cui si celebrava la messa. Si vede chiaramente un sarcofago nel luogo contrassegnato con E, la cui entrata è ricurva. Credo tuttavia che i sarcofagi scavati nella pietra siano posteriori al tempo in cui l’edificio fungeva da serbatoio, e che siano stati realizzati dopo la trasformazione in chiesa. Sono convinto che l’edificio fosse in origine una magnifica cisterna; ma ciò non deve stupire: gli antichi amavano dare a tutto ciò che creavano delle belle forme e sapevano abbinare la solidità al buon gusto. Alla base di questa montagna si ritrovano ancora delle vaste grotte, di cui una parte è adibita a sepolcri. Ciò prova che questo era il sito di una città. Lo testimoniano le dimore appena descritte che, presenti sulla cima della montagna, ne costituivano la parte principale. » Ma fu poi l’archeologo Paolo Orsi a indagare per primo la possibile funzione. Egli ipotizzò un uso come cisterna per l’approvvigionamento delle acque, utilizzate dai soldati presenti nell’area fortificata. Lungo il monte infatti sono visibili i resti di fortificazioni di epoca greca che lasciano immaginare un uso prettamente militare dell’area da cui si domina la piana di Catania e la città di Lentini. La struttura venne successivamente riutilizzata dai bizantini che la convertirono in chiesa. Difatti sono visibili alcune tracce di affresco in alcune colonne, seppure ormai non leggibili. In tutta l’area sono visibili diverse strutture ipogeiche di non chiaro utilizzo e un piccolo tempio di Demetra e Kore. Dopo Paolo Orsi il sito non è più stato oggetto di rilievi archeologici e per questa ragione sono scarse le informazioni. Tuttavia è anche ipotizzabile una funzione diversa della struttura, non come vasca ma come granaio. Il sito viene spesso associato all’antica Brikinnai citata da Tucidide ne La guerra del Peloponneso. Tuttavia l’assenza di elementi oggettivi e di rilievi archeologici non permette alcuna certezza. Attualmente l’area è in completo stato di abbandono. Non sussiste nessuna forma di protezione né interventi di messa in sicurezza. All’interno del sito è cresciuta una folta vegetazione che impedisce la fruizione e alcune delle travi sono a rischio di crollo. Evidenti sono anche le tracce di scavi illegali compiuti in tutto il monte.
Periodo Romano e primo cristianesiomo
Grotta dei Santi (vedi)
Nel 250, l’imperatore Decio emanò un editto secondo cui ogni persona doveva effettuare un sacrificio alle divinità della Religione romana; il rifiuto avrebbe significato il rifiuto di sottomettersi all’impero e la pena sarebbe stata la condanna a morte. Verso la fine del 251, mentre era a capo dell’impero Treboniano Gallo, succeduto a Decio, un plotone di soldati romani si presentò a Vaste nel leccese, nella casa patrizia di Vitale e Benedetta da Locuste. Avevano l’ordine incarcerare i loro tre giovani figli, Alfio, Cirino e Filadelfo, rei di avere infranto la legge con la professione cristiana. Dopo vari trasferimenti, per essere processati, presso i consoli e patrizi romani dell’Italia meridionale i tre fratelli finirono in Sicilia, ove governava Tertullo, giovane patrizio romano che aveva fama di funzionario autoritario. Sbarcati a Messina il 25 agosto del 252, Alfio, Cirino e Filadelfo subirono un primo processo a Taormina. Passarono poi dall’attuale Trecastagni, alle falde dell’Etna, dove durante una sosta, una donna pietosa donò ai tre fratelli altrettante castagne, che loro piantarono nel terreno. È, d’altra parte, possibile che il racconto delle castagne origini dalla cattiva interpretazione dell’espressione “tre casti agni”, cioè agnelli, nome con cui sarebbero stati indicati originariamente i tre. Vennero infine condotti a Lentini dove Tertullo li affidò al suo vicario Alessandro. Viveva allora a Lentini Tecla, nobile e cugina di Alessandro che da oltre sei anni era stata colpita da paralisi alle gambe. Sapendo dei poteri taumaturgici dei tre fratelli, chiese al cugino di poterli incontrare, per ottenere, per loro tramite, la guarigione. I tre fratelli rimasero commossi alla vista di quella bella giovane immobilizzata sul letto e le promisero che avrebbero pregato per lei. Durante la stessa notte a Tecla sarebbe comparso in sogno l’apostolo Andrea, il quale, segnatala con un segno di croce, le assicurò che sarebbe guarita grazie all’intercessione di quei giovani incarcerati da Tertullo. La leggenda racconta che ella si svegliò guarita e volle recarsi subito al carcere per ringraziare i tre giovinetti che, da allora, continuò a visitare ogni giorno di nascosto, assistendoli, confortandoli e portando loro da mangiare. Ma Tertullo, arresosi di fronte allo loro inflessibile costanza nella fede in Cristo, emanò la sua sentenza, seguita dall’immediata esecuzione: dopo averli fatto girare ammanettati e frustati per le vie di Lentini, ad Alfio venne strappata la lingua (per questo motivo è considerato il patrono dei muti), Filadelfo fu bruciato su una graticola, Cirino fu immerso in una caldaia di olio bollente. Era il 10 maggio del 253 ed Alfio aveva 22 anni e 7 mesi, Filadelfo 21 anni, Cirino 19 anni e 8 mesi. Su ordine di Tertullo, i loro corpi martirizzati furono legati con funi e trascinati in una foresta, chiamata “strobilio” per la gran quantità di pini esistenti. Le spoglie vennero buttate in un pozzo secco, vicino alla casa di Tecla, ormai convertita, la quale, nella notte tra il 10 e l’11 maggio, accompagnata dalla cugina Giustina e da undici servi (di cui cinque donne), estrasse i corpi e, trasportatili in una campagna vicina, diede loro degna sepoltura, sfruttando una piccola grotta, quella oggi contenuta nella chiesa di Sant’Alfio e sulla quale successivamente, nel 261, placatesi le persecuzioni, venne eretto un tempio ed essi dedicato. Il primo vescovo di Lentini fu Neofito, nuovo nome di quell’Alessandro, vicario di Tertullo, convertitosi anch’egli al cristianesimo e consacrato nel 259. (10)
San Giuliano (vedi)
Alle pendici del monte Tirone a Lentini si ritrovano le tracce di un gruppo di case scavate nella roccia e della chiesa di san Giuliano. La chiesa prima dell’età cristiana dovette essere una tomba di epoca pregreca che i cristiani ampliarono con un’abside costruito davanti alla grotta, abside che crollo in seguito al terribile terremoto del 1693.
Medioevo
Grotta del Crocifisso (vedi)
La grotta risulta composta da almeno due ambienti quadrati simmetrici, comunicanti attraverso un varco. Il vano di destra appare leggermente più ampio dell’altro e, per la presenza di un’abside scavata immediatamente a destra dell’ingresso ad Est, si configura coma la vera e propria chiesa. Il vano di sinistra, invece, che adesso ha un ingresso autonomo, probabilmente in origine una finestra, sembra frutto di una ricostruzione settecentesca che lo adibì a culto. Le notizie documentarie sulla grotta sono scarsissime se si esclude il graffito con data 1764 posto sulla porta d’ingresso al vano e dovuto ad una risistemazione dello stesso grazie ad eremiti laici locali. Antecedentemente, probabilmente nel XVI secolo, il vano era stato adibito a sepolcreto, come risulterebbe dalla lettura del pavimento e del vano sottostante quest’ultimo, riconoscibile come ossario. A questo periodo, probabilmente, sono dovuti ingenti lavori di ristrutturazione dello spazio sacro, con l’apertura di due varchi tra i due vani principali del complesso e del listello di roccia che divide il vano dedicato al culto e, infine, con l’escavazione di un ambiente atto a rendere più profondo l’invaso principale. In seguito a questi lavori si attuò una sorta di ribaltamento dell’asse della chiesa con il posizionamento dell’altare di fronte all’ingresso, dedicato alla Vergine, come attesterebbe un affresco cinquecentesco ancora tardo gotico. Circa la scoperta della grotta è necessario risalire fino a E. Bertaux che la considera come l’unica dell’Isola; studi ulteriori sono quelli di P. Orsi, S. Ciancio, G. Agnello e, infine, A. Messina. La chiesa del Crocifisso presenta il più complesso apparato iconografico della Sicilia rupestre. In essa, infatti, è testimoniata la continuità del culto del luogo con la presenza di almeno cinque fasi decorativa che non possono essere definite semplici pitture votive ma, almeno per quanto riguarda i dipinti del secondo strato (nel catino absidale e lungo le pareti della chiesa, con la presentazione della teoria dei santi), fanno parte di un vero e proprio programma iconografico rinnovato in tempi diversi. La cattiva leggibilità degli affreschi non permette una sicura ipotesi circa la datazione degli stessi; essa può essere solo accennata su base archeologica e, solo dove i lacerti pittorici lo permettono, su analisi stilistiche. Apparterrebbero ad una prima fase di frequentazione della grotta (XII sec) piccole tracce di affreschi posti lungo la parete meridionale del vano maggiore, coperti da pannelli di poco più recenti. Essi sono distribuiti in formelle disposte su almeno tre ordini e rappresenterebbero Scene del Giudizio Universale riprendendo un tema iconografico molto comune nel mondo medioevale. Al XIII secolo sono riferibili porzioni di affreschi organizzati per pannelli isolati; essi occupano la parete e la conca absidale ad est e rappresentano: la Crocifissione e il Pantocrator. La Crocifissione è, purtroppo, molto frammentaria tanto da permettere l’identificazione solo del Cristo con la testa reclinata e della Vergine. Il Pantocrator è racchiuso in una mandorla decorata con crocette bicrome rosse e nere, assiso in trono e affiancato da una coppia di angeli. L’iconografia del Cristo è affine a quella del Duomo di Cefalù e altri particolari, permettono di ravvisare forti contatti con la pittura bizantina dell’inizio del XIII secolo. Presumibilmente vicini a tali lacerti pittorici sono i pannelli del cosiddetto Polittico di San Leonardo: Santa Elisabetta, la Mater Domini, San Leonardo, San Giovanni Battista e un Santo vescovo. La “galleria” iconografica della chiesa si arricchisce, poi, nei secoli XIV – XVII con le rappresentazioni di Santi legati all’Occidente e, in particolare, si ipotizza al mondo francescano. A quest’epoca, infatti, possono datarsi i pannelli di un Santo vescovo (Eligio?), S. Chiara o S. Caterina da Siena (?), S. Pietro, Santo cavaliere su cavallo bianco, San Calogero, un Santo diacono, e quindi un Cristo Viandante e un San Cristoforo, Madonna del Carmine (Madonna con Bambino), Madonna in trono. Didascalia: S(AN)C(T)A [MA]RIA DE O[DI]GI[TRIA], Santo vescovo, Madonna del Latte (Madonna dell’Umiltà), Madonna Elusa, Mater Domini, Santa Margherita con sei formelle con scene della vita. Osservazioni La chiesa del Crocifisso è tra le più importanti del folto gruppo ecclesiastico rupestre siciliano. Nonostante gli studi sullo sviluppo planimetrico del complesso siano ancora lacunosi, un grande aiuto per la comprensione piena del valore della grotta viene dall’eccezionale apparato iconografico. Attraverso lo studio di esso, infatti, si può dedurre che originariamente la grotta fosse dedicata alla Vergine (in tal modo si spiegherebbe l’affresco cinquecentesco posto sull’altare di fronte all’ingresso) e l’intera decorazione della parete nord, con pannelli legati al culto mariano. È possibile, inoltre, che in tale grotta fosse localizzato il culto di Santa Maria della Cava, cui era intitolata la prima cattedrale di Lentini. Riguardo la nuova denominazione di “grotta del Crocifisso” è possibile che essa fosse legata alla rappresentazione di un Crocifisso a sinistra dell’abside, probabilmente, di epoca secentesca. (11)
Grotta san Mauro (vedi)
In una terrazza mediana della costa orientale di cava San Mauro, 1 km circa a sud di Lentini, si hanno i resti di un interessante oratorio facente parte di un quartiere rupestre medioevale. Gli alloggi grottali sono allineati per alcuni centinaia di metri lungo la stessa terrazza e consistono di cameroni con soffitto piano delle tipologie lentinesi comuni. Della chiesa si conserva una stanzetta absidata ma si hanno palesi indizi dell’esistenza di un’altra camera più esterna con funzioni di atrio o di NAOS (cella del tempio, vale a dire lo spazio propriamente adibito al culto. Nella Architettura Cristiana ha vari significati: generalmente era la parte della chiesa compresa fra il NARTECE ed il BEMA, ma nel Medioevo Bizantino spesso con esso si designava l’intera chiesa.) L’ambiente superstite ha iconografia pressappoco trapezia e soffitto a forma di volta a botte ribassata. L’Abside, posta nella parte di levante, ha buona planimetria tonda e profilo d’alzato a sesto acuto. Il vano esistente ha una dimensione di : larghezza media mt 3,00 ; profondità mt 3,75; Abside – larghezza mt 2,15 e profondità mt 1,45. L’Oratorio era in gran parte affrescato. Nella conca Absidale era visibile un volto giovane di Cristo Pantocratore, un angelo e varie lettere a caratteri gotici. Nella parte laterale di sinistra si trovano 4 strati sovrapposti di dipinti bizantini …. Si tratta di un organismo sorto probabilmente nel XIII secolo (notizie prese dagli studi di S. Ciancio). La chiesa di San Mauro potrebbe avere accolto un insediamento monastico collocabile ad una presenza benedettina nella zona, Non ci sono notizie documentate. Nella calotta absidale, secondo il Cioancio, il dipinto poteva rappresentare una Natività. ci sono due angeli musicanti. L’Abside era fiancheggiata da 2 grandi pannelli incorniciati, si tratta di un S. Benedetto e di un S.Mauro (?????) Il Pisano Baudo parla della presenza di una immagine di S.Mauro. NARTECE o ATRIO= locale che nelle chiese Bizantine anticipava lo spazio chiesastico vero e proprio e che spesso disimpegnava anche altri ambienti (esempio il Battistero). BEMA= parte della chiesa Bizantina generalmente rialzata da gradini nella quale è posto l’altare e tutta l’area riservata al clero officiante. E’ delimitata dal resto della chiesa dall’iconostasi o da cancelli o da transenne. (7)
Castellaccio (vedi)
Non distante dalla basilica del Murgo, a Sud del moderno abitato di Lentini, esistono alcuni ruderi identificabili con la struttura federiciana menzionata dai documenti dell’epoca come Castrum Vetus, tramandataci poi come II Castellaccio . Essi sono visibili sopra un promontorio che si innalza tra le valli del Crocifisso e di San Mauro, fiancheggiato a Sud-Est dal monte Lastrichello e a Nord- Ovest dal monte Tirone. La nascita di Lentini (Leontinoi’), fondata dai calcidesi nel 729 a. C., si inquadra nel movimento della colonizzazione greca. Dionigi di Siracusa fortificò il promontorio che, secondo qualche studioso potrebbe essere identificato con il forte Bricinna menzionato da Tucidide in occasione delle discordie civili che insanguinarono la città agli inizi del V secolo a.C. Conquistata poi dai romani di Marcello (212 a.C.) e sottoposta al dominio arabo prima e poi risollevatasi con la conquista normanna, la città raggiunse un buon livello di floridezza in epoca sveva. L’imperatore Federico già amante delle terre vicine di Augusta e Siracusa, destinò questo sito strategicamente perfetto al controllo di tutto il territorio e del mar Ionio, mediante l’edificazione di un castrum. La città peraltro era stata già oggetto di interesse da parte dello svevo, il quale nel 1209 si trasferì da Palermo a Catania come ci riferisce Rocco Pirro. Sconfortato dalla morte prematura del cognato Alfonso e dal propagarsi di un’epidemia tra il seguito reale ritemprò il proprio spirito nelle terre di Lentini. “Il giovanissimo Imperatore, che già maturava in sé una fervida passione per la storia naturale, lasciò più di una volta la nuova sede, dividendo il suo tempo tra i boschi del Murgo e i silenzi del Pantano e del Biviere, attrattovi dall’abbondanza della caccia e della pesca”. Nel 1223, dopo aver domato la rivolta musulmana di Sicilia, relegò una parte dei ribelli ai castra di Lentini e Siracusa. Dieci anni dopo convocò a Lentini il Parlamento siciliano (in solemni colloquio apud Leontinum). Ricca di nomi lentinesi si rivela la corte federiciana a cominciare dal famoso Riccardo sino a Jacopo e a Giovanni da Lentini, prova del fatto che l’Imperatore frequentava in maniera particolare questo territorio. Circa la costruzione del castrum i documenti più importanti, come avviene per il castello di Siracusa, sono le famose lettere lodigiane del 1239 inviate a Riccardo da Lentini, a Guglielmo di Anglone e al Majore de Plancatore. Soprattutto da quella inviata alpraefectus novorum aedificiorum Riccardo apprendiamo notizie sui lavori e sull’approvvigionamento al Castrum Vetus che ci permettono di porre i termini cronologici del cantiere tra il 1223 e il 1239 e, allo stesso tempo, ci offrono una situazione simile a quella dei cantieri di Siracusa e Augusta. Il Castellacelo si inquadra tra i castelli rinnovati da Federico; si imposta infatti, su una precedente fabbrica di età greca, come vedremo. Le vicende storiche successive al periodo svevo vedono il Castellacelo passare agli angioini. Nel 1282, durante i Vespri, il governatore di Lentini, Papirio Comitini si rinchiude tra le sue mura, ma viene tuttavia ucciso. Nell’ottobre dello stesso anno Pietro d’Aragona nomina castellano Riccardo Passaneto. Nel corso del XIV il Castellacelo è teatro degli scontri tra le famiglie Ventimiglia e Chiaramonte fino a quando Blasco Alagona assedia ed espugna la fortezza. Nel 1394 resta sotto il potere di re Martino sino a quando, nel 1414 la regina Bianca di Navarra assegna al castello un castellano, un vicecastellano, un portiere, dodici inservienti e un cappellano. Nel 1434 Alfonso V concede il castello a Vincenzo Gargallo, come confermato dal testo di una lapide ritrovata nel 1814 tra i suoi ruderi. Nel 1542 il castello viene notevolmente danneggiato dal terremoto. Nel 1693 subisce sicuramente i danni gli ultimi causati dal tremendo evento sismico del gennaio di quell’anno. Si riteneva sino a qualche tempo fa che il castello fosse caduto totalmente in abbandono. Ma, come ci informa S. L. Agnello, un documento datato 1735, trovato di recente da Gioacchino Gargallo, ci dà notizia che in quell’anno la guarnigione del castello ricevette una fornitura di polveri, prova quindi della continuità d’uso della fortezza anche dopo il terremoto. Le sue rovine furono viste e descritte dall’Amico e dal Fazello. La sua identificazione precisa e puntuale si deve a G. Agnello il quale accoratamente scrive:” l’opera tenace di trasformazione agricola, secondata dall’incessante azione degli agenti atmosferici, tende a livellarne i ruderi che si disgregano e spariscono sotto ingenti masse di terra, mentre la vegetazione rigogliosa ne oscura la visione con la sua densa macchia verde”. Si deve poi arrivare al 1986 per vedere pubblicati i risultati dei primi interventi di restauro e valorizzazione del Castellacelo di Lentini operati dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Catania, con la collaborazione di quella di Siracusa, che hanno però interessato soltanto l’ambiente sotterraneo. Attualmente in proprietà del comune di Lentini risulta in stato di totale abbandono e perciò non è fruibile. Scriveva G. Agnello nel 1935: “Forse tra un secolo, se un più pietoso culto per le glorie patrie non si appresti a salvare dallo sfacelo le ultime rovine, del glorioso castello sarà sparita ogni traccia”. Nella speranza che questa profezia non abbia ad avverarsi ci si auspica non solo un pronto intervento di salvataggio dei pochi resti murari che rischiano di precipitare nel fondovalle, ma anche di una vera e propria campagna di scavi, mai tentata, che miri al recupero delle parti ancora giacenti sotto il terreno. Il ritrovamento occasionale e fortuito di una capitello svevo oggi conservato nei magazzini del Museo di Lentini, è una prova tangibile dell’esistenza di altri materiali che potrebbero fornire elementi per un tentativo di ricostruzione degli ambienti e dell’apparato scultoreo che pur doveva esistere. La situazione topografica del sito dove nel medioevo sorgerà il Castrum Vetus, non era certo stata trascurata dai greci fondatori di Leontini i quali, creando dei tagli artificiali, veri e propri fossati, avevano bloccato le principali vie d’accesso da Nord proteggendo la città in maniera efficace. Paragonabile per concezione alla fortificazione dell’Epipole (Castello Eurialo) di Siracusa, questo sistema si avvaleva di due grandi fossati, uno lungo circa 70 metri e l’altro circa 50, profondi e larghi 20 metri. Entrambi i fossati sono collegati alle alture del Tirone (ad Ovest) e del Lastrichello (a Sud) da due istmi. Tracce d’imposta di un ponte levatoio sono state rilevate sull’istmo ad Ovest. Lungo la parete del fossato occidentale esistono due file di tre piombatoi abilmente tagliati attraverso i quali si potevano far precipitare massi sui nemici che avessero superato i fossati. Riguardo ad opere murarie del periodo classico ne esiste una identificata vicino all’istmo del fossato occidentale: si tratta di una cortina lunga circa 10 metri realizzata con conci di pietra calcarea dei quali rimangono sei filari. Molti studiosi sono d’accordo nell’identificazione di questo forte con il Arianna delle fonti. Da non trascurare la frequentazione nella fase cristiano-bizantina, attestata da un vero e proprio insediamento rupestre lungo il versante Ovest, di cui rimangono le tracce deturpate e letteralmente lacerate in tempi moderni. Esistono miseri avanzi di una chiesetta in grotta con tracce di affreschi lungo le pareti. La costruzione del castello svevo sulla preesistente fortezza greca diede un’impronta decisamente nuova e maestosa al promontorio: con le sue mura possenti la cui altezza veniva accentuata dai profondi fossati e dalle valli naturali, il castello doveva apparire come un vero e proprio nido d’aquila e “dominatore superbo”, per usare una definizione di G. Agnello. L’attuale accesso al Castrum Vetus avviene attraverso un viottolo che si lascia alla destra il fossato sud-est, oggi colmato dalla presenza di un agrumeto e conduce alla rocca dal lato Sud. Il primo rudere che ci appare è quello che ha conservato il maggiore numero di conci ancora in piedi relativo ad una delle tre torri (tribus turribus) costruite nell’ambito della roccaforte come si legge nella lettera lodigiana scritta dall’imperatore a Riccardo da Lentini. Lungo il lato Sud, proprio dove esiste la cortina muraria di epoca greca, si imposta una poderosa struttura in conci di grandi dimensioni (m 1,60 x cm 45-55) allettati con malta, della quale rimangono 15 metri in larghezza e 10 metri in altezza per un totale di una ventina di assise. Le misure dei conci diminuiscono nelle assise superiori creando un suggestivo effetto di continuità con la parete rocciosa artificialmente tagliata. Essa si configura a mó di prua di nave dominando il fossato sottostante. Nel ‘500 il Fazello menziona l’esistenza di quest’opera definendola arx triangolare, cioè a forma di triangolo i cui vertici erano orientati secondo i tre capi della Sicilia. Anche l’Arezzo riferisce della sua forma con tre angoli. L’Amico nel XVIII secolo la descrive ridotta in rovine a causa dei terremoti. Appare evidente e per le fonti e per la strutturazione che essa sia una delle tre torri che facevano parte del Castellacelo. All’interno dei resti della torre è ancora leggibile, nonostante i numerosi crolli, la presenza di un ambiente rettangolare con relativa porta (larga m 2) che dava l’accesso ad un ambiente sotterraneo oggi interrato: sulla sua funzione solo indagini mirate potrebbero far luce. È oggi difficile dire in che modo la torre si collegasse con la cortina muraria del versante sud-orientale essendone scomparsa ogni traccia. A difesa del lato meridionale della roccaforte doveva esistere un muro che, piegando ad Est, si collegava con la torre: un breve tratto è ancora miracolosamente in piedi in una posizione di “slittamento” verso il fondo valle. Lo chiameremo il “muro dei marchi” perché sui suoi conci ne sono leggibili ancora parecchi, ma per quanto tempo ancora? G. Agnello (intorno al 1930) ne misura 10 metri lineari oggi non più tutti conservati. Sarebbe un vero peccato perdere quest’unica pagina ancora con i segni dei lapicidi abbastanza ben conservati e che con molta probabilità fa parte di quel rifacimento menzionato nella lettera lodigiana che guardava al Castellum Novum, rivolto proprio ad occidente. Tratti di mura si possono ancora vedere sul lato occidentale che risulta particolarmente protetto dal fossato preesistente. Qui la natura geologica ha creato erosioni non indifferenti e l’uomo ha scavato numerosi ingrottamenti. Lungo la parete rocciosa sono presenti i piombatoi di cui si è già parlato. La parete Nord che domina la valle del Crocifisso è quella maggiormente danneggiata dalle frane, ma nell’angolo Nord-Ovest resiste un breve tratto di muro dell’altezza di m 1,85. Esso conserva due feritone rettangolari, forse anch’esse con la funzione di piombatoi. Il muro è praticamente scollato dal piano di roccia. Sul pianoro, tra le sterpaglie, si riesce a fatica ad individuare qualche altro resto. Parallelo al bordo occidentale che guarda al monte Tirane, alla distanza di m 5, rimane la parte basamentale di un muraglione lacunoso del rivestimento, lungo m 30 con uno spessore di m 2,40 che in origine doveva essere di 2,60 con un’interruzione nella parte mediana che potrebbe essere interpretata come l’apertura di un portale. Questa cortina si colloca nel probabile sito di una torre ottagona a difesa della porta rivolta ad occidente, una delle tre torri menzionate nella lettera lodigiana. L’esistenza di questa torre è ricordata dall’Amico che ancora alla metà del settecento ne descrive ingenti rovine con conci recanti i marchi dei lapicidi, ma era già scomparsa ai tempi del sopralluogo di G. Agnello. Della terza torre, ubicata forse a difesa del lato di Nord-Est, nulla al momento è visibile. La funzione strategica della torre ottagona è similmente organizzata come quella triangolare a Sud-Est. Nel caso in cui il nemico fosse riuscito a superare i fossati e gli istmi relativi si sarebbe trovato di fronte a queste imponenti torri collegate con le cortine murarie, praticamente inespugnabili. (Durante lavori di ripulitura si rinvenne casualmente un capitello svevo proprio in questa parte ora descritta). Due cisterne al centro e una con cunicoli, prossima al lato Nord, indicano che l’approvvigionamento idrico fu uno dei maggiori problemi qui risolti, i cui meccanismi rimangono ancora non studiati. Nella parte Sud-occidentale attraverso una porta e discendendo una scala composta di 22 gradini (lunghezza m 9, altezza m 2, larghezza m 1,50) coperta con volta a botte a tutto sesto realizzata con conci di calcarenite di raffinata fattura, si accede attraverso un vestibolo (m 1,60 x m 1,50) servito da due porte delle quali rimangono le incorniciature, ad un ambiente sotterraneo. Tutto il sistema è stato oggetto dell’intervento di restauro operato dalla Sovrintendenza di Catania nel 1986.1 gradini della scala sono stati rivoltati perché troppo logori; di integrazione è un buon tratto della copertura a botte della scala. Il confronto più immediato è con la scala del cosiddetto Bagno della Regina nel castello di Siracusa, anche se qui, a Lentini, non esiste più l’elemento murario ove sicuramente si innestava l’ingresso alla scala, oggi interamente rifatta. La scala di Lentini portava ad una ambiente sotterraneo di forma rettangolare (m 16,72 x m 5,58) sicuramente scavato nella roccia le cui pareti furono rivestite da un paramento murario con conci di misura più o meno regolare poggianti su banchinamento. Nulla rimane del piano di calpestio medievale. Lungo la parete est si legge la data del 1579, sicuramente relativa ad un restauro della stanza ipogeica, sulla cui realizzazione in periodo federiciano non dovrebbero esservi dubbi dal momento che i conci presentano ancora numerosi marchi confrontabili non solo con quelli esistenti sul frammento del “muro dei marchi”, ma anche con quelli del “Castello “di Siracusa. Certamente oggi la lettura dei marchi è difficilissima a causa della corrosione dei blocchi. E noto come il Fazello, osservandoli, agli inizi del XVI secolo, rimanesse affascinato e meravigliato dalla loro presenza fantasticando sulla loro funzione. La sala è scompartita in cinque settori (larghezza m 3) dai quattro semipilastri (altezza m 2, 87) a parete oggi alquanto frammentati, ma che ci permettono di leggere le imposte delle ghiere d’arco che decoravano (e non supportavano, esattamente come a Castel Maniace) la copertura con volta a botte a sesto acuto. Ogni scomparto della volta presenta due dispositivi di apertura verso l’esterno sulla cui interpretazione restano molti dubbi. Se si tratta di areatori si potrebbe interpretare l’ambiente sotterraneo come magazzino per le granaglie, se si tratta di caditoie la funzione del sotterraneo diventa strategica. “L’esistenza del sotterraneo sarebbe inspiegabile se non fosse possibile porlo in collegamento con un sistema di vie segrete attraverso le quali si potesse raggiungere, in caso di necessità, l’esterno del castello”. Numerose sono ancora le parti sotterranee da esplorare come ad esempio i cunicoli di una cisterna e quelli che dalla cosiddetta Grotta delle palle lungo il lato meridionale del promontorio, che secondo A. Pavone, potevano essere in comunicazione con la sala in esame. L’ultimo rudere da segnalare e da ricordare prima che precipiti a valle è relativo forse ad una cappella. Si tratterebbe della parte absidale, del diametro di m 4, oggi sul bordo dello strapiombo. A prima vista la tecnica muraria farebbe pensare ad opera bizantina a meno che, come vuole qualche studioso, essa non rappresenti Yemplecton, cioè il rinzeppamento del muro svevo il cui fodero è andato perduto. L’esistenza di una struttura chiesastica al Castellaccio viene ricordata nel 1675 quando, per timore di una attacco dei francesi che avevano assediato Lentini, si mise in salvo un’antica tavola raffigurante la Madonna conservata da secoli nella fortezza, ancora oggi conosciuta con il nome di Madonna del Castello. La presenza di una ipotetica cappella nell’ambito di questa roccaforte militare già risalente al periodo svevo è ancora da ponderare attentamente. La presenza inoltre di “numerosi ambienti sia a pozzo (con pareti verticali rivestite in conci squadrati) che a volta (con botola in sommità), ancora tutti da esplorare” ci pone ancora una volta di fronte al grosso problema conoscitivo di questo straordinario complesso monumentale la cui soluzione non può essere data da argumenta ex silentio. Le poche tracce monumentali del Castellaccio di Lentini in una situazione naturalistico-ambientale di straordinaria suggestione, si pongono come uno stimolante puzzle che solo attraverso una seria e scientifica indagine esplorativa potrà essere ricomposto. (9)
Feudo san Leonardo (vedi)
Quello dei Pauperes commilitones Christi templique Salomonis (“Poveri compagni d’armi di Cristo e del tempio di Salomone”), meglio noti come cavalieri templari o semplicemente templari, fu uno dei primi[1] e più noti ordini religiosi cavallereschi cristiani medievali. La nascita dell’ordine si colloca nella Terra santa al centro delle guerre tra forze cristiane e islamiche scoppiate dopo la prima crociata indetta nel 1096. In quell’epoca le strade della Terrasanta erano percorse da pellegrini provenienti da tutta Europa, che venivano spesso assaliti e depredati. Per difendere i luoghi santi e i pellegrini, nacquero diversi ordini religiosi. Intorno al 1118-1119 un pugno di cavalieri decise di fondare il nucleo originario dell’ordine templare, dandosi il compito di assicurare l’incolumità dei numerosi pellegrini europei che continuavano a visitare Gerusalemme. L’ordine venne ufficializzato nel 1129, assumendo una regola monastica, con l’appoggio di Bernardo di Chiaravalle. Il doppio ruolo di monaci e combattenti, che contraddistinse l’Ordine templare negli anni della sua maturità, fu sempre fonte di perplessità in ambito cristiano. L’ordine templare si dedicò nel corso del tempo anche ad attività agricole, creando un grande sistema produttivo, e ad attività finanziarie, gestendo i beni dei pellegrini e arrivando a costituire il più avanzato e capillare sistema bancario dell’epoca. La vastissima diffusione delle sedi dell’Ordine, in Europa ed anche in Italia, fu legata anzitutto alla necessità di mantenere attiva in Terrasanta la forza combattente, in termini economici e finanziari. La maggioranza degli insediamenti era rivolta alle colture agricole, ma non mancavano le sedi dedicate alla gestione amministrativa delle proprietà, al reclutamento, o al controllo di attività complementari, come l’allevamento di cavalli da trasporto e da combattimento, o le attività metallurgiche connesse con la produzione di armi. La presenza delle sedi templari in Italia ammontava ad almeno 200 località, dal nord al sud. Nel capitolo “commende” della sua Storia dei martiri e della chiesa di Lentini lo storico locale Pisano Baudo fa il punto sulla presenza dei Templari a Lentini: “I Cavalieri Templari avevano avuto donati dal Conte Ruggiero sette feudi pertinenti al vescovado di Lentini, ed avevano occupato alle falde del colle Evarco, sul terreno piano, l’antichissima chiesa eretta da S. Neofito, e dedicata a S. Andrea Apostolo. Essendo stata assegnata questa chiesa nel 1126 dalla Contessa Adelaide al monastero di S. Andrea di Piazza dell’Ordine di S.Agostino, il Conte di Modica Riginaldo fondò una casa sotto il titolo di S. Leonardo, e la diede ai religiosi militari Cavalieri Templari, con la dotazione del fiume pescatorio di Lentini, ossia il Pantano salso. Questa donazione fu conferamata da Federico II con diploma del 1210…”
Santa Maria degli Ammalati (vedi)
In tempi assai remoti fu fondata a Lentini su una collina distante circa 6 Km (4 miglia all’epoca) dal centro urbano, una Casa Ospedale dell’Ordine Religioso Militare di San Lazzaro. Estinta la Commenda rimase la chiesa sotto il titolo di Santa Maria degli Ammalati. Nel 1591 la signora Anna Modica vi fonda un Beneficio di Diritto Patronato. Conversano il 15 Agosto 1685 scrive questa nota: “Decimo actavo kal. Septembris, dedicato ecclesiae imaginis miraculosae sanctae Mariae Infirmorum, quarto ab urbe milliario. Hac dedicationem exponunt tabulae saepius citatae nostrae ecclesiae leontinae, quo ob miraculorum frequentiam,ab opem divinam poscendam, tum finitimi, tum longinqui populi conveniunt. ex quo mirabiliter colitur et licet ab urbe distans, quotidie tamen divinum in ea sacrificium peragitur”. L’antico Tempio fu distrutto dal terremoto del 1693. Nel 1704 sulla stessa collina fu eretta l’attuale Chiesa con poche stanze adibite ad eremitoio. Sulla porta maggiore della nuova chiesa si legge (leggeva) scolpito nella pietra : “Don Rosario Fiamma tesoriere 1704”. Oggi si vedono solo i ruderi, antiche pietre che hanno tanto da raccontare. Fino a quando sarà possibile vedere queste pietre??!! Tutto il territorio parla, ha tanto da dire. Sono pochi coloro che ascoltano. (7)
Santa Maria la Cava (vedi)
Il Duomo dedicato a Santa Maria la Cava e Sant’ Alfio, fu edificato nell’impianto attuale tra il 1700 e il 1750. E’ attribuito tradizionalmente all’architetto Vincenzo Vella da Malta. Fu costruito sulla piccola Chiesa di S. Alfio, sorta dopo il catastrofico terremoto del 1693, sulle rovine della precedente basilica dedicata a S. Alfio. Ha impianto basilicale, a tre navate, secondo lo schema tradizionale delle Basiliche Memorie o Funerarie edificate, sin dall’epoca paleocristiana, sulle tombe dei martiri. I lavori per la costruzione dell’attuale Duomo impegnarono per quasi cinquant’anni le risorse della città. Esso non fu del tutto terminato secondo il progetto originario, e tutt’oggi sono visibili diverse parti prive di decorazione pittorica. Esso è preceduto da un Sagrato di ciottoli bianchi e neri con motivi geometrici. La facciata di chiara impronta barocca è a tre ordini, l’ultimo è costituito dalla torre campanaria, in cui, nella nicchia centrale, spicca il campanone, fuso nel 1595 ad honorem Dei sanctorum fratrum martirum Alphii Philadelphi et Cirini.Di particolare interesse la porta lignea centrale. All’interno la Chiesa riccamente decorata è divisa in tre navate da due file di sei colonne per lato (numero simbolico indicante i 12 Apostoli). Sull’Arco trionfale è posta una scritta nella quale si dichiara che la Chiesa lentinese riconobbe Maria, Madre di Dio, prima del Concilio di Efeso. Gli affreschi della volta centrale e del transetto del secolo XVII, i quadri degli altari laterali e del vano presbiterale (altare maggiore), dei secoli XVII e XVIII raffigurano i tanti martiri della chiesa lentinese (altari laterali), storie di miracolati, cammino della Chiesa lentinese (altare maggiore). Nel catino absidale dell’altare maggiore, è posto un organo a canne della seconda metà del XVIII secolo. Nell’altare del Sacramento è custodita una icona bizantina, raffigurante la Madonna Odigitria, nella navata di destra sono visibili tre arcosolii paleocristiani affrescati, da tutti indicati quale sepolcro dei Santi martiri, essi sono ciò che rimane di un vasto complesso catacombale. In sagrestia è visibile un armadio ligneo intarsiato del secolo XVIII raffigurante Santa Tecla e Santa Giustina.
La cripta
Fin dai tempi più remoti la morte e le pratiche funerarie ad essa collegate hanno affascinato l’uomo: la morte non è solo la fine dell’esistenza ma ha in se tanto altro… non può essere circoscritta solo a un approccio materialistico. Per tale motivo, studiare e conoscere le pratiche funerarie utilizzate nel passato può aiutarci a tentare di interpretare il rapporto e il modo di intendere la morte: nel Regno delle Due Sicilie si diffusero particolari pratiche funerarie finalizzate alla preservazione dei corpi: la mummificazione e la scheletrizzazione. Entrambi i trattamenti venivano messi in atto in cripte sotterranee poste sotto la pavimentazione delle chiese o conventi (consuetudine diffusa in tutto il meridione d’Italia, soprattutto in Sicilia, dal XVI al XIX secolo), con la finalità di privare il corpo del defunto della parte putrescibile. Nella mummificazione, il corpo veniva posto in un colato orizzontale per far essiccare rapidamente i tessuti, anche grazie a particolari condizioni climatiche e ambientali, e subito dopo essere rivestito ed esposto. (es. Catacombe dei Cappuccini a Palermo). Nella scheletrizzazione il corpo veniva deposto in ambienti funerari “provvisori”, in posizione seduta su appositi sedili-colatoi, in muratura o ricavati nella roccia, dotati di foro centrale per il deflusso e la raccolta dei liquidi cadaverici e dei resti in via di decomposizione. Terminato il processo di putrefazione dei corpi, le ossa venivano raccolte, lavate e trasferite nella sepoltura definitiva dell’ossario, altro ambiente solitamente posto in prossimità delle cripte stesse. È proprio dal processo di putrefazione, destinato a liberare le ossa dalle carni in disfacimento che tali ambienti presero il nome di putridarium, come la cripta oggi visibile e annoverata fra quelle censite in Sicilia. Questo processo di scarnificazione, durante il quale l’aspetto del corpo attraversa una serie di modificazioni, è caratterizzato dal progressivo disfacimento delle carni (considerate elemento contaminante) fino alla completa liberazione delle ossa (simbolo di purezza e definitività), assimilabile, anche visivamente, ai vari stadi di dolorosa “purificazione” che l’anima del defunto deve percorrere nel suo viaggio verso l’eternità, accompagnato dalle preghiere e suffragi dei vivi. In tal modo la morte è un passaggio da un regime ontologico ad un altro, un passaggio durante il quale fra i vivi e i morti si stabiliscono forti relazioni (preghiere di suffragio, verifica dell’avvenuta scheletrizzazione… quasi un luogo di purificazione collettiva a metà strada fra il cielo e la terra), destinato a sfociare nella seconda definitiva sepoltura che sancisce la definitiva accreditazione del defunto nell’aldilà, con il suo conseguente cambiamento di stato. (13)
San Giuseppe il Giusto (vedi)
Le rovine della medievale Chiesa di San Giuseppe Giusto si trovano presso il Colle Ciricò a poca distanza dalle rovine dell’antica città di Leontinoi. Presumibilmente si tratta di una chiesa medievale appartenente ad un imprecisato ordine monastico consacrata al “Padre Giusto e Saggio di Cristo” ossia “San Giuseppe”. La facciata di questa chiesa è irreparabilmente danneggiata dal tempo, dall’incuria del passato e dall’abbandono a cui versava. Comunque essa si presentava quadrangolare delimitata da due ampi pilastri al cui centro vi è il portale d’accesso e una finestrella rotonda. All’interno della chiesa (scoperchiata a causa del crollo del tetto) possiamo ammirare i resti della pavimentazione, alcuni Altari ma soprattutto gli affreschi che adornavano le pareti di questa chiesa. (14)
Barocco
San Marziano (vedi)
on è cosa facile e semplice parlare del Monastero della Trinità e San Marziano di Lentini. Bisogna andare a ritroso nel tempo e nella storia.Spulciando antichi documenti vien fuori che l’attuale Monastero conta dal 1693 (anche prima). E’ la riunificazione di due Monasteri distrutti dal terremoto di quell’anno: il monastero di san Marziano anticamente dell’ordine di San Benedetto (Pirro) poi dal 1592 sotto la regola di San Francesco. e il monastero di santa Chiara eretto da Eleonora Branciforte nel 1322 nell’antico Tempio di Cerere, dov’era sepolto Geronimo Re di Siracusa (descritti da Federico II nei libri della Cancelleria del Regno). Eleonora decorò le monache con l’abito di San Giacomo della Spada, come dalle lettere dello stesso Federico date a Catania l’8 dicembre 1323. Il Monastero è molto accetto alla popolazione (di quell’epoca) Vi erano 10 professe,4 novizie, 5 converse. Il fabbricato consiste in una chiesa, due saloni addetti a dormitori delle monache, officine per magazzini e dispensa. La chiesa presenta una facciata austera con tratti rinascimentali e tardo barocco. Il portone ligneo realizzato nel 1762. L’interno è ad una sola navata, ricca di stucchi. Vi sono 4 altari laterali dai marmi variopinti. L’altare maggiore in pietra d’agata e lapislazzuli. Pavimento in ceramica di Caltagirone del XVIII secolo, gli affreschi della volta di Sebastiano Lo Monaco, un polittico della scuola di Antonello da Messina ed il tabernacolo dell’altare maggiore in lapislazzuli. La chiesa dopo la soppressione fu usata come alloggio militare e di prigionieri di guerra, come magazzini e come seggio elettorale. Il Monastero divenne scuola. E’ l’unico Monumento Nazionale della città di Lentini. Nel 1935 divenne chiesa Parrocchiale. Ai giorni nostri il Monastero è in pessimo stato così come la Chiesa. (7)
Dopo l’800
Palazzo Beneventano (vedi)
L’edificio è fra i più importanti della città di Lentini, non solo per la sua grandezza e per il suo sfarzo, ma anche per i personaggi che ne erano i proprietari e per coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione. Due furono i protagonisti del compimento di quest’opera, il barone Giuseppe Luigi Beneventano e l’Architetto Carlo Sada, che modificarono e ingrandirono l’edificio “a sontuosa villa meglio confacente nello stile ad una villa Baronale”. Siamo alla fine del XIX secolo, il periodo della rinascita del Palazzo, che ancora oggi è una testimonianza di molti secoli di storia della Città di Lentini. Nato a Carlentini il 13 novembre 1840 da una famiglia nobilissima, i suoi avi furono Principi alla corte di Federico II di Svevia, Giuseppe Luigi Beneventano fu Consigliere comunale e Sindaco e Senatore del Regno. Personaggio di gran temperamento contribuì alla rinascita dell’agricoltura e dell’economia in genere della città. Proprietario di molti palazzi fra cui appunto l’edificio di cui si parla, nel febbraio del 1893, il Barone, incaricò uno degli Architetti più famosi del tempo l’architetto Carlo Sada, progettista fra l’altro del teatro Massimo Bellini di Catania. Il Sada presentò, in prima istanza, un progetto che riguardava la totale trasformazione degli edifici esistenti costituiti da due blocchi: il primo la parte ove risiedeva la zona “nobiliare”, l’altro dove vi erano i magazzini, le stalle etc., staccati fra loro, il primo contenente la parte più antica e poi ampliato dal 1700 in poi, il secondo blocco realizzato dall’inizio del XIX secolo. Il progetto, che prevedeva due piani fuori terra, era imperniato all’adeguamento della parte preesistente sul lato nord-est (la parte più antica) e la demolizione e ricostruzione degli edifici a nord-ovest. Successivamente, su richiesta del Barone Beneventano, l’architetto eseguì diverse varianti al progetto principale. Alla fine fu scelta la soluzione che prevedeva un solo piano fuori terra per la parte nord dell’edificio, quella che affaccia su Via S. Francesco. I lavori però furono iniziati, ma mai completati. L’edificio dunque si sviluppa lungo la strada principale (Via S Francesco), soluzione scelta per indicare il prestigio della famiglia proprietaria. Dall’ingresso posto a Nord che guarda 1′ Etna, si accede al cortile dai cui lati ci si immette ai locali di servizio: quali magazzini, stalle, alloggi per le servitù ed allo “scalone” l’elemento che mette in comunicazione il piano terra con il piano nobiliare tipico dei palazzi dell’epoca. La tipologia dell’impianto edilizio, deriva dagli edifici turriti, la sua organizzazione interna, prevalentemente nel piano nobile, è del tipo en enfilade, vale a dire: sale tutte in fila con le porte allineate, in modo che nel piano si potessero vedere, per tutta la lunghezza della manica e mettere in evidenza, le stanze di uso variabile tipo il soggiorno, il pranzo, la conversazione e la cerimonia; tutte di dimensioni dei vani sono pari ad un’unità base, almeno 40-50 mq., volte decorate e pavimenti a mosaico sono presenti nella maggior parte delle stanze di rappresentanza, come quella d’ingresso nella quale al pavimento oggi rimane solo l’impronta di quello che un tempo doveva essere lo stemma di famiglia. Al culmine delle sale en enfilade, troviamo il salone per le feste, grande il doppio dell’unità base con preziosi mosaici ai pavimenti e volte dipinte a tempera dai colori smaglianti. Ma tutto ciò ormai è solo testimoniato da quel che non è stato saccheggiato o distrutto, infatti, oggi l’edificio verte in un notevole stato di degrado, per cui il Comune di Lentini e la Regione Siciliana hanno affidato l’incarico per la progettazione di recupero e conservazione del Palazzo, i cui lavori saranno finanziati con la legge per la ricostruzione delle zone terremotate del 13 dicembre 1990. Carmelo Vinci
Brano tratto dal progetto “Lentini Studia” promosso dalla “Fondazione Pisano”. (12)
Villaggio Bardara (vedi)
I nuovi borghi rurali sono nuovi insediamenti all’interno di quegli interventi di programmazione d’area vasta che prevedevano sistemi urbani o rurali funzionalmente integrati nel territorio e fondati durante il ventennio del regime fascista. Si trattò, nella maggior parte dei casi, di fondazioni di varia tipologia insediativa, quasi sempre programmate nell’ambito di una pianificazione territoriale di più ampia scala del territorio agricolo, che prevedeva quasi sempre la bonifica idrico-ambientale di vaste aree. Gli insediamenti così creati, nella maggior parte dei casi, erano programmati per occupare una modesta estensione territoriale, su base demografica limitata, ed avevano uno specifico carattere rurale o sovente di centro di servizi per l’insediamento agricolo sparso. L’intensa attività di fondazione dei nuovi insediamenti nasceva da specifici caratteri dell’ideologia fascista ed in particolare dalle istanze antimoderne ed antiurbane che caratterizzavano una parte del movimento, senza per questo esaurirne la complessità. Le nuove fondazioni avevano quindi carattere di piccoli centri rurali, nell’ottica di un tradizionalista ritorno alla terra e alla civiltà contadina, che il fascismo mostrava di preferire alla grande urbanizzazione, nonostante una parte di esso si presentasse come modernista. La “ruralizzazione” dell’intera società fu infatti un obiettivo prioritario, tanto da condizionare le scelte economiche fin dal 1928. L’inurbamento, dopo la prima guerra mondiale, di un numero crescente di popolazione rurale fu visto negativamente dal fascismo, nonostante fosse connaturato all’industrializzazione del paese, a causa dell’abbassamento della natalità e della spinta verso la formazione di una coscienza di classe. La creazione di nuove possibilità di sfruttamento agricolo avrebbe creato una classe sociale di piccoli mezzadri o proprietari agricoli, legati alla terra con tutta la famiglia, immuni alla crisi d’identità causata dal rapporto salariare e dall’inurbamento. La mezzadria fu propugnata fortemente e vista come mezzo per la “sbracciantizzazione” ed esempio e origine del corporativismo. Da notare come questo avvenisse dopo un periodo in cui le leghe “bianche” e “rosse” avevano combattuto dure lotte, proprio per il superamento dei rapporti mezzadrili e che le revisioni operate dal fascismo ai patti mezzadrili avevano peggiorato le condizioni del mezzadro. Si sperava, quindi, che la “ruralizzazione” avrebbe stabilizzato la struttura sociale, combattuto la denatalità, vista come degenerazione, i disordini sociali, e la degenenerazione della razza, assicurando la sanità fisica e morale della “stirpe italiana”. Inoltre, dietro le motivazioni idealistiche, sussisteva di fatto la considerazione della maggiore possibilità di controllo di piccoli gruppi di persone, di cui era più facile catturare il consenso rispetto a quanto accadeva con le grandi masse delle città. Alcuni storici dietro l’ideologia nel “ruralismo” vedono una politica economica tesa a comprimere redditi e consumi, assorbendo la manodopera, cui l’industria non poteva dare lavoro, evitando l’arresto di una crescita demografica e facendo dell’agricoltura di un serbatoio, in attesa che la produzione industriale superasse la crisi. In Sicilia i primi interventi di pianificazione di nuovi insediamenti risalgono a cavallo degli anni ’20 e ’30 nell’ambito delle campagne di bonifica di aree incolte e malsane che investirono l’intera nazione soprattutto dopo la legge n. 3134 del 1928 “Provvedimenti per la bonifica integrale”, che rafforzò provvedimenti legislativi precedenti. Una decina di nuovi borghi accolsero gli operai occupati nelle opere di bonifica ed erano destinati, in seguito, a divenire nuovi insediamenti abitativi o agricoli (Sferro, 1927), anche se non sempre il processo di riconversione fu attuato (Borgo Recalmigi, oggi abbandonato, nei pressi di Castronovo di Sicilia). Il più conosciuto di tali centri è Pergusa (1935), sorto per la bonifica delle zone umide intorno al lago di Pergusa. Altri siti di bonifica furono il lago di Lentini (Villaggio Bardara) e le aree umide intorno a Siracusa. Realizzati intorno al 1940 furono Borgo Lupo (Mineo), Borgo Giuliano (San Teodoro), Borgo Portella della Croce (Tra Prizzi e Vicari), Borgo Petilia (Caltanissetta), Giacomo Schirò (tra Corleone e Monreale), Borgo Vicaretto (Castellana Sicula), Borgo Baccarato (Aidone), Borgo Antonio Cascino (Enna), Borgo Domenico Borzellino (Monreale), Borgo Antonio Bonsignore (Ribera). L’operazione fallì per molte cause, oltre ovviamente allo scoppio della guerra: la carenza di infrastrutture, la scarsa disponibilità dei contadini a lasciare i centri abitati di origine, la mancanza di terreni da appoderare, non avendo proceduto ad alcun esproprio. Infatti gli unici terreni espropriati furono di proprietà inglese, nella ducea di Nelson tra Maniace e Bronte dove fu fondato il Borgo Caracciolo, oggi abbandonato. Alcuni borghi non vennero mai utilizzati ed attualmente risultano praticamente tutti in stato di abbandono ed alcuni, anche pregevoli come architettura, ormai ruderi (Borgo Lupo, Borgo Schirò) Altri borghi vennero realizzati da altri enti e soggetti locali. Un caso a parte fu Mussolinia di Sicilia, oggi Santo Pietro frazione del comune di Caltagirone, un progetto ampiamente pubblicizzato (Mussolini pose la prima pietra) e mai completato a seguito di vicende grottesche che hanno sollevato l’interesse di narratori come Sciascia e Camilleri. Anche il villaggio Bardaba non venne mai abitato e ben presto subì il degrado. (15)
Ponte dei Malati (vedi)
Il 14 Luglio del 1943 il generale Bernard Law Montgomery, comandante delle truppe che sbarcarono in Sicilia (l’operazione Husky), decide che il Ponte dei Malati di Lentini, sulla strada che collegava Siracusa a Catania, è indispensabile per una veloce avanzata: deve essere preso intatto, impedendo a tedeschi ed italiani di farlo saltare. Alle 3 di notte del 14 luglio arriva al ponte dei Malati dove un unico plotone di italiani presidiava i fortini. Con un’azione fulminea a sorpresa i commandos prendono i fortini e tolgono le cariche esplosive dal ponte buttandole nel fiume. Montgomery in persona volle fare cementare le targhe, ancora oggi visibili, a memoria dei caduti di quell’azione spericolata. Le perdite del 3° Commando nella presa del Ponte dei Malati di Lentini assommarono a 153 uomini su 350 (quasi la metà), di cui 28 morti, 66 feriti e 59 dispersi, gran parte prigionieri.
Natura
Pancali (vedi)
Il monte Pancali, con i suoi 487 m s.l.m.m. rappresenta il primo rilievo della parte nord del massiccio degli Iblei. Sovrasta gli abitati di Carlentini e Lentini e si configura come una terrazza panoramica sulla Piana di Catania. Dalla cima è possibile ammirare un vasto panorama costellato da bellezze naturali, quali il mar Ionio a levante, L’Etna ed il Biviere a settentrione ed una serie di città quali Francofonte, Militello, Scordia oltre che Carlentini e Lentini. La fantasia popolare ha sempre creduto che il monte fosse un antichissimo vulcano spento, ma così non è. Infatti dalle carte geologiche si evince che il monte è prevalentemente calcareo con presenza di tufiti ed in parte basalti della formazione Carlentini. Morfologicamente si presenta come un enorme bassopiano.
Pantano di Lentini (vedi)
I pantani di Lentini e di Gelsari costituiscono vaste zone umide situate sulla costa ionica della Sicilia, a confine tra le province di Catania e Siracusa, in prossimità del tratto terminale del fiume San Leonardo. Nello scorso secolo furono oggetto di interventi di bonifica idraulica e di prosciugamento che determinarono la scomparsa degli ambienti naturali. Tuttavia, a differenza di altre zone umide, non furono oggetto di trasformazioni territoriali distruttive. Negli ultimi anni l’abbandono di gran parte delle attività agricole e la difficoltà o l’impossibilità di garantire il deflusso delle acque (gran parte delle superfici dei pantani si trovano a quote prossime o inferiori al livello del mare) per l’assenza o il mal funzionamento di impianti idrovori, hanno consentito in queste aree un rapido processo di ricostituzione degli ambienti naturali tipici delle zone umide, di grande interesse naturalistico per la presenza dell’avifauna e per la vastità e la diversità degli habitat. Le prime indagini condotte sull’avifauna negli scorsi anni documentano la presenza di specie di notevole interesse ai fini della conservazione quali la Moretta tabaccata, il Mignattaio, la Sgarza ciuffetto, l’Airone rosso, la Spatola, lo Svasso maggiore, l’Airone bianco maggiore, tutte incluse nell’Allegato 1 della Direttiva “Uccelli”. Sono presenti anche specie di piante rare tipiche delle zone umide e habitat di interesse prioritario ai sensi della Direttiva Habitat. Fra le specie vegetali vanno menzionate Ranunculus peltatus subsp. baudotii, Trifolium pannonicum, Potamogeton pectinatus, Sarcocornia alpini e Typha dominigensis. Di estremo rilievo è la presenza, nel Pantano di Gelsari, di Leontodon muelleri, pianta rarissima, che era stata segnalata da Gussone nel 1844 e da Lojacono Pojero nel 1903 per la Piana di Catania dove, però, non era stata più osservata. Nei due pantani sono stati individuati habitat di interesse comunitario ai sensi dell’Allegato I della Direttiva “habitat”: 1410 Pascoli inondati mediterranei (Juncetalia maritimi), 1420 Praterie e fruticeti alofili-mediterranei e termo-atlantici (Sarcocornetea fruticosi), 3150 Laghi eutrofici naturali con vegetazione del Magnopotamion o Hydrocharition, 3170 Stagni temporanei mediterranei (habitat considerato di interesse prioritario ai fini della conservazione). Considerato l’elevatissimo valore naturalistico, Legambiente Catania ha proposto nel 2011 l’adozione di strumenti di tutela che hanno condotto, nel luglio del 2012, alla apposizione di un vincolo biennale in attesa della istituzione di una riserva naturale. L’area, inoltre, è stata individuata quale Zona di Protezione Speciale ai sensi della Direttiva “Uccelli”. Purtroppo, lo scenario naturale attuale è stato fortemente modificato in seguito agli interventi di prosciugamento delle zone umide attraverso l’attivazione di impianti idrovori da parte del Consorzio di Bonifica 10 Siracusa e la successiva distruzione con mezzi meccanici della vegetazione dei Pantani, azioni che hanno compromesso l’ecosistema e messo a repentaglio la vita di molte specie animali rare o a rischio di estinzione, come la Moretta tabaccata. Per tali motivi Legambiente ha recentemente presentato un esposto alla Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea per violazioni sostanziali delle norme di tutela della rete ecologica “Natura 2000” per danni sia ad habitat d’interesse comunitario ai sensi della Direttiva europea “Habitat” che della Direttiva europea “Uccelli”. La tutela effettiva di queste zone umide consentirà, peraltro, di non sprecare più soldi pubblici per l’energia necessaria ad attivare le idrovore deputate a smaltire le acque. Anche la gestione e la manutenzione degli impianti hanno finora comportato costi enormi per la collettività che potrebbero essere eliminati. (8)
Biviere (vedi)
Tutti i versanti che vanno fra Scordia, Militello, Francofonte e Vizzini, trenta chilometri quadrati, formano un bacino idrografico, in cui si getta, alimentato da altre acque, il fiume Trigona o Galici. Questo fiume si converte nel lago, chiamato Biviere di Lentini. Il lago Biviere di Lentini, è uno dei trentasette laghi siciliani, non sembra vero, ma è così. L’origine del lago ci tuffa nelle acque della storia mitologica. La leggenda narra che Ercole, recando in dono a Cerere la pelle del leone Nemea, si fosse innamorato dei luoghi facendo nascere un lago che da lui avrebbe preso il nome. Come poteva Ercole non innamorarsi di un territorio cosi meraviglioso! Intorno al lago nascono altre leggende. Si narra che anche i Templari ebbero a che fare con il Lago di Lentini. Ogni lago che si rispetti, ha la sua storia. Un accenno storico del lago ci viene fornito da un documento del 1300, dove si legge che fu concesso come feudo a Ugonetto di Lazzaro. Da un diploma reale concesso da Costanza, sposa di re Federico in data 13 gennaio, 2 ind. 1363, confermato dallo stesso re in data 25 marzo 1363,si legge la concessione dell’elemosina dell’elemosina del pesce del Biviere alle monache di Santa Chiara di Lentini. Le acque del Biviere sono ricche di tinche, muletti, anguille. (Storia di Lentini Antica e Moderna di Sebastiano Pisano Baudo-Vol III, pag 176) La trasformazione vera del lago la si ha , un po’ prima , del XVI secolo. Lo sviluppo maggiore nasce nel XVII secolo con i Branciforte. Il feudo del Biviere – lago , conosce numerosi eredi. Il 16 settembre 1666 n’ebbe investitura Don Giuseppe Branciforti; morto, questi, senza figli legittimi il Lago passa al nipote Don Carlo Caraffa, ultimo dei Principi della Roccella e di Butera, primo Barone del Regno di Napoli e Grande di Spagna, il quale il 5 aprile 1676 ne prese l’investitura. ( Storia di lentini – vol III pag 179) Il lago di forma allungata comprendeva due isole. L’isola grande e l’isola piccola; uno sperone chiamato Cannedda di San Francesco. Vi erano la casa per pesare il pesce, il pozzo, la casa per la paglia, il magazzino …. Una chiesa intitolata a San Andrea, patrono dei pescatori lentinesi. C’era anche un piccolo porto. Il lago offriva lavoro, bellezza dei paesaggi, accoglienza. Purtroppo portò anche febbri malariche, febbri talassemiche. Nel 1876 , con il Barone Beneventano e l’ingegnere Pisano,nasce un progetto di risanamento. Le opere di bonifica cominciano negli anni ’30 e vengono completate solo negli anni ’60. Lentini non ha più il suo lago, la sua meraviglia. Oggi purtroppo i ricordi iniziano a perdersi. La scomparsa del lago, elimina in parte , i problemi. Nascono altri problemi prima inesistenti. La carenza di acqua accresce la siccità, favorisce le gelate notturne … Si pensa ad una ricostruzione. Negli anni ’70 il Lago viene ricostruito. E’ più piccolo, più profondo. Il nuovo lago raccoglie le acque del fiume Simeto e San Leonardo, e, vengono utilizzate per scopi agricoli e industriali. Ha una circonferenza di 14 km e una capacità d’acqua di 130 milioni cubici. La fauna torna ad abitare il lago. Si vedono gli aironi bianchi, le cicogne, le anatre, le oche, il cormorano, il falco pescatore …. Le tinche, i muletti …. Torna a rivivere, anche, la vegetazione palustre. Non è più quello di una volta, ma , anche questo dona, un fascino particolare. Non si può viverlo come lo si viveva ieri ……. ma, con i dovuti permessi, si può respirare la magia che solo un lago sa donare. Il profumo della natura, il verso degli animali, la carezza di un sole cocente, la dolcezza di un tramonto ….. E se si chiudono gli occhi, se si sgombra la mente dai frastuoni della modernità, si sente in lontananza il canto dei pescatori di ieri, il loro richiamarsi, lo sciabordare tranquillo dell’acqua. Poco distante dal lago troviamo l’antica casa Biviere del XVII secolo. Le terre circostanti, che una volta contenevano il lago, ospitano un giardino Mediterraneo. In questo meraviglioso Eden si trovano ricche specie botaniche, piante tropicali, rose, prati. In questo giardino, nato dall’amore, dei Principi Scipione e Maria Carla Borghese, si ritrova la storia del Lago–Biviere di Lentini. Sono tante le idee per rilanciare il lago di Lentini. Fino a d oggi sono rimaste solo idee. Per attuare quello che si desidera servono: onestà, coerenza, abnegazione, amore verso il proprio territorio. Non servono tornaconti personali, egoismi …. Serve coerenza e unione tra i Sindaci dei territori limitrofi al Lago. Serve unione tra la gente del Lago. (7)
Museo di Lentini (vedi)
La sede museale risale agli anni Cinquanta; originariamente progettata come edificio scolastico, fu acquisita dalla Soprintendenza alle Antichità per la Sicilia Orientale, per consentire la creazione di un museo destinato ad illustrare le prime grandi scoperte nel sito dell’antica Leontinoi. Il museo illustra la storia di Leontinoi e del suo territorio a partire dalla preistoria fino all’età medievale, attraverso l’esposizione di materiali provenienti dall’antica città e dai principali siti archeologici del comprensorio. Leontinoi, colonia calcidese, fu fondata nel 729 a.C., sul margine di un territorio fittamente interessato da insediamenti indigeni. La città occupò due alture parallele, con l’interposta vallata, affacciate sulla fertile piana di Catania e collegate al mare attraverso il fiume S. Leonardo. Una cinta muraria racchiudeva la città correndo lungo il ciglio dei colli ed includendo anche la vallata, alle cui estremità erano situate due poderose porte a tenaglia. Di queste ultime, quella meridionale è stata integralmente messa in luce insieme alle poche tracce delle aree sacre urbane (sulla sommità dei colli), di un santuario extraurbano (in pianura in contrada Alaimo) e di parte delle necropoli che si estendevano ad arco a nord ed a sud della città. Il territorio di Lentini ha restituito inoltre testimonianze relative all’occupazione umana a partire dal neolitico. Particolarmente significativi, nel quadro della preistoria della Sicilia sud-orientale, sono gli insediamenti, solo in parte esplorati, di Valsavoia (fase finale del Bronzo antico, facies di Rodi-Tindari-Vallelunga) e della Metapiccola (XI-IX sec. a.C., cultura di tipo ausonio). Le collezioni. Il primo nucleo proviene dall’antico Museo Civico, integralmente confluito nell’attuale museo, ed è costituito da un complesso di materiali di varia origine, per lo più di incerta contestualizzazione. Una gran parte proviene dagli scavi effettuati negli anni Cinquanta nella valle S. Mauro, in corrispondenza della porta urbica meridionale e di una delle necropoli e sul colle della Metapiccola, nell’ambito dell’insediamento indigeno dell’età del Ferro; l’ultima parte, infine, è relativa alle indagini ed alle scoperte effettuate, negli anni più recenti dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Siracusa nel territorio e nel sito urbano della città odierna. L’ordinamento è insieme cronologico e topografico; dalle più antiche attestazioni di frequentazione umana nel territorio durante la preistoria, si passa alla colonizzazione ed alla successiva illustrazione della città greca (abitato, fortificazioni, necropoli, architettura templare); infine, si espongono i dati finora acquisiti in ordine alla storia del centro urbano e del territorio durante l’età tardo romana, bizantina, araba e medioevale. L’esposizione dei materiali è sorretta da adeguati supporti didattici per la comprensione delle varie problematiche affrontate e per la ricostruzione delle fasi della ricerca.
Sala 1 Introduzione geomorfologica al territorio – Il Quaternario
Sala 2 Preistoria
Sala 3 Insediamenti indigeni tra IX e VIII sec. a.C.
Sala 4 La città greca: l’abitato
Sala 5 La città greca: fortificazioni e santuari
Sala 6 Le necropoli
Sala 7 Età tardo romana, bizantina e medioevale; materiali subacquei; numismatica. (6)
Sito Etnanatura:
- Castellana
- Palazzelli
- Cugno Carruba
- Fontana Paradiso
- Metapiccola
- Parco Archeologico
- Grotta san Mauro
- Pancali
- Pantano di Lentini
- Santa Maria degli Ammalati
- Biviere
- Castellaccio
- Feudo san Leonardo
- Grotta dei Santi
- Grotta del Crocifisso
- Museo di Lentini
- Palazzo Beneventano
- Ponte dei Malati
- Santa Maria la Cava
- San Basilio
- San Giuseppe il Giusto
- San Giuliano
- San Marziano
- Villaggio Bardara
Foto di Etnanatura, Rosaria Privitera Saggio, Giuseppe Guercio
Riconoscimenti:
(2) Agora – Testi di Antonio Cucuzza
(3) Pro Loco Lentini
(4) Pro Loco Pedagaggi
(6) Regione Sicilia Beni Culturali
(7) Testo di Rosaria Privitera Saggio
(8) Legambiente Catania
(9) Tratto da “Siracusa sveva” di Laura Cassataro, Erre produzioni con l’autorizzazione dell’autrice.
(10) Davide Gullotta sulla pagina Facebook “Ti cuntu”
(11) ICCD
(12) Lentini on line
(13) Chiesa sant’Alfio
(14) Itinerari provincia di Siracusa
(15) Wikipedia – Villagio Bardara