Bricinna

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26-06-2015 19-33-27

Via Bricinna

E se chiedessi: “Sapete dirmi dove si trova la strada di san Giuliano?” Mi risponderebbero??!!! Credo proprio di no. A Lentini c’è un antico quartiere, un quartiere storico, si chiama san Paolo. Perché si chiama così visto che a Lentini, non esiste, una chiesa intitolata al Santo?! La leggenda narra che l’Apostolo sia venuto nella vetusta città per parlare agli ebrei che lo popolavano, mentre era a Siracusa. Ecco, il quartiere denominato “Judecca” era occupato da gente di origine ebraica. Nel fondo valle della Valle Ruccia in senso Sud – Nord troviamo lo storico quartiere. Ad Ovest lungo la chiesa parrocchiale di San Luca sale la strada di San Giuliano, oggi, via Bricinna.

Questa via sale fino alla sommità del colle Tirone. Una via lunga e stretta, passa una macchina e un pedone. Caratterizzata da vicoli e cortili. Ogni cortile ha un proprio ingresso con arco. Mi piace immaginare e “vedere” e “sentire” la vita di un tempo. Bambini che giocano; le donne sull’uscio a ricamare, cucire, parlare con la comare; qualche focolare acceso per arrostire i peperoni. Oggi è abitata da pochi, bambini che giocano non se ne vedono. C’è qualche donna con il suo “cufuni” e allora nell’aria si spande il profumo dei pipi arrustuti. Che meraviglia! Che malinconia! Solitudine, incuria, abbandono Come si può far morire una strada dal passato ricco di storia?!

Rosaria Privitera Saggio

Ho scoperto via Bricinna per l’amore che l’amica Rosaria nutre per il suo paese e da straniero (sarebbe meglio dire da “non paesano” ma a volte ci sentiamo stranieri quando sconosciamo il nostro patrimonio culturale), sono rimasto affascinato per i tesori di storia che una piccola via possa nascondere. Salendo per l’angusta strada si ripercorre, magari in maniera disordinata, il nostro passato, nessun capolavoro assoluto intendiamoci, ma tanti piccoli tesori sopravvissuti (ma ancora per quanto?) al tempo e agli uomini.

Chiesa di san Luca

Chiesa di san Luca

La nostra passeggiata lungo via Bricinna inizia al centro di Lentini con la chiesa di san Luca. Edificata nel 1700 conserva al suo interno una Crocefissione della scuola del Tintoretto, un San Francesco di scuola del Bassano, e la Natività della Vergine dipinta nel 1760 da Francesco Gramignani Arezzo.

San Giuliano

San Giuliano

Proseguendo incontriamo il sito archeologico di san Giuliano (vedi). Siamo alle pendici del monte Tirone. Il sito è costituito da un gruppo di case scavate nella roccia e dalla chiesa di san Giuliano. La chiesa prima dell’età cristiana dovette essere una tomba di epoca pregreca che i cristiani ampliarono con un’abside costruito davanti alla grotta, abside che crollo in seguito al terribile terremoto del 1693.

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Castellaccio – Sala ipogea

Sulla collina in alto ritroviamo il Castellaccio (vedi).

Non distante dalla basilica del Murgo, a Sud del moderno abitato di Lentini, esistono alcuni ruderi identificabili con la struttura federiciana menzionata dai documenti dell’epoca come Castrum Vetus, tramandataci poi come II Castellaccio . Essi sono visibili sopra un promontorio che si innalza tra le valli del Crocifisso e di San Mauro, fiancheggiato a Sud-Est dal monte Lastrichello e a Nord- Ovest dal monte Tirone. La nascita di Lentini (Leontinoi’), fondata dai calcidesi nel 729 a. C., si inquadra nel movimento della colonizzazione greca. Dionigi di Siracusa fortificò il promontorio che, secondo qualche studioso potrebbe essere identificato con il forte Bricinna menzionato da Tucidide in occasione delle discordie civili che insanguinarono la città agli inizi del V secolo a.C. Conquistata poi dai romani di Marcello (212 a.C.) e sottoposta al dominio arabo prima e poi risollevatasi con la conquista normanna, la città raggiunse un buon livello di floridezza in epoca sveva. L’imperatore Federico già amante delle terre vicine di Augusta e Siracusa, destinò questo sito strategicamente perfetto al controllo di tutto il territorio e del mar Ionio, mediante l’edificazione di un castrum. La città peraltro era stata già oggetto di interesse da parte dello svevo, il quale nel 1209 si trasferì da Palermo a Catania come ci riferisce Rocco Pirro. Sconfortato dalla morte prematura del cognato Alfonso e dal propagarsi di un’epidemia tra il seguito reale ritemprò il proprio spirito nelle terre di Lentini. “Il giovanissimo Imperatore, che già maturava in sé una fervida passione per la storia naturale, lasciò più di una volta la nuova sede, dividendo il suo tempo tra i boschi del Murgo e i silenzi del Pantano e del Biviere, attrattovi dall’abbondanza della caccia e della pesca”. Nel 1223, dopo aver domato la rivolta musulmana di Sicilia, relegò una parte dei ribelli ai castra di Lentini e Siracusa. Dieci anni dopo convocò a Lentini il Parlamento siciliano (in solemni colloquio apud Leontinum). Ricca di nomi lentinesi si rivela la corte federiciana a cominciare dal famoso Riccardo sino a Jacopo e a Giovanni da Lentini, prova del fatto che l’Imperatore frequentava in maniera particolare questo territorio. Circa la costruzione del castrum i documenti più importanti, come avviene per il castello di Siracusa, sono le famose lettere lodigiane del 1239 inviate a Riccardo da Lentini, a Guglielmo di Anglone e al Majore de Plancatore. Soprattutto da quella inviata alpraefectus novorum aedificiorum Riccardo apprendiamo notizie sui lavori e sull’approvvigionamento al Castrum Vetus che ci permettono di porre i termini cronologici del cantiere tra il 1223 e il 1239 e, allo stesso tempo, ci offrono una situazione simile a quella dei cantieri di Siracusa e Augusta. Il Castellacelo si inquadra tra i castelli rinnovati da Federico; si imposta infatti, su una precedente fabbrica di età greca, come vedremo. Le vicende storiche successive al periodo svevo vedono il Castellacelo passare agli angioini. Nel 1282, durante i Vespri, il governatore di Lentini, Papirio Comitini si rinchiude tra le sue mura, ma viene tuttavia ucciso. Nell’ottobre dello stesso anno Pietro d’Aragona nomina castellano Riccardo Passaneto. Nel corso del XIV il Castellacelo è teatro degli scontri tra le famiglie Ventimiglia e Chiaramonte fino a quando Blasco Alagona assedia ed espugna la fortezza. Nel 1394 resta sotto il potere di re Martino sino a quando, nel 1414 la regina Bianca di Navarra assegna al castello un castellano, un vicecastellano, un portiere, dodici inservienti e un cappellano. Nel 1434 Alfonso V concede il castello a Vincenzo Gargallo, come confermato dal testo di una lapide ritrovata nel 1814 tra i suoi ruderi. Nel 1542 il castello viene notevolmente danneggiato dal terremoto. Nel 1693 subisce sicuramente i danni gli ultimi causati dal tremendo evento sismico del gennaio di quell’anno. Si riteneva sino a qualche tempo fa che il castello fosse caduto totalmente in abbandono. Ma, come ci informa S. L. Agnello, un documento datato 1735, trovato di recente da Gioacchino Gargallo, ci dà notizia che in quell’anno la guarnigione del castello ricevette una fornitura di polveri, prova quindi della continuità d’uso della fortezza anche dopo il terremoto. Le sue rovine furono viste e descritte dall’Amico e dal Fazello. La sua identificazione precisa e puntuale si deve a G. Agnello il quale accoratamente scrive:” l’opera tenace di trasformazione agricola, secondata dall’incessante azione degli agenti atmosferici, tende a livellarne i ruderi che si disgregano e spariscono sotto ingenti masse di terra, mentre la vegetazione rigogliosa ne oscura la visione con la sua densa macchia verde”. Si deve poi arrivare al 1986 per vedere pubblicati i risultati dei primi interventi di restauro e valorizzazione del Castellacelo di Lentini operati dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Catania, con la collaborazione di quella di Siracusa, che hanno però interessato soltanto l’ambiente sotterraneo. Attualmente in proprietà del comune di Lentini risulta in stato di totale abbandono e perciò non è fruibile. Scriveva G. Agnello nel 1935: “Forse tra un secolo, se un più pietoso culto per le glorie patrie non si appresti a salvare dallo sfacelo le ultime rovine, del glorioso castello sarà sparita ogni traccia”. Nella speranza che questa profezia non abbia ad avverarsi ci si auspica non solo un pronto intervento di salvataggio dei pochi resti murari che rischiano di precipitare nel fondovalle, ma anche di una vera e propria campagna di scavi, mai tentata, che miri al recupero delle parti ancora giacenti sotto il terreno.

Castellaccio

Castellaccio

Il ritrovamento occasionale e fortuito di una capitello svevo oggi conservato nei magazzini del Museo di Lentini, è una prova tangibile dell’esistenza di altri materiali che potrebbero fornire elementi per un tentativo di ricostruzione degli ambienti e dell’apparato scultoreo che pur doveva esistere. La situazione topografica del sito dove nel medioevo sorgerà il Castrum Vetus, non era certo stata trascurata dai greci fondatori di Leontini i quali, creando dei tagli artificiali, veri e propri fossati, avevano bloccato le principali vie d’accesso da Nord proteggendo la città in maniera efficace. Paragonabile per concezione alla fortificazione dell’Epipole (Castello Eurialo) di Siracusa, questo sistema si avvaleva di due grandi fossati, uno lungo circa 70 metri e l’altro circa 50, profondi e larghi 20 metri. Entrambi i fossati sono collegati alle alture del Tirone (ad Ovest) e del Lastrichello (a Sud) da due istmi. Tracce d’imposta di un ponte levatoio sono state rilevate sull’istmo ad Ovest. Lungo la parete del fossato occidentale esistono due file di tre piombatoi abilmente tagliati attraverso i quali si potevano far precipitare massi sui nemici che avessero superato i fossati. Riguardo ad opere murarie del periodo classico ne esiste una identificata vicino all’istmo del fossato occidentale: si tratta di una cortina lunga circa 10 metri realizzata con conci di pietra calcarea dei quali rimangono sei filari. Molti studiosi sono d’accordo nell’identificazione di questo forte con il Arianna delle fonti. Da non trascurare la frequentazione nella fase cristiano-bizantina, attestata da un vero e proprio insediamento rupestre lungo il versante Ovest, di cui rimangono le tracce deturpate e letteralmente lacerate in tempi moderni. Esistono miseri avanzi di una chiesetta in grotta con tracce di affreschi lungo le pareti. La costruzione del castello svevo sulla preesistente fortezza greca diede un’impronta decisamente nuova e maestosa al promontorio: con le sue mura possenti la cui altezza veniva accentuata dai profondi fossati e dalle valli naturali, il castello doveva apparire come un vero e proprio nido d’aquila e “dominatore superbo”, per usare una definizione di G. Agnello. L’attuale accesso al Castrum Vetus avviene attraverso un viottolo che si lascia alla destra il fossato sud-est, oggi colmato dalla presenza di un agrumeto e conduce alla rocca dal lato Sud. Il primo rudere che ci appare è quello che ha conservato il maggiore numero di conci ancora in piedi relativo ad una delle tre torri (tribus turribus) costruite nell’ambito della roccaforte come si legge nella lettera lodigiana scritta dall’imperatore a Riccardo da Lentini. Lungo il lato Sud, proprio dove esiste la cortina muraria di epoca greca, si imposta una poderosa struttura in conci di grandi dimensioni (m 1,60 x cm 45-55) allettati con malta, della quale rimangono 15 metri in larghezza e 10 metri in altezza per un totale di una ventina di assise. Le misure dei conci diminuiscono nelle assise superiori creando un suggestivo effetto di continuità con la parete rocciosa artificialmente tagliata. Essa si configura a mó di prua di nave dominando il fossato sottostante. Nel ‘500 il Fazello menziona l’esistenza di quest’opera definendola arx triangolare, cioè a forma di triangolo i cui vertici erano orientati secondo i tre capi della Sicilia. Anche l’Arezzo riferisce della sua forma con tre angoli. L’Amico nel XVIII secolo la descrive ridotta in rovine a causa dei terremoti. Appare evidente e per le fonti e per la strutturazione che essa sia una delle tre torri che facevano parte del Castellacelo. All’interno dei resti della torre è ancora leggibile, nonostante i numerosi crolli, la presenza di un ambiente rettangolare con relativa porta (larga m 2) che dava l’accesso ad un ambiente sotterraneo oggi interrato: sulla sua funzione solo indagini mirate potrebbero far luce. È oggi difficile dire in che modo la torre si collegasse con la cortina muraria del versante sud-orientale essendone scomparsa ogni traccia. A difesa del lato meridionale della roccaforte doveva esistere un muro che, piegando ad Est, si collegava con la torre: un breve tratto è ancora miracolosamente in piedi in una posizione di “slittamento” verso il fondo valle. Lo chiameremo il “muro dei marchi” perché sui suoi conci ne sono leggibili ancora parecchi, ma per quanto tempo ancora? G. Agnello (intorno al 1930) ne misura 10 metri lineari oggi non più tutti conservati. Sarebbe un vero peccato perdere quest’unica pagina ancora con i segni dei lapicidi abbastanza ben conservati e che con molta probabilità fa parte di quel rifacimento menzionato nella lettera lodigiana che guardava al Castellum Novum, rivolto proprio ad occidente. Tratti di mura si possono ancora vedere sul lato occidentale che risulta particolarmente protetto dal fossato preesistente. Qui la natura geologica ha creato erosioni non indifferenti e l’uomo ha scavato numerosi ingrottamenti. Lungo la parete rocciosa sono presenti i piombatoi di cui si è già parlato. La parete Nord che domina la valle del Crocifisso è quella maggiormente danneggiata dalle frane, ma nell’angolo Nord-Ovest resiste un breve tratto di muro dell’altezza di m 1,85. Esso conserva due feritone rettangolari, forse anch’esse con la funzione di piombatoi. Il muro è praticamente scollato dal piano di roccia. Sul pianoro, tra le sterpaglie, si riesce a fatica ad individuare qualche altro resto. Parallelo al bordo occidentale che guarda al monte Tirane, alla distanza di m 5, rimane la parte basamentale di un muraglione lacunoso del rivestimento, lungo m 30 con uno spessore di m 2,40 che in origine doveva essere di 2,60 con un’interruzione nella parte mediana che potrebbe essere interpretata come l’apertura di un portale. Questa cortina si colloca nel probabile sito di una torre ottagona a difesa della porta rivolta ad occidente, una delle tre torri menzionate nella lettera lodigiana. L’esistenza di questa torre è ricordata dall’Amico che ancora alla metà del settecento ne descrive ingenti rovine con conci recanti i marchi dei lapicidi, ma era già scomparsa ai tempi del sopralluogo di G. Agnello. Della terza torre, ubicata forse a difesa del lato di Nord-Est, nulla al momento è visibile. La funzione strategica della torre ottagona è similmente organizzata come quella triangolare a Sud-Est. Nel caso in cui il nemico fosse riuscito a superare i fossati e gli istmi relativi si sarebbe trovato di fronte a queste imponenti torri collegate con le cortine murarie, praticamente inespugnabili. (Durante lavori di ripulitura si rinvenne casualmente un capitello svevo proprio in questa parte ora descritta). Due cisterne al centro e una con cunicoli, prossima al lato Nord, indicano che l’approvvigionamento idrico fu uno dei maggiori problemi qui risolti, i cui meccanismi rimangono ancora non studiati. Nella parte Sud-occidentale attraverso una porta e discendendo una scala composta di 22 gradini (lunghezza m 9, altezza m 2, larghezza m 1,50) coperta con volta a botte a tutto sesto realizzata con conci di calcarenite di raffinata fattura, si accede attraverso un vestibolo (m 1,60 x m 1,50) servito da due porte delle quali rimangono le incorniciature, ad un ambiente sotterraneo. Tutto il sistema è stato oggetto dell’intervento di restauro operato dalla Sovrintendenza di Catania nel 1986.1 gradini della scala sono stati rivoltati perché troppo logori; di integrazione è un buon tratto della copertura a botte della scala. Il confronto più immediato è con la scala del cosiddetto Bagno della Regina nel castello di Siracusa, anche se qui, a Lentini, non esiste più l’elemento murario ove sicuramente si innestava l’ingresso alla scala, oggi interamente rifatta. La scala di Lentini portava ad una ambiente sotterraneo di forma rettangolare (m 16,72 x m 5,58) sicuramente scavato nella roccia le cui pareti furono rivestite da un paramento murario con conci di misura più o meno regolare poggianti su banchinamento. Nulla rimane del piano di calpestio medievale. Lungo la parete est si legge la data del 1579, sicuramente relativa ad un restauro della stanza ipogeica, sulla cui realizzazione in periodo federiciano non dovrebbero esservi dubbi dal momento che i conci presentano ancora numerosi marchi confrontabili non solo con quelli esistenti sul frammento del “muro dei marchi”, ma anche con quelli del “Castello “di Siracusa. Certamente oggi la lettura dei marchi è difficilissima a causa della corrosione dei blocchi. E noto come il Fazello, osservandoli, agli inizi del XVI secolo, rimanesse affascinato e meravigliato dalla loro presenza fantasticando sulla loro funzione. La sala è scompartita in cinque settori (larghezza m 3) dai quattro semipilastri (altezza m 2, 87) a parete oggi alquanto frammentati, ma che ci permettono di leggere le imposte delle ghiere d’arco che decoravano (e non supportavano, esattamente come a Castel Maniace) la copertura con volta a botte a sesto acuto. Ogni scomparto della volta presenta due dispositivi di apertura verso l’esterno sulla cui interpretazione restano molti dubbi. Se si tratta di areatori si potrebbe interpretare l’ambiente sotterraneo come magazzino per le granaglie, se si tratta di caditoie la funzione del sotterraneo diventa strategica. “L’esistenza del sotterraneo sarebbe inspiegabile se non fosse possibile porlo in collegamento con un sistema di vie segrete attraverso le quali si potesse raggiungere, in caso di necessità, l’esterno del castello”. Numerose sono ancora le parti sotterranee da esplorare come ad esempio i cunicoli di una cisterna e quelli che dalla cosiddetta Grotta delle palle lungo il lato meridionale del promontorio, che secondo A. Pavone, potevano essere in comunicazione con la sala in esame. L’ultimo rudere da segnalare e da ricordare prima che precipiti a valle è relativo forse ad una cappella. Si tratterebbe della parte absidale, del diametro di m 4, oggi sul bordo dello strapiombo. A prima vista la tecnica muraria farebbe pensare ad opera bizantina a meno che, come vuole qualche studioso, essa non rappresenti Yemplecton, cioè il rinzeppamento del muro svevo il cui fodero è andato perduto. L’esistenza di una struttura chiesastica al Castellaccio viene ricordata nel 1675 quando, per timore di una attacco dei francesi che avevano assediato Lentini, si mise in salvo un’antica tavola raffigurante la Madonna conservata da secoli nella fortezza, ancora oggi conosciuta con il nome di Madonna del Castello. La presenza di una ipotetica cappella nell’ambito di questa roccaforte militare già risalente al periodo svevo è ancora da ponderare attentamente. La presenza inoltre di “numerosi ambienti sia a pozzo (con pareti verticali rivestite in conci squadrati) che a volta (con botola in sommità), ancora tutti da esplorare” ci pone ancora una volta di fronte al grosso problema conoscitivo di questo straordinario complesso monumentale la cui soluzione non può essere data da argumenta ex silentio. Le poche tracce monumentali del Castellaccio di Lentini in una situazione naturalistico-ambientale di straordinaria suggestione, si pongono come uno stimolante puzzle che solo attraverso una seria e scientifica indagine esplorativa potrà essere ricomposto(1).

Salendo per via Bricinna incontriamo le Grotte del Crocifisso (vedi).

Grotte del Crocifisso

Grotte del Crocifisso

La grotta risulta composta da almeno due ambienti quadrati simmetrici, comunicanti attraverso un varco. Il vano di destra appare leggermente più ampio dell’altro e, per la presenza di un’abside scavata immediatamente a destra dell’ingresso ad Est, si configura coma la vera e propria chiesa. Il vano di sinistra, invece, che adesso ha un ingresso autonomo, probabilmente in origine una finestra, sembra frutto di una ricostruzione settecentesca che lo adibì a culto. Le notizie documentarie sulla grotta sono scarsissime se si esclude il graffito con data 1764 posto sulla porta d’ingresso al vano e dovuto ad una risistemazione dello stesso grazie ad eremiti laici locali. Antecedentemente, probabilmente nel XVI secolo, il vano era stato adibito a sepolcreto, come risulterebbe dalla lettura del pavimento e del vano sottostante quest’ultimo, riconoscibile come ossario. A questo periodo, probabilmente, sono dovuti ingenti lavori di ristrutturazione dello spazio sacro, con l’apertura di due varchi tra i due vani principali del complesso e del listello di roccia che divide il vano dedicato al culto e, infine, con l’escavazione di un ambiente atto a rendere più profondo l’invaso principale. In seguito a questi lavori si attuò una sorta di ribaltamento dell’asse della chiesa con il posizionamento dell’altare di fronte all’ingresso, dedicato alla Vergine, come attesterebbe un affresco cinquecentesco ancora tardo gotico. Circa la scoperta della grotta è necessario risalire fino a E. Bertaux che la considera come l’unica dell’Isola; studi ulteriori sono quelli di P. Orsi, S. Ciancio, G. Agnello e, infine, A. Messina. La chiesa del Crocifisso presenta il più complesso apparato iconografico della Sicilia rupestre. In essa, infatti, è testimoniata la continuità del culto del luogo con la presenza di almeno cinque fasi decorativa che non possono essere definite semplici pitture votive ma, almeno per quanto riguarda i dipinti del secondo strato (nel catino absidale e lungo le pareti della chiesa, con la presentazione della teoria dei santi), fanno parte di un vero e proprio programma iconografico rinnovato in tempi diversi. La cattiva leggibilità degli affreschi non permette una sicura ipotesi circa la datazione degli stessi; essa può essere solo accennata su base archeologica e, solo dove i lacerti pittorici lo permettono, su analisi stilistiche. Apparterrebbero ad una prima fase di frequentazione della grotta (XII sec) piccole tracce di affreschi posti lungo la parete meridionale del vano maggiore, coperti da pannelli di poco più recenti. Essi sono distribuiti in formelle disposte su almeno tre ordini e rappresenterebbero Scene del Giudizio Universale riprendendo un tema iconografico molto comune nel mondo medioevale. Al XIII secolo sono riferibili porzioni di affreschi organizzati per pannelli isolati; essi occupano la parete e la conca absidale ad est e rappresentano: la Crocifissione e il Pantocrator. La Crocifissione è, purtroppo, molto frammentaria tanto da permettere l’identificazione solo del Cristo con la testa reclinata e della Vergine. Il Pantocrator è racchiuso in una mandorla decorata con crocette bicrome rosse e nere, assiso in trono e affiancato da una coppia di angeli. L’iconografia del Cristo è affine a quella del Duomo di Cefalù e altri particolari, permettono di ravvisare forti contatti con la pittura bizantina dell’inizio del XIII secolo. Presumibilmente vicini a tali lacerti pittorici sono i pannelli del cosiddetto Polittico di San Leonardo: Santa Elisabetta, la Mater Domini, San Leonardo, San Giovanni Battista e un Santo vescovo. La “galleria” iconografica della chiesa si arricchisce, poi, nei secoli XIV – XVII con le rappresentazioni di Santi legati all’Occidente e, in particolare, si ipotizza al mondo francescano. A quest’epoca, infatti, possono datarsi i pannelli di un Santo vescovo (Eligio?), S. Chiara o S. Caterina da Siena (?), S. Pietro, Santo cavaliere su cavallo bianco, San Calogero, un Santo diacono, e quindi un Cristo Viandante e un San Cristoforo, Madonna del Carmine (Madonna con Bambino), Madonna in trono. Didascalia: S(AN)C(T)A [MA]RIA DE O[DI]GI[TRIA], Santo vescovo, Madonna del Latte (Madonna dell’Umiltà), Madonna Elusa, Mater Domini, Santa Margherita con sei formelle con scene della vita. Osservazioni La chiesa del Crocifisso è tra le più importanti del folto gruppo ecclesiastico rupestre siciliano. Nonostante gli studi sullo sviluppo planimetrico del complesso siano ancora lacunosi, un grande aiuto per la comprensione piena del valore della grotta viene dall’eccezionale apparato iconografico. Attraverso lo studio di esso, infatti, si può dedurre che originariamente la grotta fosse dedicata alla Vergine (in tal modo si spiegherebbe l’affresco cinquecentesco posto sull’altare di fronte all’ingresso) e l’intera decorazione della parete nord, con pannelli legati al culto mariano. È possibile, inoltre, che in tale grotta fosse localizzato il culto di Santa Maria della Cava, cui era intitolata la prima cattedrale di Lentini. Riguardo la nuova denominazione di “grotta del Crocifisso” è possibile che essa fosse legata alla rappresentazione di un Crocifisso a sinistra dell’abside, probabilmente, di epoca secentesca (2).

Foto di Rosaria Privitera Saggio

Pagine Etnanatura:

Sempre su Etnanatura potete ritrovare altre informazioni sui siti circostanti:

(1) Tratto da “Siracusa sveva” di Laura Cassataro, Erre produzioni con l’autorizzazione dell’autrice.

(2) Tratto da http://www.iccd.beniculturali.it.

N.B. Se questa pagina è nata lo si deve alla passione per il suo paese dell’amica Rosaria Privitera Saggio instancabile suggeritrice di luoghi, sentieri e siti dell’area lentinese: un grazie di cuore. Un altro grazie lo dobbiamo alla dott.ssa Laura Cassataro che ci ha permesso di riportare il suo interessantissimo saggio sul Castellaccio.

 

 

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