Le cube

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Chiesa di San Pietro e Paolo

Chiesa di San Pietro e Paolo


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La cuba è una cappella paleocristiana o bizantina presente in Sicilia, dove le cube vennero erette da monaci basiliani a partire dal VII secolo. La Sicilia, pur se fedele a Roma, è stata storicamente un crocevia fra la chiesa d’oriente e quella d’occidente e soprattutto dopo la caduta dell’impero romano e le successive invasioni barbariche quando divenne territorio dell’Impero bizantino. La bizantinizzazione dell’isola proseguì con l’afflusso dal Nordafrica e dal medio oriente di profughi ortodossi scacciati dagli arabi. Nel 732 l’isola passò al patriarcato di Costantinopoli sino alla successiva occupazione musulmana della Sicilia. Diversi cenobi vennero fondati da monaci basiliani, generalmente ortodossi. Con gli arabi generalmente tolleranti furono anche i cenobi basiliani a mantenere viva la religione cristiana (specie nell’oriente dell’isola). La conquista normanna e la successiva riconversione al cristianesimo dell’isola fu inoltre agevolata dal profondo radicamento delle comunità monastiche di rito greco. La parola “cuba” ha una origine controversa ed è stata oggetto di studio. Secondo alcuni il termine deriva dal latino cupa (botte) e cupula (botticella) o dall’arabo kubba (fossa, deposito) o qubba (cupola), per altri direttamente dalla forma cubica dell’edificio. In siciliano si citano spesso le chiesette di campagna come cubole.
L’architettura ecclesiastica bizantina a differenza di quella romana, dove l’altare viene posto in fondo la navata principale a simboleggiare il passaggio tra la vita materiale terrena e la vita eterna, era rigidamente geometrica e basata su forme essenzialmente cubiche. Così le cube si presentavano a croce greca con pianta quadrata, cupola, ambiente centrale e solitamente tre absidi (a cellae trichorae o chiesa a trifoglio). L’abside posteriore aveva una apertura (spesso una bifora) sempre rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione, durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell’edificio attraverso l’apertura desse inizio alla Pasqua. Le altre due absidi contenevano ciascuna una piccola cappella. La struttura presentava tutti gli angoli superiori smussati, così si riusciva a far apparire come un unico corpo la semisferica cupola con il geometrico cubo costituito dall’edificio.

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Cuba di Santa Domenica

La cuba di Santa Domenica (vedi) è una cappella bizantina di Castiglione di Sicilia, forse eretta fra il VII secolo ed il IX secolo.
Chiamata anche « ‘a cubula» dai locali, la cuba di Santa Domenica è forse la più importante cuba bizantina presente in Sicilia, monumento nazionale dal 31 agosto del 1909 grazie allo studio del rudere effettuato da Sebastiano Agati.
L’edificio ha le caratteristiche tipiche della cuba, ovvero è rigidamente geometrico e basato su forme essenzialmente cubiche pur se allungato. Così Santa Domenica si presenta a croce latina con pianta quadrata, cupola e tre absidi. L’abside posteriore ha una bifora rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione, durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell’edificio attraverso l’apertura desse inizio alla Pasqua. Le altre due absidi contenevano ciascuna una piccola cappella. La cuba, costruita con pietra, blocchi lavici, malta e materiali in cotto internamente era ricca di affreschi di fattura bizantina, oggi perduti. La facciata è a due ordini. Nel primo vi è l’ingresso principale che è caratterizzato da un arco ed è di maggiori dimensioni rispetto agli altri due presenti ai lati. Nel secondo ordine della facciata si trovano due finestre ed una trifora di dimensioni considerevoli. Secondo alcuni accertamenti recenti[2] la facciata sarebbe stata preceduta da un portico o nartece per penitenti e catecumeni, mentre il tetto e la pavimentazione sarebbero stati in cotto. Le finestre hanno una particolare forma a «testa di chiodo». Nell’interno a tre navate, divise da una serie di pilastri quadrangolari, la cupola centrale è arricchita da volte a crociera e da minime tracce degli intonaci originali. Dopo anni di degrado la chiesa è stata oggetto di restauro negli ultimi anni. Dopo i restauri sono stati rinvenuti due scheletri di probabile datazione bizantina che farebbe supporre la presenza di un attiguo cimitero basiliano.

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Cuba di Santo Stefano

Un antico rudere di epoca bizantina, la cuba di Santo Stefano (vedi),  si trova in contrada San Michele a Dagala del Re, frazione di Santa Venerina,  alle spalle della chiesa di Bongiardo. Una strada interpoderale porta fino ad un querceto che nasconde l’antico rudere. E’ comunque difficilmente raggiungibile data la mancanza di qualsiasi segnaletica e soprattutto perché si trova in una proprietà privata.

Coperto di edera e di altra vegetazione spontanea, il rudere conserva una buona parte della sua struttura muraria.
La sua scoperta, nei tempi moderni, appartiene a Stefano Bottari, che pubblicava un testo con la descrizione del rudere nella Rivista di Archeologia Cristiana nel 1944-45. Qualche anno dopo Biagio Pace, nella sua monumentale opera “Arte e civiltà della Sicilia antica” fa riferimento alla scoperta di Bottari.
Nel 1959 viene riscoperta dall’allora sovrintendente ai monumenti per la Sicilia Orientale, l’architetto Pietro Lojacono. Mezz’anno dopo pubblicava nella rivista “Tecnica e Ricostruzione” un resoconto di “come avvenne la scoperta della cella trichora” e dei “lavori per mettere in luce il monumento”. Agli occhi di Lojacono il rudere si presentava come “un deposito di pietrame gettatovi dai contadini per la bonifica dei terreni circostanti”. Procedette ai lavori di sterro e di consolidamento delle murature pericolanti. Fece le misurazioni precise ed emesse delle ipotesi sui aspetti costruttivi, nonché sul suo aspetto originale.
In seguito nacque un interesse per il rudere ed il suo recupero. Un progetto per il recupero è stato elaborato dall’architetto Brocato. Al comune di Santa Venerina ci sono intenzioni di acquistare il terreno e realizzare il progetto di recupero, destinando l’area circostante a un museo di mineralogia.
Nonostante tanti anni dalla presa di coscienza del valore del rudere, esso si trova ancora in stato di abbandono. Non è possibile scattare una foto del rudere intero per illustrare la sua monumentalità e l’armonia delle parti, così come lo si può osservare sul posto; esso è immerso nella vegetazione. Però alcuni particolari danno un’idea chiara dello stato del monumento.
L’ingresso, lascia vedere di quanto sia interrato l’edificio. I muri delle absidi danno un’idea dell’ampiezza del naos. Nel nartece possiamo individuare la volta a botte che copriva i braci laterali. Nonostante il rovinoso stato, la finestra dell’abside est ci suggerisce che la sua forma era una bifora o forse una trifora.
Un albero nel nartece, un pezzo di muro in una cornice troppo romantica – sono le espressioni dello stato in cui si trova il monumento.
Comunque per avere un’immagine concludente è opportuno procedere alla presentazione della pianta che è stato possibile rilevare in quanto i muri perimetrali a varie altezze sono tutti presenti.
L’edificio e composto da due parti: una parte trilobata ed uno spazio rettangolare di dimensioni impressionanti. La parte trilobata costituisce la cella trichora.
Una trichora ben conservata è la cuba di Malvagna nella vale dell’Alcantara. Si notano bene le abside e la cupola.
La chiesa di Dagala si distingue dalle altre trichore per le sue armoniose proporzioni, con ampie absidi laterali, leggermente più piccole dell’abside centrale. Del tutto particolare è e il nartece molto ampio, diviso in tre parti marcati da volte a botte. Nell’estremità sinistra del nartece c’è una cisterna con parete doppio, è una modifica ulteriore che portò alla chiusura di uno degli ingressi del prospetto. Il lato opposto poteva essere chiuso per necessità funzionali. Durante i lavori di rimozione delle macerie e del pietrame, effettuate da Lojacono, non fu trovato alcun pavimento primitivo, invece fu trovato nella zona centrale del nartece un pozzetto formato da pietre laviche che doveva servire da fonte battesimale.
La muratura è fatta con la pietra lavica e calce con l’integrazione di conci di cotto. E’ un tipo di muratura caratteristico per le costruzioni della valle d’Alcantara coeve. Nei muri del nartece erano inserite piccole anforette in posizione verticale e orizontale (con la bocca verso l’esterno). Non è del tutto chiaro la loro funzione. Comunque, la presenza del cotto nella muratura contribuisce a mantenere asciutto le pareti affrescate.
La copertura della chiesa comprendeva la cupola sopra il naos e tre volte a botte per il nartece, che segnavano la divisione di questo spazio in tre elementi. Le due volte laterali sono indicate dalla conclusione dei muri in altezza in forma di arco ed una piccola parte della volta rimasta. La volta a botte centrale è più una conclusione logica che un indizio esatto degli elementi strutturali rimasti.
L’architetto Lojacono nel studiare il rudere ricostruì l’aspetto originale con due sezioni: una longitudinale che mostra la disposizione degli spazi lungo l’asse della chiesa e altra del nartece che illustra l’articolazione di questo elemento particolare per la chiesa di Dagala.
L’aspetto esteriore visto da nord-est da un punto più alto dà un’idea dell’insieme.
Non c’è dubbio sull’epoca alla quale ascrivere l’edificio. Si tratta del periodo prearabo, tra la seconda metà del VII secolo e inizio del IX, più probabile verso la fine dell’intervallo indicato. Quanto riguarda il nartece, sono state avanzate ipotesi che sia una aggiunta posteriore del periodo normanno. E possibile, ma poteva benissimo essere contemporaneo con la parte centrale della chiesa, in quanto un nartece, pronao, è un accessorio utile e indispensabile delle chiese bizantine. Le dimensioni sproporzionate del nartece sembrano rispondere a una propensione per sottolineare l’importanza, ma osserviamo che rispondeva a concrete esigenze pratiche. Si nota chiaramente che il nartece e un corpo giustapposto alle pareti delle abside; delle fessure chiare si vedono sulla linea di giunzione tra il nartece e le abside. Il tipo di muratura, pietra lavica di dimensioni diversi legati con la calce e l’aggiunta di cocci di cotto, è la stessa. Il nartece, probabilmente costituisce una aggiunta nei tempi coevi alla costruzione della trichora stessa.
Il monastero era con certezza uno basiliano alla data della sua fondazione, dato il periodo di costruzione e la sua forma architettonica. Sembra che era attivo nell’inizio del XII secolo, un secolo di grande fiorire del monachesimo basiliano. Possibilmente venne affrescato come successe a Nunziatella, ma dei colori si è persa qualsiasi traccia per causa della caduta del intonaco. Il rapido declino dei monasteri basiliani dalla fine del XII secolo, favorì il passaggio della chiesa al monastero benedettino che venne ricordato nella “Cronaca” di Nicolò Speciale nell’occasione dell’eruzione dell’Etna del 1284, quando,molto probabile fu abbandonato, forse per sempre.

Nello stato attuale non si può parlare di qualsiasi fruizione, dato lo stato di abbandono e di trovarsi in proprietà privata. In attesa della realizzazione dei progetti interessanti per il recupero che per il loro costo possono ancora ritardare per un po’, una contenuta azione di pulizia e di assicurazione dell’agibilità potrebbe ridare vita al rudere. Operazioni per niente facili quelle di pulizia, si tratta di alberi cresciuti dentro la chiesa, di tanta vegetazione che con le loro radici distruggeranno la solidità dei muri di basalto e calce, le stesse radici che in certe parti tengono ancora insieme le pietre. Un’operazione decisiva di liberazione dei muri di vegetazione con la necessaria consolidazione si impone. Il concetto ottocentesco del rudere coperto da vegetazione, condiviso anche da Lojacono più di quarant’anni fa che cercò di rispettare “finchè è stato possibile, la veste di edera, che conferisce al rudere un aspetto pittoresco e romantico” non aiuterebbe molto alla fruizione del rudere come insieme di indizi della sua forma originaria. Un azione congiunta di tutti i fattori che condividono l’importanza del rudere e la necessità di trasmetterlo ai posteri, potrebbe essere utile nel trovare forze e mezzi per il recupero.

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Vergine con bambino. Santuario di Vena

Il Santuario mariano di Vena (vedi) custodisce una immagine antica della Vergine col Bambino. Una tavola spessa di cm. 3, di dimensioni cm. 170 x 67. Si ritiene che sia una icona bizantina del VI secolo. E’ un’immagine della Vergine di tipo Odigitria. Il disegno e la trattazione del colore rende difficilmente ogni raffronto con altri dipinti antichi conosciuti dell’area bizantina. E’ un dipinto molto venerato a Vena, in Provincia di Catania, e nei dintorni. Con questo dipinto, storia, legenda e tradizione si mescolano nel sentire della gente del paese e si trasforma in atto di fede, di verità santa, ed acquista valore simbolico che irradia un fascino sui paesi lontani e vicini. Tre sono i pilastri della storia di Vena: un monastero fondato da Gregorio Magno, un’icona che il pontefice donò al monastero ed un poeta che dedicò parole d’amore al santo dipinto.
Nella ricca corrispondenza di Gregorio Magno molte lettere riguardano la Sicilia, dove lui fondo sei monasteri, probabilmente nel 575. Tra i riferimenti ai monasteri siciliani c’è uno dedicato al monastero Sant’Andrea sopra Mascali.
La legenda narra che i frati diretti da Mascali verso le terre indicati da Gregorio, i possedimenti di Silvia, la madre di Gregorio, portavano con loro l’icona della Vergine. Per volere del cielo i frati vengono fermati dal peso della tavola. Trovano una fonte d’acqua e riconoscono in essa un segno dall’alto, fondano il monastero. Era l’anno 597. Molto tempo dopo la legenda verrà sancita con una lapide recante un’iscrizione latina : “Qui l’immagine della Vergine si ferma, dà l’acqua, vuole un tempio. San Gregorio dona gli edifici (chiesa e monastero) e Silvia il bosco”.
Teofane Cerameo, scrittore e predicatore, formatosi nel monastero Sant’Andrea fondato da Gregorio Magno “sopra Mascali”, torna in seguito ed in una omelia chiama l’immagine della Vergine che lui conosceva dai tempi di studio “non manufatta”. Questa è un’altra conferma della presenza dell’icona nel monastero. E vero che la figura di Teofane Cerameo suscita molte controversie. E’ possibile che sia esistito più di uno con questo nome dato che i testi del Cerameo fanno riferimenti riscontrabili nell’età normanna, o che al corpo dei testi del celebre scrittore del IX secolo, che interessa la nostra storia, siano aggiunti altri testi in epoche posteriori dagli anonimi, contribuendo così al mistero del personaggio in questione. Per la nostra storia importa la menzione dell’esistenza del dipinto della Vergine nel monastero Sant’Andrea nell’età prearaba.
Il monastero sorgeva vicino all’attuale Santuario, i suoi resti erano visibili all’inizio del ‘900. Non ci sono informazioni del monastero dopo il Cerameo. A quel tempo il monastero era basiliano, lo si deduce dalle omelie dello stesso scrittore. E’ possibile che il monastero è stato abbandonato dopo l’epoca normanna con il declino dei monasteri basiliani oppure in seguito alle minacce dell’Etna. Verso il 1500 e già Abbazia di Santa Maria della Vena. Quale sia stato il destino del dipinto in tanti secoli di buio della memoria non si sa. Don Paolo Cannavò, nel suo ampio volume dedicato al Santuario, trova una analogia, ricordando la legenda della Madonna di Guadalupe, un’icona donata da Gregorio Magno a S. Leonardo, vescovo di Seviglia, e nascosta all’incalzare del pericolo arabo, viene miracolosamente conservata e riscoperta circa seicento anni dopo.
Non ha molta importanza se il dipinto è proprio quello donato da Gregorio Magno e cantato da Teofane Cerameo o è un dipinto del XIII secolo, opera di un pittore locale, dato il modo di modellare la materia pittorica. Questo dipinto si identifica con la fede popolare in una tale misura da acquistare potere di sottrarsi alla qualsiasi indagine scientifica, come un oggetto sacro e santo che non accetta altro che la venerazione. Questo è il vero significato del dipinto.
Il Santuario di Vena, più che un monumento storico, è una testimonianza di fede in un passato lontano simboleggiato da un oggetto di culto, collegato alla sua provenienza bizantina come al modo di venerare le immagini, caratteristico all’Oriente cristiano.

 

27-01-2014 15-35-04

La Nunziatella

La Chiesa S. Maria Annunziata (vedi) si trova non lontano dalla matrice S. Maria dell’Itria in via Etnea a Nunziata, frazione di Mascali(CT). Chiamata anche “Nunziatella”, la chiesa ha acquisito una certa notorietà grazie agli affreschi bizantini rinvenuti nell’abside.
La chiesa ha la forma basilicale con l’abside orientata all’Ovest. Prospetto principale: un portone d’ingresso ed una finestra sovrastante; in alto il campanile a vela con due volute raccordanti. Prospetto laterale Sud si affaccia sulla strada, ha in alto tre finestre, sull’estrema sinistra una finestra più bassa, un’apertura d’ingresso laterale e tracce di un’altra apertura più bassa a tutto sesto. Ad Ovest la navata si conclude con un’abside.
L’attuale forma basilicale risale al periodo normanno. A questo indica lo studio comparato degli affreschi del sito con dipinti coevi.
La chiesa apparteneva forse ad un monastero basiliano che riuscì a coagulare un piccolo centro abitato dandoli il suo nome.
L’esecuzione degli affreschi è ascrivibile alla seconda metà del XII secolo e sono un esempio di pura pittura bizantina; affinità tecniche con gli affreschi eseguiti nell’Impero bizantino verso la metà di quel secolo.
Poche sono le informazioni sulla storia della Nunziatella nei secoli successivi. Sappiamo che divenne un priorato forse già nel seicento e che la comunità sorta attorno la chiesa era cresciuta fino a uguagliare Mascali da dove provenivano gli abitanti di Nunziata. Nel XX secolo appariva come una modesta chiesa ottocentesca, il suo passato bizantino era rimasto nascosto sotto l’intonaco.
Fu il Professore Enzo Maganuco, docente di Storia dell’Arte dell’Ateneo di Messina, che scoprì nel 1939 l’esistenza di affreschi bizantini sotto l’intonaco bianco delle pareti. Pur avendo visto solo un piccolo frammento dell’antico dipinto, fecce delle osservazioni giuste sull’epoca, sull’esecuzione e soprattutto sul valore artistico dei dipinti nascosti.
Lavori di restauro sono stati intrapresi dalla Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Catania negli anni 1985 – 1990. La rimozione dell’intonaco ha permesso vedere la struttura muraria antica. La muratura presenta due tecniche: la parte inferiore – grossi conci di pietra squadrati ed intercalati da filari regolari di elementi di cotto (tipo di muratura caratteristico per le chiese greche e ortodosse), la parte superiore è composta da pietre piccole con maggiore quantità di malta ( si tratta di un innalzamento ulteriore). In seguito agli scavi interni è rinvenuto un impianto quadrato con l’abside più stretta rispetto all’attuale. Ciò suggerisce che la chiesa attuale è stata costruita sul posto di un’altra più antica.
Di rilevanza maggiore è la scoperta di frammenti di affresco nella conca dell’abside e sulla parete sud. Questi affreschi sono di grande valore artistico e storico. La conca dell’abside necessita di ulteriori interventi di restauro ed è possibile far rinvenire altri particolari ancora nascosti sotto l’intonaco. Ma già la parte visibile è sufficiente per fornire un idea precisa sul valore artistico e storico, nonché sul programma iconografico.
Nel 1939 il professore Enzo Maganuco, docente di Storia dell’Arte dell’Ateneo di Messina, in seguito ad un sopralluogo nelle chiese superstite dopo la colata lavica del 1928 scopri nella chiesa della Nunziatella un “piccolo affresco che trovasi all’inizio del lato destro della calotta absidale”. Il Professore pensò che si trattava di un ciclo di immagini “della vita di Cristo di cui questo frammento sarebbe un passo iniziale, cioè Cristo tra i dottori”.
In seguito ai lavori di restauro sono stati portati alla luci vari frammenti di affresco nella conca dell’abside. I frammenti del dipinto rinvenuti forniscono informazioni certi sulla composizione e sul valore artistico, e storico, nonché sul significato religioso del dipinto.
Due frammenti di affresco si trovano ai lati sotto la conca dell’abside. Sembra che la conca forma un registro distinto nella decorazione dell’abside. I due frammenti nella parte inferiore sembrano far parte di due composizioni distinte che insieme ad altre decoravano la parete dell’abside. E’ possibile che si tratti di immagini a carattere narrativo con significato teologico. Si tratta della testa nimbata di un santo al margine sinistro dell’abside e sul lato opposto la Madre di Dio col Bambino. Maganuco non ha visto il volto della Vergine e per questo pensò al tema Cristo tra i dottori; a questo lo spinse il volto del Cristo giovinetto. Nell’arte bizantina il Bambino è rappresentato nella sua natura divina e ci appare come Signore benedicente e portatore della Legge, di conseguenza il viso non è di un bambino, ma un volto maturo, pieno di saggezza divina.
La posizione di questo particolare sulla parete dell’abside fa supporre che faceva parte di una composizione nella quale occupava la parte destra in alto. Poteva rappresentare l’Adorazione dei Magi – l’immagine che ha come significato teologico l’incarnazione del Verbo– un tema ricorrente per la zona del presbiterio. Quanto riguarda la testa nimbata nella parte sinistra dell’abside è difficile risalire al significato della composizione della quale faceva parte.
Nella conca dell’abside osserviamo il Cristo Pantocratore con il nimbo crocifero, benedice con la mano destra e regge con la sinistra il libro. In basso alla sinistra di Cristo un busto con la testa nimbata di un angelo ben visibile; in alto alla destra di Cristo un angelo alato e con le mani coperte in segno di riverenza di fronte al Cristo.
I frammenti di affresco rinvenuti per prima cosa indicano che si tratta di pittura bizantina nella sua forma pura greca dell’epoca comnena, XII secolo. Con questi affreschi ci troviamo di fronte alla vera arte bizantina del suo periodo classico.
Nelle chiese bizantine l’immagine del Pantocratore occupa di solito la cupola, il posto più alto nella chiesa bizantina. In Italia nelle chiese di tipo basilicale, in mancanza della cupola il suo posto è nell’abside: busto nella cattedrale di Cefalù (mosaico costantinopolitano), in trono nell’abside a Sant’Angelo in Formis e qui a Nunziatella.
Il volto di Cristo di Nunziatella lo troviamo più vicino a quello della chiesa San Pantelimone di Nérézi (Macedonia) costruita nel 1164. La caratteristica principale di quel periodo sta in una stilizzazione avanzata delle pieghe dei vestimenti, un linearismo armonioso che tende ad appiattire i volumi (esempio). Nello stesso tempo, i dipinti conservano i tratti delicati dei volti greci con una certa libertà di movimento e concentrazione psicologica. Sul piano dello stile del trattamento delle forme, le proporzioni, l’armonia delle linee e dei dettagli, i dipinti della Nunziatella appartengono all’arte greca del XII secolo
E’ possibile una ricostruzione della composizione della conca dell’abside. Sono visibili il Cristo Pantocratore, i cuscini del trono sul quale siede, i piedi che poggiano sull’ovale che racchiude l’intera figura, un Angelo alato che sorregge con un ala l’ovale in alto a sinistra, mentre altro in basso a destra svolge una funzione similare. Sul intradosso un nastro a zig-zag delimita la composizione. Riassumendo questi elementi in un disegno e completandolo, con la consapevolezza che la composizione doveva essere simmetria, otteniamo la ricostruzione della composizione.
Il particolare dell’affresco rinvenuto sulla parete Sud, scoperto durante i lavori di restauro, costituisce un argomento forte in favore di un programma iconografico esteso a tutto l’interno della chiesa del XII secolo; esso si trova a destra di un’apertura con l’arco a tutto sesto (parete sud). L’attenta osservazione dei colori di questo frammento di affresco e dell’esecuzione tecnica dà la certezza che sia eseguito dagli stessi pittori che hanno affrescato l’abside. Questo vuol dire che la forma basilicale della chiesa esisteva al tempo dell’esecuzione degli affreschi.

21-01-2014 17-19-28

Cappella Bonajuto

A Catania del periodo bizantino sono rimasti ricordi di alcune chiese. Colate laviche e terremoti, specialmente quello del 1693, hanno distrutto la maggior parte delle testimonianze dell’epoca bizantina. Si è salvato la Cappella Bonaiuto (vedi), detta del Salvatorello.
La Cappella Binajuto o del Salvaterello si trova nel centro storico di Catania, inglobato nel settecentesco palazzo Bonaiuto in via Bonaiuto 7 ed è l’unico monumento bizantino inserito nel circuito culturale e turistico di Catania.
Altre strutture architettoniche sono state aggiunte nel XV secolo. Nella sistemazione del settecento è stato chiuso l’ingresso originale, lato sud, e aperto uno nell’abside ovest; l’abside nord è stata chiusa parzialmente con un muro facente parte di un’altra fabbrica.
Attualmente la chiesa è interrata a due metri dal livello della strada, come indica la sezione.
Non è conosciuto il titolo originario, ma si riteneva verso il ‘700 che fosse dedicata al SS Salvatore.
E’ stata ritenuta, dai scrittori catanesi, un Pantheon pagano, un sepolcro romano o un elemento di terme.
Nella seconda metà del XVIII secolo è la chiesa della casa Bonaiuto, viene trasformata in cappella mortuaria.
Negli anni trenta del secolo scorso la Soprintendenza di Catania esegui lavori di restauro sotto la direzione del arch. Sebastiano Agati, continuati dall’arch. Piero Gazzola che operò la demolizione ed il ripristino delle strutture originare del monumento.
L’edificio è una cella trichora, costituita da un vano centrale quadrato di m. 8,1 per lato coperto da una volta a vela a tutto sesto a circa 10 m, tre grandi nicchioni, nel quarto lato a mezzogiorno si trovava l’ingresso.
La volta ha un occhio di luce in chiave, aperto in un epoca relativamente recente. Quattro appoggi particolari sostengono la volta, sotto di essi – quattro colonne ioniche con ruolo decorativo e non di sostegno. Si conserva una delle basi e porzioni del capitello. La volta attuale è rifatta, riprendendo la geometria di quella originaria.
La chiesa è stata costruita con materiale di recupero romano. Forse l’impiego decorativo delle colonne ioniche fosse stimolato dall’esistenza di elementi architettonici degli ruderi antichi.
La pavimentazione originaria – basalto lavico, parte della quale è stata individuata in un locale adiacente.
L’edificio è datato a partire dal VI secolo. Probabilmente si deve posticipare questa data verso la seconda meta del secolo successivo. Per tutto il VI e inizio del VII secolo Sicilia prende ispirazione da Roma ed è alquanto improbabile che il tipo di chiesa a pianta centrale, che proprio nel VI secolo si affermava come elemento distintivo della cristianità orientale, poteva essere realizzata in Sicilia. Invece a partire del primo quarto del VII secolo la Sicilia conosce la prima grande ondata di immigrazione dell’elemento etnico greco e di rito orientale. Solo in seguito a questo fenomeno in Sicilia si diffonde la pianta centrale trilobata. Di dimensioni ridotte, la Cella Trichora, come viene riconosciuta dalla storiografia, è riscontrabile nell’Africa del Nord da dove viene portata nell’Isola.
Menzioni della chiesa si ha a partire del XVII secolo. La vediamo indicato in un disegno, la pianta di Catania, di G. Merelli tra 1676 e il 1677. Cent’anni più tardi viene menzionata da J. Houel nel Catalogue Raisoné del Voyage Pittoresque des iles de Sicilie, de Malte et de Lipari, Paris, 1782; un guazzo di J. Houel si trova al Louvre – la pianta e la vista interna della chiesa del palazzo Bonaiuto. Già a quel tempo la chiesa era trasformata in cappella privata della famiglia Bonaiuto. I primi scavi archeologici sono stati eseguiti sotto la direzione del principe Biscari nel terzo quarto del XVIII secolo e documentati da Meyer.
La Capella Bonaiuto è gestita dalla società Cappella Bonaiuto di Salvatore Bonaiuto & c. s.a.s che ha curato il restauro; destinata ad attività polivalente, rivolta principalmente alla realizzazione di servizi nei settori della fruizione dei beni culturali.

Le terme della Rotonda

Le terme della Rotonda

Le Terme della Rotonda (vedi) sono delle strutture termali di epoca romana, datate al I-II secolo d.C. e site nel centro storico di Catania. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. Della decorazione pittorica di quella che fu la chiesa rimangono poche tracce. Le più antiche identificate rappresentano i Santi vescovi Leone e Nicola, a decorazione degli stipiti dell’arco ovest del presbiterio; una Madonna in Trono sulla parete orientale dello stesso ambiente; una Madonna in Trono con Bambino. Tali affreschi si possono identificare quali appartenenti al periodo compreso tra il XII e il XIV secolo.

Cuba di Malvagna

Cuba di Malvagna

La Cuba di Malvagna (vedi), edificata nella metà del VII secolo, mostra evidenti imprecisioni costruttive ed una insufficiente cura nell’impostazione simmetrica rispetto ad  altre cube della zona etnea. Né la porta di ingresso, infatti, né l’abside sul lato est si trovano in asse e le rispettive pareti risultano avere differenti dimensioni. Nell’abside centrale si evidenziano due scarne aperture sovrapposte mentre i profili dei catini absidali, tutti dotati di riseghe alle imposte, alternano mattoni laterizi rossastri a conci di pietra lavica, notoriamente assai diffusa in tutta l’area etnea. Lo stesso materiale è stato inoltre utilizzato per l’edificazione della cupola la quale, realizzata con sistema costruttivo autoportante ad anelli concentrici, si raccorda alla pianta quadrata dell’edificio tramite conchette angolari.

S. Maria la Candelora

S. Maria la Candelora. Foto di Michele Torrisi.

La chiesa di Gesù e Maria, o del Salvatore  (vedi), o più remotamente chiamata di Santa Maria la Candelora o di Santa Maria dei Cerei, è un insigne monumento bizantino (VI° – IX° secolo) che si trova nel comune di Rometta. Questa chiesa pare facesse parte di un antichissimo monastero di suore clarisse venute a Rometta nel 1320 e a suo ricordo è rimasta la denominazione popolare di “badia vecchia”. L’edificio antico di questo monastero, che più non c’è, si sviluppava fino alla vicina “porta terra” (o porta Milazzo). Pare che queste suore siano venute a Rometta nel 1320; nel 1342 la regina Elisabetta chiese al Pontefice un breve per il trasferimento del monastero a Messina che avvenne nel 1345 e qui prese il nome di Monastero di Basicò, dal nome della strada (da “Notizie storiche di Rometta ” di Nicolò Saija).

 

Chiesa dei santi Pietro e Paolo

Chiesa dei santi Pietro e Paolo

La chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò (vedi) si trova in Sicilia, in provincia di Messina, nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. È facilmente raggiungibile percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Raggiunto e superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all’Abbazia. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.La chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò si trova in Sicilia, in provincia di Messina, nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. È facilmente raggiungibile percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Raggiunto e superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all’Abbazia. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.

Cuba Imbisci

Cuba Imbisci

Nessun dato storico aiuta a collocare cronologicamente la Cuba Imbisci (vedi). La piccola chiesa di contrada Imbischi sorge limitrofa al corso del fiume Alcantara. Tutt’intorno si intravedono resti architettonici reimpiegati in muretti a secco o in edifici rurali. Questo riutilizzo testimonierebbe un’ampia frequentazione dei luoghi ove sorgeva la chiesetta che certamente non giaceva isolata, ma inserita in un contesto abitativo ormai scomparso. L’edificio è orientato ovest/est e possiede una pianta rettangolare. Ad oriente si trova un abside semicircolare con catino emisferico. Il fianco settentrionale è conservato fino all’innesto del soffitto, al contrario di quello meridionale, del quale rimangono solo pochissime assise appena affioranti dall’attuale piano di calpestio. Nessun prospetto si conserva ad occidente.Il piccolo edificio sacro si componeva, all’interno, di un’unica navata, la cui copertura doveva essere probabilmente a volta. All’esterno, le fiancate laterali erano contraffortate e di tali semi pilastri oggi sopravvivono solo quelli settentrionali in numero di tre. Ancora, la lunga parete settentrionale presenta due finestre a forte strombo esterno, internamente caratterizzate da archetti a testa di chiodo. Si tratta di un elemento che, insieme con i contrafforti esterni, accomuna la chiesetta di Imbischi con la Cuba di S. Domenica presso Castiglione. A livello dell’imposta, si possono osservare altre due finestre rettangolari. L’abside è composto da conci di pietra lavica squadrati. La Fronte dell’abside è formata da un ampio arco a tutto sesto composto da blocchi di pietra lavica squadrata non inframmezzata da laterizi e poggiante lateralmente su due pilastrini sormontati da mensole. Non esistono dati certi che permettano una precisa collocazione cronologica della struttura. Si trattava certamente di una chiesa al servizio di una comunità rurale che viveva nei pressi del fiume Alcantara. Attraverso confronti tipologici con alcune strutture consimili, come la vicina Cuba di Castiglione o la basilichetta di Priolo, si potrebbe azzardare una collocazione temporale compresa tra il V/VI e l’VIII sec. d.C. Agli inizi del XX sec. fu Paolo Orsi ad interessarsi di contrada Imbischi [P. Orsi 1907, pp. 496-97] , compiendo alcune esplorazioni preliminari attraverso l’assistente R. Carta, a seguito dei ritrovamenti che oggi compongono la collezione Vagliasindi, esposta al museo di Randazzo. Carta rinvenne numerose sepolture a tegola dislocate per la maggior parte in contrada S. Anastasia (odierna contrada Feudo?) e nella limitrofa contrada Imbischi osservò la basilichetta che venne prontamente fotografata dal fotografo Rizzo (utilizzando presumibilmente una folding a lastre o “ibrida”, cioè con dorso predisposto per lastre o pellicole). Dalla visione delle fotografie Orsi dichiarava le sue preplessità relative alla datazione della chiesa, dubitando se si trattasse di una struttura risalente al periodo bizantino o normanno.

Siti Etnanatura:

Fonti

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Cappella Bonajuto

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21-01-2014 17-19-28La cappella Bonajuto o del Salvaterello è un edificio religioso d’epoca bizantina di Catania, eretto tra il VI e il IX secolo d. C.
Uno dei pochi edifici di rilievo superstite dell’epoca bizantina a Catania, la cappella è collocata all’interno del barocco palazzo Bonajuto in via Bonajuto 7, nel popolare quartiere catanese della Civita. Si presenta a croce greca con pianta quadrata, cupola e tre absidi («cellae trichorae» o «chiesa a trifoglio») in forma simile alla cuba bizantina presente in Sicilia. Oggi rispetto al piano della strada si trova interrato di circa 2 metri. L’edificio, che è inoltre arricchito di testimonianze medioevali e quattrocentesche, è scampato ai diversi terremoti che hanno colpito la città, fra cui quello devastante del 1693 (Terremoto del Val di Noto).

La famiglia Bonajuto prese possesso della cappella a partire dal quattrocento e nel secolo successivo vi edificò la propria residenza. Sino all’insediamento dei Bonajuto la cappella era dedicata al SS.Salvatore, denominazione che mantenne probabilmente sino al XVIII secolo [2]. Nel XVIII secolo quando la cappella fu oggetto di restauri e ristrutturazione dell’ingresso, questa fu meta del viaggio del pittore francese Jean Houel.

La cappella è stata restaurata da Paolo Orsi e Sebastiano Agati negli anni trenta. Oggi è visitabile e spesso affittata per fini espositivi e conferenze nonché come pub e come palcoscenico di gruppi musicali rock e di altro genere.
(Wikipedia)

Su Etnanatura: Cappella Banajuto.

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Metapiccola

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13-01-2013 09-19-05Metapiccola è un villaggio preistorico dell’età del ferro che rappresenta la prima fase d’insediamento dell’area di Leontinoi. Sul sito sono stati rinvenuti manufatti che datano l’insediamento tra il XI e IX a.C. Originariamente doveva trattarsi di un villagio di capanne col basamento era incassato nella roccia e con il tetto sosteniuto da pali di legno. Tutte le capanne presentavano l’ingresso sul lato corto e preceduto da un portile. Il villaggio è associato alla cultura Ausonio I di Lipari e ai villaggi sul colle Palatino a Roma, per cui, secondo alcuni, potrebbe essere questo l’insediamento di XOUTHIA fondata da XOUTHOS discendente di Liparo, associata all’immigrazione di popoli italici tramanda da Diodoro Siculo. All’arrivo dei greci (729 a.C.) il sito forse era già abbandonato, qui fu costruito un piccolo tempio e delle abitazioni di cui sono visibili le fondazioni. La necropoli, con tombe tipiche dell’età del ferro, si sviluppa sul lato orientale del colle. Si tratta di tombe a grotticella artificiale con un vestibolo di ingresso ed una cella rettangolare.

Sentiero Etnanatura: Metapiccola.

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Chiappazza Balsama

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12-01-2014 10-52-31Se sull’Etna c’è un paese magico, unico, strano, affascinante questo  è senz’altro Castiglione di Sicilia (vedi). In contrada Chiappazza Balsama, forse l’uomo preistorico, forse la natura col vento e l’acqua, si sono divertiti a modulare le rocce in forme evocative ed affascinanti. Sullo sfondo l’abbraccio dell’Etna e ai suoi piedi le acque fredde del fiume Alcantara.

Sentieri Etnanatura: Chiappazza Balsama.

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Catania romana

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Catania era originariamente un insediamento sicano, quindi dopo il XIII secolo a.C. sede di un grosso villaggio siculo e rifondato come Kατάvη nel 729 a.C. da coloni greci calcidesi guidati da Tucle dal dominio dei quali venne tolta nel 476 a.C. da Gerone I di Siracusa che la chiamò Aitna (Etna). Dopo la morte del tiranno siracusano e la sconfitta di Trasibulo la città fu riconquistata dai Katanaioi che le rimisero il nome originario. Subì la conquista di Dionisio I di Siracusa.
Fu poi conquistata dai Romani nel 263 a.C. È l’inserimento nella universalitas romana che attribuisce alla città il carattere di “sistema urbano complesso”, che verrà continuato fino alla riconversione “barocca” operata dopo la distruzione di fine XVII secolo.

Grotta Petralia

Grotta Petralia

Tracce del periodo pregreco si ritrovano soprattutto in alcune grotte. Notevoli testimonianze del periodo del bronzo antico (1.800-1.400 a.C.) si ritrovano nella grotta  Petralia (vedi) dove gli archeologi hanno infatti rinvenuto numerosi frammenti ceramici dell’Età del Bronzo, utensili di selce, ossa di grossi mammiferi, un curioso ciottolo lavico sferico, il cui significato sfugge ancora oggi agli stessi archeologi, vasi, sepolture con scheletri umani, recinti realizzati con sassi opportunamente disposti sul pavimento della grotta, entro i quali probabilmente l’uomo preistorico vi svolgeva riti d’iniziazione (v. Giuseppe Sperlinga su www.cataniacultura.com).

Grotta dei roditori

Grotta dei roditori

Al periodo romano risalgono invece i resti ritrovati nella grotta dei roditori (vedi). Nella grotta sono stati infatti rinvenuti frammenti ceramici di età tardo-romana e bizantina e i resti di una lucerna.

Rinvenimenti del periodo preistorico si sono avuti anche nella grotta delle Chiesa a San Giovanni Galermo.

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U liotru

Iniziamo il nostro percorso alla  scoperta dei resti greci e soprattutto romani di Catania dal cuore della città, piazza Duomo, e dal suo simbolo “U liotru“. La fontana dell’Elefante è stata realizzata da Vaccarini nell’ambito della ricostruzione della città etnea dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693. Secondo il geografo Idrisi, la statua dell’elefante era stata realizzata durante la dominazione cartaginese o bizantina. Nel periodo in cui visitò Catania (XII secolo), l’elefante di pietra lavica si trovava già all’interno delle mura della città. Vi sarebbe stato portato daibenedettini del monastero di Sant’Agata, che lo avrebbero posto sotto un arco detto “di Liodoro”. Nel 1239 la statua dell’elefante fu scelta come simbolo di Catania. Alcuni sostengono che il trasferimento all’interno delle mura avvenne proprio in quest’occasione. L’elefante sorregge un obelisco che probabilmente fu portato a Catania durante le crociate, proveniente da Syene. In città fu collocato nel Circo Massimo, secondo l’ipotesi di Ignazio Paternò Castello.

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Duomo, colonne romane.

La proboscide dell’elefante indica l’ingresso del duomo dove troviamo delle colonne probabilmente provenienti dal teatro romano.

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Terme Achilliane

Accanto al duomo si trova l’ingresso delle terme Achilliane (vedi). Si tratta di strutture termali sotterranee databili al IV-V d.C. Dell’impianto originale si conserva una camera centrale il cui soffitto a crociere è sorretto da quattro pilastri a pianta quadrangolare. Al vano si accede tramite un corridoio con volta a botte che corre in direzione est-ovest e terminante in una porta che si apre su una serie di vasche ad ipocausto parallele tra loro, facenti parte di un complesso sistema di canalizzazione dell’acqua che si estende verso nord. Anche il vano principale si apre con tre ingressi ad arco sulle vasche, ad ovest del vano stesso.

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Casa natale Sant’Agata

Dietro il Duomo, in via Museo Biscari, alla Civita, si trova quella che la tradizione vuole sia la casa natale  Sant’Agata. Così testimonia una lapide fatta affiggere nel 1728 dalla madre abatessa Maria Rosaria Statella nel prospetto sud del convento di San Placido. In effetti nei sotterranei del convento sono stati rinvenuti rest archeologici coevi alla santa catanese.

Cappella Bonajuto

Cappella Bonajuto

In via Bonajuto possiamo vistare uno dei pochi edifici di rilievo superstite dell’epoca bizantina a Catania, la cappella Bonajuto (vedi). Si presenta a croce greca con pianta quadrata, cupola e tre absidi («cellae trichorae» o «chiesa a trifoglio») in forma simile alla cuba bizantina presente in Sicilia. L’edificio, che è inoltre arricchito di testimonianze medioevali e quattrocentesche, è scampato ai diversi terremoti che hanno colpito la città, fra cui quello devastante del 1693. La famiglia Bonajuto prese possesso della cappella a partire dal quattrocento e nel secolo successivo vi edificò la propria residenza. Sino all’insediamento dei Bonajuto la cappella era dedicata al SS.Salvatore, denominazione che mantenne probabilmente sino al XVIII secolo. Nel XVIII secolo quando la cappella fu oggetto di restauri e ristrutturazione dell’ingresso, questa fu meta del viaggio del pittore francese Jean Houel.

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Piazza Mazzini, colonne romane.

Ritornando indietro verso il Duomo e imboccando via Garibaldi s’incontra Piazza Mazzini. Nei primi decenni del XVIII secolo, non è certo per mano di quali architetti, in quella che sarebbe dovuta divenire la principale piazza del mercato catanese sorsero quattro identici loggiati, ciascuno composto da 8 colonne in marmo bianco, che formarono una cornice quadrangolare lungo i perimetri del luogo ad eccezione delle quattro aperture stradali. Tali colonne furono recuperate da rovine di epoca romana probabilmente dai resti di una basilica posta dove oggi sorge la chiesa di Sant’Agostino con convento annesso.

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Terme dell’Indirizzo.

Da piazza Mazzini prima per via Auteri e poi per via Bonoma arriviamo a piazza Currò dove possiamo ammirare da lontano (in quanto non sono visitabili) le terme dell’Indirizzo (vedi). Si tratta di alcuni resti di un complesso termale romano risalenti al II secolo. Il complesso evidenzia un calidarium ed un frigidarium, oltre alle fornaci per il riscaldamento dell’acqua e dell’aria e tutte le canalizzazioni per l’approvvigionamento dell’acqua e quelle per lo scarico. Altri ambienti accessori sono evidenziati a livello di fondamenta. La dizione Indirizzo si riferisce al vicino Convento carmelitano dell’Indirizzo, così denominato per un miracolo che avrebbe salvato il viceré Pedro Téllez-Girón, terzo duca di Osuna nel 1610. Sorpreso da una tempesta mentre si avvicinava alla costa durante la notte, venne salvato da una luce votiva di detto convento che lo “indirizzò” al porto.

Castello Ursino

Castello Ursino

Proseguendo per via San Calogero si arriva al castello Ursino fondato da Federico II di Svevia nel XIII secolo. Il maniero ebbe una certa visibilità nel corso dei Vespri siciliani, come sede del parlamento e, in seguito, residenza dei sovrani aragonesi fra cui Federico III. Oggi è sede del museo civico della città etnea. Per la tematica del presente articolo ci interessa sottolineare la presenza nel museo del nucleo principale della raccolta Biscari costituito da materiali archeologici provenienti dagli scavi eseguiti a Catania.

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Foro romano

Nel cortile San Pantaleone ritroviamo il Foro romano (vedi). Il presunto Forum si presentava come una serie di diversi edifici circondanti un’ampia area centrale che costituiva il “foro” vero e proprio. Tali edifici dovettero essere quasi certamente essere dei magazzini o negozi. Lorenzo Bolano descriveva nel Cinquecento la presenza di otto ambienti con copertura a vôlta a sud e altri quattro a nord (quasi certamente perduti questi ultimi con la creazione del Corso, attuale via Vittorio Emanuele II). Il Bolano riferisce anche di un’ala occidentale distrutta ai suoi tempi. Il Bolano tuttavia lo descrive come un impianto termale, dato che la zona era soggetta a periodici fenomeni di allagamento. La struttura rimase così definita fino alle dovute correzioni del Biscari. Ancora Valeriano De Franchi, cartografo per l’opera del D’Arcangelo, ne traccia una prima planimetria dove la struttura viene chiamata Terme Amasene. Ai tempi del principe Ignazio Paternò Castello il pianterreno risultava essere già sepolto, mentre il secondo piano (cinque metri più in alto) era diventato residenza per molti popolani e i lati ridotti a due soltanto (quelli a sud e ad est) uniti ad angolo retto. Adolf Holm attesta esserci stati ai suoi tempi sette vani ad est e tre a sud e che questi furono chiamati “grotte di S. Pantaleo (…) per metà interrate e ridotte a povere abitazioni”. Il Libertini, in nota al testo dell’Holm, fa presente come gli otto ambienti a sud persistano, mentre le strutture a est furono convertite in antico in un unico corridoio. La facciata era di circa 45 metri di lunghezza. Tuttavia le strutture riconosciute dal Libertini erano quelle del secondo piano, mentre cinque metri più sopra rimanevano i ruderi del piano interrato che potrebbero essere i locali di cui fa menzione l’Holm. Oggi del presunto foro rimangono soltanto un paio di ambienti attigui visibili a sud, con ingresso architravato sormontato da una apertura ad arco, molto simile nell’aspetto ai magazzini del Foro Traianeo, oltre alle aperture ad arco semplice. Della struttura a est rimangono i resti di una parete in opus reticulatum appartenenti ad uno dei magazzini. Tuttavia, in un lavoro del 2008, Edoardo Tortorici ha messo in dubbio la possibilità che si tratti di un foro, mettendo piuttosto la struttura a confronto con gli horrea noti. Il vicino convento di S. Agostino pure conservava parte della struttura, forse una basilica, consistente in un grosso muro cui poggiava l’edificio religioso e trentadue colonne, prima del terremoto del 1693 componenti il chiostro del convento, in seguito poste a decoro dell’antico Plano San Philippo (oggi Piazza Mazzini). Da qui inoltre provengono il torso colossale di imperatore giulio-claudio e un lastricato in calcare un tempo esposti al Museo Biscari. Oggi il torso colossale è ospite al Castello Ursino.

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Balneum di casa Sapuppo.

Nella piazza Sant’Antonio dove ritroviamo il Balneum di casa Sapuppo. Trovato da Biscari nel Settecento probabilmente struttura termale privata. Purtroppo il sito è “protetto” da un’orribile gabbia di ferro e vetro che ne rende impossibile la fruizione.

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Balneum di piazza Dante

Attraversando in perpendicolare via Garibaldi, via Vittorio Emanuele e infine via teatro Greco ritroviamo il monastero dei Benedettini. Nella piazza antistante ancora un edificio termale romano: il balneum di piazza Dante, anch’esso probabilmente struttura termale privata in dote ad un’antica casa patrizia in epoca tardo imperiale.

Monastero dei benedettini, strada romana Cardo.

Monastero dei benedettini, strada romana Cardo.

Sotto le scuderie del Monastero dei Benedettini e nel cortile interno ritroviamo due strade romane: il Decumano e il Cardo. Il decumano (in latino: decumanus, variante di decimanus, derivato di decĭmus, “decimo”) era una via che correva in direzione est-ovest nelle città romane. Esse erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi, in particolare per quanto riguarda le fondazioni coloniali.

Monastero dei benedettini, strada romana Decumano.

Monastero dei benedettini, strada romana Decumano.

Il termine decumanu veniva infatti utilizzato per indicare una delimitazione in direzione est-ovest nella centuriazione romana, ossia la divisione del territorio di una colonia in lotti quadrati che venivano assegnati ai singoli coloni. Ciascun lotto costituiva il fondo per cento famiglie, ed era delimitato da un cardo, il “polo cardinale” e ogni dieci famiglie, da un decumanus, “la strada della decima parte”.

Uno degli assi principali della centuriazione e dell’urbanistica cittadina era il decumanus maximus, che si incrociava ad angolo retto con il cardo maximus, ovvero il principale asse nord-sud. L’insediamento romano risultava quindi diviso in quattro parti chiamate quartieri (termine che in seguito ha assunto il significato di nucleo con caratteristiche storiche e geografiche all’interno di un agglomerato urbano). Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, ossia la piazza principale della città. Il decumanus maximus inoltre collegava due delle quattro porte dell’insediamento, quelle in direzione est – ovest: la dextera e la sinistra. Il Decumano dei Benedettini presenta una notevole pendenza da Est verso Ovest e corre, come dicevamo,  sotto tutto il plesso delle ex scuderie del convento. Sui lati del Decumano di affacciavano edifici dotati di portici, di cui ancora oggi si conservano alcuni pilastri in blocchi lavici squadrati e allineati lungo il marciapiede. Accanto al Cardo sono stati ritrovati i resti di una strada e di una domus romani. Sempre in quest’area sono stati repertati manufatti risalenti all’età neolitica e un tratto di mura civiche di periodo greco.

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Terme dell’Itria.

Poco lontano i pochi resti di un altro edificio termale: le terme dell’Itria.

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Chiesa dei Minoritelli, carcere romano

 

Di fronte l’ospedale Santa Marta, accanto alla chiesa dei Minoritelli, i resti del carcere romano che la leggenda vuole sia stato il carcere di transito dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino prima che venissero uccisi a Lentini da Tertullo.

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Terme della Rotonda.

Scendendo per via Rotonda si incontrano le Terme della Rotonda (vedi). Sono delle strutture termali di epoca romana di grande fascino e bellezza, datate al I-II secolo d.C.. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. La struttura termale è stata solo di recente chiarificata, come un grande complesso di edifici quadrangolari connessi tra loro e seguenti uno stesso orientamento. Tra essi emerge una grande sala absidata – forse un frigidarium – orientata in direzione nord-sud databile alla prima fase vitale delle terme, a cui si appoggia sul lato est un grande ambiente ad ipocausto ricco di numerose suspensurae che dovevano reggere un pavimento mosaicato di cui pure si sono rinvenute esigue tracce e identificabile come calidarium.

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Teatro romano.

Alla fine di via Rotonda, in via Vittorio Emanuele, si segnala per bellezza  e importanza storica il Teatro romano (vedi). Il suo aspetto attuale risale al II secolo ed è stato messo in luce a partire dalla fine del XIX secolo. A est confina con un teatro minore, detto odeon. La struttura teatrale visibile appartiene alle grandi costruzioni del genere di epoca antonina, composta da una complessa scena, originariamente decorata da colonne marmoree in seguito resa monumentale con l’aggiunta di nicchie e finti ambienti prospettici che dovevano creare l’illusione di una più vasta profondità, un pulpitum riccamente strutturato e decorato da marmi, l’orchestra dal diametro di circa 22 metri originariamente rivestita in opus sectile con una fantasia di cerchi inscritti in quadrati, danneggiata più volte e restaurata un’ultima volta malamente nel IV secolo, e sovente allagata da una polla di acqua sorgente scambiata in passato con l’Amenano, i due parodoi fortemente rovinati dai lavori effettuati per ricavarne ambienti e persino scarichi per le acque nere, una delle carceris resa nel XVIII secolo una palazzina privata, l’ampia cavea dal diametro di 98 metri costituita da ventuno serie di sedili, divisi orizzontalmente da due praecinctiones e verticalmente da nove cunei e otto scalette. Le due precinzioni separano le tre parti della cavea: ima (poggiata direttamente sul declivio del colle Montevergine), media e summa (queste ultime messe in comunicazione dagli ambulacri che si aprono verso l’esterno tramite diversi vomitoria ai vari cunei e tra loro con un fitto sistema di scale).

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Domus di via Crociferi.

 

Lungo via Crociferi si trovano, in verità ben nascosti da orribili loculi di cemento e vetro, i resti della Domus di via Crociferi casa patrizia di epoca romano imperiale.

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San Gaetano alle Grotte.

Risalendo per via Etnea fino a piazza Stesicoro, a destra, al centro del mercato, si trova la chiesa di San Gaetano alle Grotte (vedi) che sorge sui resti di un antico tempio fondato nel 262 d.C. dall’allora vescovo S. Everio col titolo di S. Maria. All’interno di una grotta lavica originatasi forse nell’eruzione del Larmisi venne ricavata una cisterna ipogea di epoca romana, in seguito riadattata all’uso di sepolcreto paleocristiano delle necropoli. L’impianto primitivo divenne nel 262 una chiesa cristiana, forse la prima costruita a Catania, prima ancora della vicina chiesa del Santo Spirito eretta ad opera del vescovo San Berillo, e tra le prime in Europa ad essere intitolate a Maria. Inizialmente sede di un martyrion. Le tracce più antiche, precedenti alla trasformazione in chiesa, sarebbero da cercarsi nel pozzo a sud dove sul soffitto rimangono tracce di una campata in mattoni di terracotta, un archosolium (murato per ricavarne l’altare), una falsa finestra e due sedili in pietra lavica. Con l’editto che consentiva la libertà di culto del 313 l’edificio poté dotarsi degli elementi strutturali necessari alle funzioni sacre, come l’altare (che probabilmente chiudeva un passaggio verso un altro settore della grotta che si estendeva a nord verso il santuario del Carmine) e l’arco trionfale che reggeva un’iconostasi. In questo periodo l’ambiente venne totalmente rivestito di affreschi di cui oggi non restano che labili tracce, se non una Madonna con Bambino del III secolo, di cui si leggono appena i volti, nella parete settentrionale dov’è ricavato l’altarino, rimaneggiato più volte nei secoli successivi. Con l’erezione del tempio apogeo vengono messe in atto le prime sostanziali modifiche, tra cui un nuovo ingresso più ampio a occidente e la ristrutturazione del pozzo per ricavarne un fonte battesimale. Il battesimo avveniva per immersione e lo si faceva superati i sette anni di vita. Non si conosce se con la conquista Islamica la chiesetta subì qualche modifica, certo è che nell’XI secolo, con l’avvento dei Normanni, fu rimaneggiata sostanzialmente. Venne eretta una nuova gradinata in pietra lavica in sostituzione di una ripida discesa (com’era più usuale in epoca paleocristiana) e il cambio di culto (da orientale a occidentale) influenzò anche l’architettura battesimale: di questo periodo infatti il pozzo cilindrico per il lavaggio del capo ai fanciulli.

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Mausoleo romano del Carmine. Foto tratta da Facebook

Dietro il mercato con accesso dalla Caserma Centro Documentale Esercito di Catania, ritroviamo il Mausoleo romano del Carmine costituito da alcuni resti di un edificio funerario di epoca romana datato alla seconda metà del II secolo e indicato dagli studiosi come significativo esempio fra i monumenti funerari d’età romana. Questo mausoleo è stato erroneamente indicato come la tomba di Stesicoro.

Anfiteatro romano.

Anfiteatro romano.

Ritornando su piazza Stesicoro non possiamo non visitare l’Anfiteatro romano (vedi) forse la più significativa testimonianza di epoca romana presente a Catania. Il monumento fu costruito nel II secolo, la data precisa è incerta, ma il tipo di architettura fa propendere per l’epoca tra gli imperatori Adriano e Antonino Pio. Fu raggiunto dalla lava del 252-253 ma non distrutto. Nel V secolo Teodorico re degli Ostrogoti lo utilizzò quale cava di materiale da costruzione per la edificazione di edifici in muratura e, successivamente nell’XI secolo, anche Ruggero II di Sicilia ne trasse ulteriori strutture e materiali per la costruzione della Cattedrale di Sant’Agata, sulle cui absidi si riconoscono ancora le sue pietre perfettamente tagliate usate, forse, anche nel Castello Ursino in età federiciana. L’edificio presentava la pianta di forma ellittica, l’arena misurava un diametro maggiore di 70 m ed uno minore di circa 50 m. I diametri esterni erano di 125 x 105 m, mentre la circonferenza esterna era di 309 metri e la circonferenza dell’Arena di 192 metri, e si è calcolato che poteva contenere 15.000 spettatori seduti e quasi il doppio di quella cifra con l’aggiunta di impalcature lignee per gli spettatori in piedi. Addossato alla vicina collina ne era separato da un corridoio con grandi archi e volte che facevano da sostegno per le gradinate. Era probabilmente prevista anche una copertura con grandi teli per il riparo dal forte sole o nel caso di pioggia. La cavea presentava 14 gradoni. Venne costruito con la pietra lavica dell’Etna ricoperta da marmi ed aveva trentadue ordini di posti. Secondo una tradizione incerta e priva di riscontri si vuole vi si svolgessero anche le naumachie, vere battaglie navali con navi e combattenti dopo averlo riempito di acqua mediante l’antico acquedotto. L’anfiteatro di Catania è strutturalmente il più complesso degli anfiteatri siciliani e il più grande in Sicilia. Appartiene al gruppo delle grandi fabbriche quali il Colosseo, l’anfiteatro di Capua, l’Arena di Verona. Presenta una struttura realizzata con muri radiali e volte non addossata al terreno, dove la facciata non si appoggia direttamente ai muri radiali, bensì a una galleria di distribuzione periferica.

 

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Chiesa sant’Agata alla Fornace

Alle spalle dell’Anfiteatro la chiesa di sant’Agata alla fornace. Sopra l’altare dal magnifico paliotto in marmi policromi, si conservano, protetti da una teca, i resti della fornace in cui subì il martirio la Santa.

Sant'Agata al carcere.

Sant’Agata al carcere.

Risalendo per via Cappuccini si incontra subito Sant’Agata al carcere (vedi). Secondo la tradizione in questo luogo venne tenuta prigioniera sant’Agata prima di subire il martirio. Accanto ad essa si apre un angusto passaggio che conduce in un locale di epoca romana, attiguo alla chiesa, considerato il carcere di Sant’Agata da cui discende la denominazione della chiesa. Recenti scavi qui effettuati hanno confermato l’esistenza di una grande struttura tripartita coeva al martirio della Santa, la cui funzione tuttavia non è ancora ben chiara. Nella stessa chiesa è conservata la cassa in cui erano contenute le reliquie di sant’Agata riportate a Catania, da Costantinopoli, dai soldati Gisliberto e Goselmo nel 1126, dopo un’assenza di oltre 86 anni.

Sant'Agata la Vetere

Sant’Agata la Vetere

Ancora più in alto, lungo vi santa Maddalena, ritroviamo la chiesa di Sant’Agata la Vetere (vedi). La sua fondazione risale all’anno 264, quando il vescovo San Everio, quarto vescovo della diocesi, eresse una modesta edicola votiva nel luogo in cui la vergine Agata subì il martirio del taglio delle mammelle, tredici anni dopo la sua morte. Dopo l’editto di Costantino (313) l’edicola fu sostituita da un vero e proprio edificio di culto costruito, ad opera del vescovo San Severino, tra il 380 ed il 436. La chiesa di Sant’Agata la Vetere divenne sede della cattedra vescovile ed in essa sarebbero state trasferite le reliquie della martire dal loro originario luogo di sepoltura. Ampliata in forma basilicale nel 776 o 778, la chiesa fu la cattedrale della città per otto secoli, fino al 1089 o 1091 (quando il conte Ruggero dispose l’edificazione della nuova Cattedrale, consacrata nel 1094): per questo motivo fu indicata con l’appellativo la Vetere, cioè l’antica. Quasi totalmente distrutta dal terremoto del 1693, ad eccezione della cripta sotterranea, fu ricostruita nel 1722. Subito dopo l’ingresso, protetta da una teca, si trova la cassa in legno che per oltre 500 anni custodì le spoglie di sant’Agata.

Cripta della chiesa di sant'Euplio.

Cripta della chiesa di sant’Euplio.

Nella parte alta di piazza Stesicoro, all’inizio di via sant’Euplio, la Cripta di sant’Euplio (vedi). I ruderi della chiesetta dedicata al diacono co-patrono di Catania, Sant’Euplio, costruita in età medioevale e distrutta l’8 luglio 1943 dal bombardamento alleato, conservano l’accesso ad un ambiente ipogeo, identificato in antico con la prima chiesa in cui il Santo officiò, dove fu trovato e ucciso. All’ambiente ricavato in gran parte nella roccia si accede mediante una scala che conduce in una camera piuttosto umida su cui si aprono alcune nicchie laterali, probabilmente destinate a sepolcro. Sulle pareti resistono ancora antiche tracce di pittura. Gli affreschi dovettero adornare anche il piccolo altare in cui rimangono solo poche figure, ormai quasi completamente scomparse.

Mausoleo circolare di villa Modica

Mausoleo circolare di villa Modica

Risalendo via Etna fino alla villa Bellini, al numero 35 di viale Regina Margherita, all’interno di un giardino privato, si erge il Mausoleo circolare di villa Modica (vedi). La Villa Modica è un edificio ottocentesco che sorge sul viale Regina Margherita, area di villeggiatura nel corso del XIX secolo sorta su ciò che molti secoli prima fu la Necropoli patrizia di Catania. L’edificio, un ricco palazzotto nobiliare in stile Neo-Romanico con accenni di Neo-Gotico, racchiude un ampio giardino, un tempo facente parte della ricca selva del contado catanese, in cui è custodito un importante Mausoleo Romano. L’edificio funebre presenta un diametro esterno di poco inferiore agli 8 metri e reca a ovest un’apertura arcuata che da’ all’interno. Al di sopra una cornice in terracotta (di cui non rimangono che labili tracce) segnava il confine tra il pianterreno e il piano superiore. L’interno del piano inferiore è un ambiente circolare su cui si affacciano quattro nicchie ad arco ricavate nello spessore murario, mentre la copertura è un’originale volta a cono ribassato (quasi “mammelliforme”) realizzato da fasce parallele concentriche in pietre di lava. Il secondo piano era invece costituito da un portico aperto verso est, costituito da due mezze colonne. Del secondo piano tuttavia rimane un alzato di circa 50 cm soltanto, quanto basta tuttavia a supporre l’esistenza di un nicchione atto probabilmente a contenere una qualche statua.

Ipogeo quadrato

Ipogeo quadrato

Poco distante, con accesso da una traversa di via Ipogeo, un altro edificio funebre, l’Ipogeo quadrato (vedi)  lungo circa 15 metri e largo 12. Anch’esso presenta un ingresso ad ovest cui corrisponde un angusto corridoio che conduce ad un loculo di fronte, a seguito di una scalinata che lo ingombrava per metà; ai due lati corrispondevano due piccole nicchie atte forse a contenere altrettante urne funerarie e aperte all’esterno da strette feritoie, di cui rimane la sola a nord, a seguito della demolizione della parete sud per ricavare la bocca di una fornace per la calce ad uso dell’allora vicino monastero dei Padri Riformati cui apparteneva. Si presenta costruito ad opus incertum e coperto da una vôlta in mattoni di terracotta. Il Principe di Biscari, sulla base della robustezza della fabbrica e notando i resti di una copertura a volta a botte ne supponeva un secondo piano, verosimilmente a piramide (spinto probabilmente anche dalla considerazione della forma in pianta quasi perfettamente quadrata), così come più tardi confermava il Serradifalco.

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Chiesa della Mecca, colombario.

Risalendo per via Vittorio Emanuele, dentro l’edificio del vecchio ospedale Garibaldi, ritroviamo la Chiesa della Mecca. L’antica chiesa della Mecca, la cui etimologia rimane oggi ancora ombrosa, si presenta oggi nel suo aspetto settecentesco, ricostruita dopo il terremoto del 1693 su un precedente edificio di culto risalente al 1576 legato ad un piccolo monastero. Il monastero divenne nel 1856 sede di unalbergo dei poveri, divenuto nel 1883 per interesse senato civico sede dell’ospedale Garibaldi. La chiesetta, ridotta oggi a cappella ospedaliera e retta da un piccolo gruppo di monache, conserva l’accesso ad una cripta di epoca romana. Essa consiste di un colombario di oltre 6 metri di lunghezza per quasi 4 di larghezza. Tale colombario venne costruito nella prima metà in pietra lavica e in mattoni per la parte superiore, con una copertura a volta a botte. lungo le quattro pareti si aprono 18 loculi quadrangolari di cui uno, sul lato ovest, a nicchia e molto più grande rispetto agli altri.

Monumento funerario collina Laucatia

Monumento funerario collina Laucatia

Per ritrovare un altro monumento funerario dobbiamo allontanarci dal centro di Catania e spostarci alla periferia in cima alla collina Leucatia (vedi). In cima al monte San Paolillo, resistono all’ingiuria del tempo e dell’uomo i ruderi di un edificio che ricorda la tipologia di alcuni monumenti sepolcrali romani rinvenuti nella città di Catania e in alcune aree della fascia costiera ionica. Sin dal XVII secolo, si narrava di un’antica costruzione risalente al II-III sec. d.C., riferibile a un tempio di epoca romana, dedicato alla dea Leucotea, di forma quadrata, edificata con grossi blocchi basaltici, con all’interno tre nicchie e coperta a volta. La forma quadrata era ascrivibile alla presenza di muri di rivestimento sui lati est, sud e ovest, prolungati fino a incontrarsi ad angolo retto. Le pareti dovevano presentarsi prive di alcun rivestimento marmoreo. La costruzione della monumentale tomba, agli inizi del ‘900, subì consistenti modifiche. Per consentire, infatti, sia una più comoda visione panoramica della città, sia l’appostamento di cacciatori pronti a sparare all’avifauna di passaggio, sarebbe stato costruito un terrazzino con annessa scalinata al posto dell’originaria artistica cupola. Sempre qui, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania, dal novembre al dicembre 1994 ha condotto una campagna di scavi in seguito alla quale sono stati riportati alla luce, sparsi in un raggio di alcune decine di metri, altri interessanti ritrovamenti: il banco lavico del monumento funerario, una tomba a cassa (sempre di epoca romana), un muro spesso 80 cm e lungo 6 m, che gli esperti, esaminata la tecnica di costruzione, fanno risalire addirittura al IV sec. a.C. E, ancora, materiale ceramico attribuibile al passaggio dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro, frammenti ceramici ascrivibili al periodo che va dal Bronzo medio all’epoca greco-arcaica. L’anno successivo, inoltre, sono stati rinvenuti lembi di ciottoli fluviali compattati, sormontati da un piano di calpestio in terra battuta e pochi frammenti riconducibili presumibilmente al Bronzo medio. La breve campagna di scavi ha consentito agli archeologi di verificare quanto già scritto nei secoli passati dai cultori della storia catanese e vale a dire che la presenza di notevole materiale stratificato non solo testimonia con certezza il passaggio di antiche civiltà, ma apre nuovi scenari dalla Preistoria alla colonizzazione greca. Ora, una campagna di scavo della Soprintendenza effettuata a poche decine di metri dal cantiere bloccato dalla magistratura ha riportato alla luce i resti di un villaggio preistorico. Ne sapremo sicuramente di più nelle prossime settimane. L’analisi dei reperti finora recuperati confermano che la colonizzazione del territorio non è avvenuta solo a partire dalla città antica, ma contemporaneamente in aree periferiche che potevano avere per i Calcidesi una posizione strategica militare ed economica. E la collina di Leucatia risponde a queste esigenze, tant’è vero che fu abitata da uomini primitivi che sfruttarono le sorgenti d’acqua e la naturale posizione di difesa del sito. Le conoscenze raggiunte permettono, inoltre, di affermare che non solo l’area ricopre un interesse archeologico di gran pregio in quanto testimonianza diretta d’insediamenti indigeni pre-coloniali, ma anche dell’appartenenza del monumento funerario a una vasta area di necropoli di epoca romana asserita lungo la direttrice della Catania-Messina. Un’altra importante annotazione è che l’attuale area era un’impenetrabile selva di querce e pini. In epoca romana, la legna ricavata da quei boschi, una volta trasferita nei cantieri dell’Urbe, servì in gran parte per la costruzione della flotta navale romana (Tutte le notizie relative alla collina Leucatia sono tratte da un articolo pubblicato dal prof. G. Sperlinga su Cataniacultura).

Acquedotto romano

Acquedotto romano

Un discorso a parte merita l’acquedotto romano (vedi). L’acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo. Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma, mentre è in Bolano la prima descrizione dell’acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera e nel secolo successivo Vito Maria Amico e Ignazio Paternò Castello descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico, tuttavia le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e separata in due ambienti da un alto divisorio, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci ne ipotizza una portata di 46 zappe. L’ingegnere Luciano Nicolosi pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l’aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l’esterno, come per l’interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell’acquedotto. Nel 1964 l’archeologa Sebastiana Lagona ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell’analisi dell’edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell’auditorium “Don L. Milani” di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l’acquedotto catanese come tema principale, a cura dell’organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell’Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania. Per l’approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l’abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d’acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi – l’Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano – o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell’Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (…) adatti alla coltura. Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite. Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania. La presenza della grande struttura è certa solo dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino. Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell’antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l’esigenza di un tale monumento. L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l’eruzione del 253 e una lapide – rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva – ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po’ di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l’uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all’attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata “con ordinate lastre”, cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio. L’eruzione dell’Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi). Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.Il tracciato dell’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono quattro diverse sorgenti che venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente – sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura – un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all’interno delle condotte e conservate dall’Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro convento. Queste lamine per l’Amico dovevano ricoprire l’intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall’usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius. Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km. Qui da una quota di terra 369,50 m.s.l.m. si giunge a circa 347,50 m.s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell’acqua va da quota 368,00 m.s.l.m. a 349,75 m.s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi. Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell’acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l’acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell’abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private etc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l’Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il convento benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all’esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto <>. Leggende. Molte porzioni dell’acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L’uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari – non scritte, ma tramandate oralmente – come diverse storie legate alla figura di Sant’Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l’immensità del suo amore – non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio – fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all’identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu.

Attualmente esistono tre testimonianze a Catania dei resti dell’acquedotto romano. Di fronte l’ospedale Nuovo Garibaldi, dietro il liceo Spedalieri e in via Grassi in un orto privato (vedi mappa).

Pagine di dettaglio su Etnanatura:

 

p.s. Dove non citato si devono assumere come fonti l’enciclopedia on line Wikipedia e il testo Catania antica di Antonio Scifo Alma Editore.

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Terme Achilliane

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06-02-2009 05-52-33Le terme Achilliane sono delle strutture termali sotterranee databili al IV-V secolo e situate a Catania, sotto piazza del Duomo. Si accede alle terme passando dal Museo Diocesano di Catania: un corridoio con volta a botte ricavato nell’intercapedine tra le strutture romane e le fondamenta della cattedrale (il cui accesso è costituito da una breve gradinata di epoche diverse posta a destra della facciata) consente di fare un viaggio nelle viscere della città, dove scorre il fiume Amenano le cui acque risalgono in superficie nella vicina fontana dell’Amenano nella piazza antistante. Il nome dell’impianto è dedotto da un’iscrizione su lastra di marmo lunense ridottasi in sei frammenti principali molto lacunosi, databile alla prima metà del V secolo, oggi esposta all’interno del Museo civico al Castello Ursino.
L’epoca di fondazione dell’edificio è ancora discussa, ma si ritiene probabile che esistesse già nel IV secolo: l’esistenza dell’edificio in epoca costantiniana è ipotizzata in base al reimpiego all’interno della cattedrale di un gruppo di capitelli del periodo, che potrebbero provenire da questo edificio.
Sepolti dai terremoti del 4 febbraio 1169 e dell’11 gennaio 1693, i resti – già noti in antico – furono dapprima liberati dal principe di Biscari.
Nel 1856, durante la realizzazione della galleria che passa sotto al Seminario dei chierici destinata ad essere la Pescheria di Catania, si trovarono dei ruderi che pure furono attribuiti allo stesso edificio, pertinenti forse ad un calidarium, in quanto vi erano presenti tracce di un pavimento ad ipocausto. La struttura doveva estendersi fino alla via Garibaldi, dove si trovarono altri avanzi.
Secondo la ricostruzione planimetrica ottocentesca del complesso, la parte attualmente visitabile comprendeva probabilmente solo una parte del frigidarium.
Dal 1974 al 1994 furono chiuse perché considerate insicure. Furono riaperte dopo un restauro del comune (1997) e nuovamente richiuse per problemi di allagamento. Dopo i lavori di pavimentazione della piazza del Duomo (2004-2006) – nel corso dei quali si è ritenuto di coprire l’impianto con una poderosa piastra d’acciaio per rinforzare l’impiantito della piazza stessa – l’edificio termale è stato nuovamente riaperto al pubblico e alla realizzazione di eventi.
Dell’impianto originale si conserva una camera centrale il cui soffitto a crociere è sorretto da quattro pilastri a pianta quadrangolare. Al vano si accede tramite un corridoio con volta a botte che corre in direzione est-ovest e terminante in una porta che si apre su una serie di vasche ad ipocausto parallele tra loro, facenti parte di un complesso sistema di canalizzazione dell’acqua che si estende verso nord. Anche il vano principale si apre con tre ingressi ad arco sulle vasche, ad ovest del vano stesso.
L’ambiente misurerebbe 11,40 m di larghezza e 12,15 m di lunghezza, mentre le stanze ad ipocausto sarebbero lunghe in tutto 18,65 m. Il corridoio misurerebbe 2,50 metri in larghezza per una lunghezza di oltre 16 m. Una ipotesi molto fantasiosa sulla estensione delle terme la fece nel 1633 il D’Arcangelo, erudito di storia locale, il quale fece realizzare una planimetria priva di elementi reali e riconoscibili, sebbene abbia il merito di essere il primo lavoro avanzato in tal direzione. Molto più accurata è la planimetria resa da Sebastiano Ittar nella pianta generale della città di Catania. In essa viene attribuita alle terme una cortina muraria che correva a sud della piazza Duomo, identificata quale muro perimetrale dell’area termale.
Anticamente i pavimenti (di cui oggi non rimangono che labili tracce) erano in marmo, come dimostrano i resti di una vasca posta al centro dell’aula, mentre alle pareti e sul soffitto vi erano stucchi sicuramente dipinti ispirati al mondo della vendemmia, con eroti e tralci di vite.
L’epigrafe, scritta in alfabeto e lingua greci è posta su quattro linee ed è formata da sei lastre incise, con lacune peraltro non gravi, ritrovate in diverse epoche, ma originariamente facenti parte di un unico lastrone in marmo lunense. Esse misurano 0,30 metri in altezza ed hanno una lunghezza complessiva di quasi 4,30 metri. Si suppone che tale incisione faccia parte dell’edificio sito al di sotto della piazza Duomo. Ricordiamo anche la presenza di quattro lapidi riportanti la scritta Q. LUSIUS/ LABERIUS/ PROCONSUE/ TÆRMAS, che confermerebbe ulteriormente tale ipotesi e che un tempo erano forse esposte all’ingresso delle terme e in seguito murate sulla base di quattro dei pilastri che dividono le tre navate della cattedrale.
Prima del terremoto del 1693, i primi tre frammenti che costituivano la lapide furono murati nella facciata della cattedrale, poi spostati in una parete del vescovato secentesco e da qui vennero trasportati nell’antica Loggia. Nel 1702 si ritrovarono altri due frammenti che l’abate Vito Maria Amico unificò con gli altri e tradusse. In seguito furono esposti al Museo del principe Biscari e da qui all’attuale collocazione presso il museo civico del Castello Ursino. L’iscrizione è stata ricomposta utilizzando tutti i frammenti conosciuti ed è messa a terra, appoggiata a una parete, in modo non consono alla sua importanza, della grande sala ovest detta delle Anfore dal 2007.
Nell’interpretazione che ne dà Francesco Ferrara le terme sono chiamate Achillianai e non Achellianai, come invece riportato da Holm e dal Kaibel e tratterebbe di un ipotetico incendio che rovinò la struttura, restaurata da Flavio Felice Eumazio. Qui inoltre si farebbe riferimento a Massimo Petronio, preceduto da un non ben identificato Julium filium Augusti.
In una delle interpretazioni, effettuata da Giacomo Manganaro, la lapide la si potrebbe datare al 434 sulla base della successione dei governatori. Sempre secondo il Manganaro in essa si celebrerebbe l’opera di ristrutturazione (forse un ridimensionamento) esplicitamente tendente a economizzare legna da ardere negli ipocausti, conclusa dal neo governatore di Sicilia, Flavio Felice Eumazio, già avviata dal suo predecessore Flavio Liberalio, consularis Siciliae secondo la sua interpretazione, sotto l’imperatore d’Oriente Teodosio II. Tale ricostruzione permetterebbe dunque, sempre secondo l’ipotesi del Manganaro, di dare almeno due nomi ai proconsoli Siciliani della prima metà del V secolo: Eumazio e Liberalio. Inoltre avrebbe riconosciuto il nome di Leone quale architetto artefice del restauro.
Da Wikipedia.

Etnanatura: Le terme Achilliane

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Il teatro romano di Catania

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25-01-2009 04-57-54Il teatro romano di Catania è situato nel centro storico della città etnea, tra piazza S. Francesco, via Vittorio Emanuele, via Timeo e via Teatro greco. Il suo aspetto attuale risale al II secolo ed è stato messo in luce a partire dalla fine del XIX secolo. A est confina con un teatro minore, detto odeon. Di un teatro a Catania si fa riferimento nelle fonti classiche in merito alla consultazione delle poleis siceliote da parte di Alcibiade, che tenne nel 415 a.C. un discorso all’assemblea civica riunita appunto nel teatro. Di questo teatro però non era chiara l’ubicazione e la tradizione tendeva a identificarlo con il teatro di età romana oggi visibile. Tale associazione diede adito a numerose fantasticherie sull’edificio, al punto che è ancora oggi chiamato Tiatru grecu dalla comunità locale, mentre la strada che lo costeggia a nord è chiamata via Teatro Greco. Ciò che ha dunque mosso gli studiosi dell’edificio sin dai primi lavori di sgombero delle strutture antiche è stato anche il quesito se il teatro delle fonti fosse il medesimo che si ammira oggi, ossia se su una preesistente struttura greca possa essere nata la struttura romana. Per un certo periodo venne persino messo in dubbio che potesse esistere davvero un teatro in epoca greca a Catania e che si trattasse di una errata traduzione delle fonti ad aver generato la credenza di detto edificio. Diverse quindi le ipotesi a favore dell’identificazione del teatro romano con quello greco: la posizione alla base di una collina a differenza dell’usanza romana di edificare in pianura o la scena rivolta verso il mare. Sul monumento però le fonti sono piuttosto silenti e ne tacciono le vicissitudini storiche: per capirne quindi la storia si fa ricorso ai ritrovamenti archeologici che gettano un po’ di luce sull’edificio. Le fasi più antiche testimoniano la presenza di un edificio teatrale costruito con grossi blocchi di pietra arenaria con lettere in greco in pianta rettangolare, un tipo di planimetria più diffusamente ellenistica. Tale struttura, già identificata negli anni 1884 e 1919 e attribuita a un teatro greco di V-IV secolo a.C., potrebbe essere propriamente il teatro in cui Alcibiade tenne il discorso ai Katanaioi per convincerli ad allearsi con Atene contro Syracusae. Il teatro di epoca greca venne dunque restaurato nel corso del I secolo, probabilmente a seguito dell’elezione a colonia romana di Catania, avvenuta ad opera di Augusto. A questo periodo appartengono un rifacimento della cortina quadrangolare con la sostituzione dei blocchi in arenaria mancanti con conci lavici squadrati, l’aggiunta della scena e le gradinate più antiche dell’edificio. Nel corso del II secolo, forse a seguito di finanziamenti ottenuti da Adriano, assistiamo a un progressivo processo di monumentalizzazione dell’area che coinvolge anche le vicine strutture termali e numerosi edifici cittadini (tra cui anche l’anfiteatro). A questo periodo risale il plinto conservato nel museo civico al Castello Ursino, in cui è rappresentata una vittoria che incorona un trofeo su un lato e dei barbari resi schiavi a lato; tale plinto potrebbe rappresentare una vittoria sui Germani di Marco Aurelio o di Commodo. Le tracce della monumentalizzazione si notano anche nell’assunzione di una pianta emiciclica dell’edificio, la realizzazione di un proscenio decorato da lussuosi marmi, l’ampliamento della scena e la realizzazione di due massicce torri laterali, atte a ospitare le scale d’accesso ai diversi piani dell’edificio. La struttura si dota in questo periodo di numerosissimi elementi architettonici, tra fregi, statue, bassorilievi e colonne, in passato spesso trafugati o raccolti ed usati come materiale da costruzione per gli edifici della città barocca, come ad esempio per la facciata della Cattedrale di Sant’Agata. Caduto in declino e abbandonato nel corso del VI e del VII secolo come per molti altri edifici monumentali di età classica, venne presto sfruttato per ricavarne modeste abitazioni già dall’Alto Medioevo. L’area dell’orchestra fu interessata da una macelleria bovina, mentre lentamente e inesorabilmente le strutture venivano intaccate e scavate per ricavarne nuovi edifici. Archeggiato di sostegno della settecentesca via Grotte. Nonostante le dure manipolazioni nel corso dei secoli, tra cui l’aggiunta nel XVI secolo di piccole stradelle che tagliavano il monumento da parte a parte, l’emiciclo dell’ultimo ambulacro era perfettamente leggibile dall’esterno e tale veniva riprodotto dai cartografi cinque e secenteschi. Il terremoto del Val di Noto del 1693 rovinò molte abitazioni che erano nate sulla cavea, le cui macerie vennero sfruttate per realizzare le fondamenta di nuove abitazioni. Nel XVIII secolo viene eretta la via Grotte, i cui archeggiati sono ancora visibili a testimonianza della sua esistenza, che tagliava in senso sud-nord l’edificio, mettendo in comunicazione la strada del corso (oggi via Vittorio Emanuele II) con lo spiazzo alle spalle del teatro. La strada, come si nota da alcune fotografie precedenti al suo abbattimento, era in comunicazione con alcune stradelle minori e persino una piazza, ricavate sulla cavea tra il XVIII e il XIX secolo. Sul finire del XIX secolo il proprietario del palazzo che si addossa all’adiacente odeon, il barone Sigona di Villermosa, fece abbattere l’ultimo fornice per ampliare il suo immobile. Questo increscioso avvenimento mobilitò la Soprintendenza alle Antichità per la Sicilia Orientale, all’epoca diretta da Paolo Orsi, che adottò il pugno duro nei confronti di chi abitava sopra i due teatri e avviò una campagna di esproprio e liberazione delle antiche strutture mai del tutto completata. Da un primo sgombero della fine dell’Ottocento che interessò quasi esclusivamente l’odeon, si riprese solo negli anni cinquanta del XX secolo in misura massiccia l’opera di sgombero, interrotta dopo una ventina d’anni. Una campagna di scavo venne condotta nei primissimi anni ottanta che restituì nel 1981 l’ingresso orientale degli attori, costituito da una scaletta e un accesso trabeato, realizzato in grossi blocchi di pietra lavica. Dalla seconda metà degli anni novanta venne riaperto il cantiere di scavo, con un obbiettivo diverso da quello che aveva caratterizzato i lavori fin lì condotti. Il servizio per i Beni Archeologici della Soprintendenza BB. CC. AA. di Catania, sotto la direzione della dottoressa Maria Grazia Branciforti, ha infatti intrapreso una nuova serie di campagne di scavo, demolizione atto allo sgombero, rifunzionalizzazione e restauro di ciò che rimane ancora ingombrato del monumento con la finalità di conservare alcuni edifici rappresentativi del proprio periodo, sorti sul teatro e ritenuti utili testimoni della storia del monumento e della città successivi all’abbandono della funzione teatrale della struttura. Sotto quest’ottica infatti sono nati gli ambienti allestiti per ospitare l’Antiquarium regionale del Teatro Romano, con sede in Casa Pandolfo (del Settecento) e nella Casa Libérti (realizzata nel secolo successivo su una struttura del Cinquecento di cui rimangono due eleganti portali), situata nella zona nord-est della summa cavea. Dagli anni settanta fu utilizzato per spettacoli estivi, ma questo utilizzo fu abbandonato dal 1998, quando gli fu preferito l’anfiteatro del Centro fieristico le Ciminiere. Attualmente è quasi interamente visitabile ad eccezione delle parti ancora in restauro e degli approfondimenti in corso sulle vestigia greche che si stanno esplorando. Il Teatro di epoca romana, ben visibile nel tessuto urbano della città medioevale, venne studiato per primo dal Bolano e dal Fazello, trattato dai vari autori secentisti che si occuparono delle antichità di Catania, così come da Vito Maria Amico. La prima vera indagine archeologica compiuta in un’area adiacente al Teatro venne compiuta nel XVIII secolo dal principe Ignazio Paternò Castello, che in anticipo sui tempi sperimentò nell’area est – forse perché costretto dalla situazione – la trincea di scavo e ad occidente ricolmò lo scavo con il materiale di risulta dello stesso, rendendolo riconoscibile per le future indagini, probabilmente perché – come egli stesso avrà modo di scrivere in proposito – intenzionato a completare le indagini archeologiche qualora ne avesse avuta l’occasione. Lo scavo occidentale mise in luce un lastricato romano che chiudeva nella scala d’accesso orientale dell’edificio, un monumentale arco che venne prontamente rilevato da Sebastiano Ittar, che ne realizzò un rilievo su lamina di rame oggi esposta al Museo civico. Alla fine del XIX secolo Adolf Holm ne visita la struttura e ne ipotizza per primo la capienza di 7000 persone, un dato poi non più verificato, ottenuto da un calcolo relativo alle dimensioni dell’edificio che poté desumere all’epoca, mettendole a confronto con gli edifici teatrali a lui noti. Nello stesso periodo inizia la lunga opera di sbancamento delle abitazioni che alterarono la natura dell’edificio, coronata nel 1884 dal ritrovamento di un muro in pietra arenaria identificato con parte dell’antico teatro greco delle fonti e successivamente nella campagna del 1919-1920 col rinvenimento di blocchi cui era incisa la sigla KAT, interpretata come l’abbreviazione di Katane, antico nome della città. Durante gli anni cinquanta vennero compiuti i più impegnativi lavori di sbancamento sotto la direzione di Guido Libertini che riportarono alla luce gran parte della cavea, partendo dal settore orientale, e restituirono una grande quantità di marmi decorativi, accatastati man mano che si procedeva lungo il corridoio nord. Gli scavi, interrotti durante il ventennio successivo, ebbero seguito a partire dal 1980 nel settore orientale e in diversi punti della cavea, oltre che focalizzati sull’orchestra per liberarla dai detriti e dal materiale di crollo del sisma del 1693. In quest’ultima zona si rinvenne un frammento della testa di Marco Aurelio, completata grazie ad un secondo frammento rinvenuto durante la campagna dei primi anni 2000. In quest’ultima campagna, iniziata nel 1998, si sono liberate ampie porzioni del settore occidentale e nel contempo è stato predisposto un percorso visite, preservando diversi ambienti sorti sull’edificio per ricavarne uffici amministrativi o sale espositive. Gli scavi, condotti dall’allora sopraintendente ai BB.CC.AA. la dottoressa Branciforti, ha anche permesso di conoscere meglio l’edificio nel suo rapporto con la città e con la storia, nel suo evolversi nel tempo e nello spazio, mettendo in luce anche le parti più antiche dell’edificio, quali ad esempio un ambiente chiuso creato con gli stessi blocchi in arenaria siglati kat che hanno permesso di datare meglio le strutture sfruttate dal teatro romano al IV secolo a.C., piuttosto che al V come si credette nel 1919. Inoltre si è potuta ricostruire l’estensione del primo impianto e identificare l’area sacra del tempio cui il teatro era legato. La struttura teatrale visibile appartiene alle grandi costruzioni del genere di epoca antonina, composta da una complessa scena, originariamente decorata da colonne marmoree in seguito resa monumentale con l’aggiunta di nicchie e finti ambienti prospettici che dovevano creare l’illusione di una più vasta profondità, un pulpitum riccamente strutturato e decorato da marmi, l’orchestra dal diametro di circa 22 metri originariamente rivestita in opus sectile con una fantasia di cerchi inscritti in quadrati, danneggiata più volte e restaurata un’ultima volta malamente nel IV secolo, e sovente allagata da una polla di acqua sorgente scambiata in passato con l’amenano, i due parodoi fortemente rovinati dai lavori effettuati per ricavarne ambienti e persino scarichi per le acque nere, una delle carceris resa nel XVIII secolo una palazzina privata, l’ampia cavea dal diametro di 98 metri costituita da ventuno serie di sedili, divisi orizzontalmente da due praecinctiones e verticalmente da nove cunei e otto scalette. Le due precinzioni separano le tre parti della cavea: ima (poggiata direttamente sul declivio del colle Montevergine), media e summa (queste ultime messe in comunicazione dagli ambulacri che si aprono verso l’esterno tramite diversi vomitoria ai vari cunei e tra loro con un fitto sistema di scale). Planimetria del Teatro messo in luce. Sono segnati anche gli edifici ad esso orbitanti e il lastricato che fece da accesso occidentale. Gli ambienti scenici erano riccamente decorati da marmi, tra colonnati, statue e bassorilievi con un repertorio iconografico legato al mondo mitologico quanto alla celebrazione di eventi o personalità pubbliche. Tra le figure a carattere mitologico spicca il gruppo scultoreo della Leda col cigno copia romana di un originale del 360 a.C. di Timotheos, mentre tra gli ornamenti funzionali del teatro una lastra di marmo bianco rappresentante un delfino, ritenuto quale bracciolo per un seggio d’onore o più probabilmente (vista la certa presenza di almeno altri due delfini identici immortalati dalle foto degli anni trenta) divisori per segnalare la zona riservata al pubblico più importante. In marmo bianco erano pure i rivestimenti dei sedili, costruiti in blocchi di arenaria per la ima cavea e in opus coementitium per le altre due cavee, i quali dovevano creare un singolare aspetto cromatico con il nero delle otto scalinate in pietra lavica. Molti elementi decorativi vennero trafugati o adoperati per la realizzazione della cattedrale del 1094, dove ancora si possono notare alcuni capitelli, colonne o elementi decorativi in marmo. Secondo la ricostruzione di Sebastiano Ittar le colonne – numerose – dovettero costituire un loggiato sulla sommità della scalea, analogamente al teatro antico di Taormina, esemplare più grande e reso famoso dai viaggiatori del Grand Tour. All’esterno si aprivano diversi accessi, molti dei quali sono oggi liberi sebbene non praticabili a causa della mancanza delle scale, chiusi da lesene che creavano un notevole gioco di ombre e luci, tendenza chiaroscurale già presente in Sicilia dai tempi del Teatro di Thermae Himerae; quattro grandi avancorpi emergevano dalla facciata curvilinea dell’edificio e vi erano ricavate altrettante nicchie, probabilmente ospitanti statue di divinità. La scena è ancora ingombrata da palazzi del XVIII secolo, tra cui una palazzina a un piano che funge da ingresso e che conserva notevoli resti di epoca medioevale, tra cui una scalinata e una colonna, ricollocata a reggere il soffitto ligneo settecentesco. Questa palazzina è anche sede dell’antiquarium, in cui sono esposti i rilievi architettonici dell’edificio, dal I al XVII secolo, e vi si possono osservare i resti di un abitato del XVI secolo dall’orientamento diverso rispetto al Teatro, segno che il tessuto strutturale del medesimo era ormai illeggibile. Sull’orchestra si possono ancora vedere gli archi della vecchia via Grotte, una interessante struttura che testimonia l’edilizia del XVIII secolo. Sulle carceris e su una piccola parte della cavea sono ancora presenti diverse abitazioni, una di esse è il Palazzo Gravina Cruyllas che confina ad est. La media cavea presenta le maggiori manipolazioni subite nei secoli, con ampie parti di sedili asportate per ricavare dei pavimenti piani. Tra le residenze sorte nella zona della summa cavea di notevole importanza è la Casa del Terremoto, una vera e propria capsula del tempo, che ha preservato integro il corredo abbandonato l’11 gennaio 1693: le macerie che la ostruirono vennero quindi sfruttate per ricavare le fondamenta di una casa settecentesca, resa oggetto di discordia tra il comune che intendeva espropriarla e due anziane signore che vi risiedevano. Altre due case che insistono nella zona orientale sono la Casa dell’Androne e la Casa Libérti, entrambe sfruttate come spazi espositivi o per conferenze. Ai lati due diversi ingressi confinano uno a est con la trincea di scavo effettuato da Ignazio Paternò Castello situata tra le proprietà dei Principi di Valsavoja e i Gravina, l’altro a ovest con l’odeon. A nord-est, all’interno di uno dei locali della Casa dell’Androne si sono rinvenuti i resti di un themenos, il recinto sacro del tempio cui il Teatro era legato. La presenza della stipe votiva della vicina piazza San Francesco d’Assisi ha fatto pensare che possano essere messi in relazione col culto di Persefone o Demetra.. Da Wikipedia.

Pagina Etnanatura: Il teatro romano di Catania

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Terme della Rotonda

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25-01-2009 05-25-49Le Terme della Rotonda sono delle strutture termali di epoca romana, datate al I-II secolo d.C. e site nel centro storico di Catania. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria.
Etimologia. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche.
La struttura termale è stata solo di recente chiarificata, come un grande complesso di edifici quadrangolari connessi tra loro e seguenti uno stesso orientamento. Tra essi emerge una grande sala absidata – forse un frigidarium – orientata in direzione nord-sud databile alla prima fase vitale delle terme, a cui si appoggia sul lato est un grande ambiente ad ipocausto ricco di numerose suspensurae che dovevano reggere un pavimento mosaicato di cui pure si sono rinvenute esigue tracce e identificabile come calidarium. Le dimensioni di quest’ultimo lo riconducono alla monumentalizzazione dell’area. In un secondo momento (intorno al V-VI secolo d.C.) venne ripartito in più ambienti di minori dimensioni, mentre a ovest della grande sala absidata si apre un vasto ambiente pavimentato in grandi lastre marmoree su cui si rinvennero diverse tombe, alcune realizzate distruggendo il pavimento stesso. A sud si aprono diversi altri ambienti appartenenti alla fase di II-III secolo, come due pavimenti ad ipocausto pertinenti a piccoli ambienti circolari, forse un tepidarium. Altri ambienti quadrangolari proseguono a nord, all’interno dell’edificio della chiesa che in parte si appoggia alle strutture romane.
La struttura più appariscente è tuttavia quella dell’ex chiesa di Santa Maria della Rotonda. L’ambiente in pianta quadrata presenta due aperture – una a sud con un portale in calcare del Cinquecento, l’altro a ovest in pietra lavica del Duecento – e due aree presbiterali ad esse corrispondenti: un presbiterio quadrato in forma di triclinium circondato da angusti corridoi che fungono da deambulacro si apre verso nord, mentre a est un piccolo catino absidale di cui rimane una porzione dell’alzato. All’interno del vano quadrato dell’edificio ne è ricavato uno in forma circolare dal diametro di 11 metri e chiuso a cupola, mentre da esso si aprono nei quattro angoli del quadrato altrettanti nicchioni che funsero da cappelle, messe in comunicazione con l’ambiente circolare da arconi in pietra lavica. Sopra la cupola un singolare lucernaio ad archetto faceva forse da piccolo campanile, mentre a decorazione dell’esterno si poteva osservare fino agli anni ’40 una merlatura tutto intorno al suo perimetro. A est della struttura si aprivano alcuni ambienti, un tempo sagrestia della chiesa, danneggiati dal bombardamento e ricostruiti nell’ultima campagna di lavori per ricavarne un piccolo ambiente per l’organizzazione delle visite.
Della decorazione pittorica di quella che fu la chiesa rimangono poche tracce. Le più antiche identificate rappresentano i Santi vescovi Leone e Nicola, a decorazione degli stipiti dell’arco ovest del presbiterio; una Madonna in Trono sulla parete orientale dello stesso ambiente; una Madonna in Trono con Bambino. Tali affreschi si possono identificare quali appartenenti al periodo compreso tra il XII e il XIV secolo. Al XVIII secolo invece risalirebbero gli altri affreschi: nel presbiterio parti di un ciclo rappresentanti l’Annunciazione e la Natività e, sulla volta, l’Assunzione della Vergine al cielo; nei triangoli d’imposta della cupola sono i Santi Pietro, Paolo, Agata, Lucia e gli Evangelisti Luca, Matteo, Marco, Giovanni; sulle pareti che chiudevano le arcate pure vi erano diverse figure prima dei lavori degli anni ’50, tra queste si riconosce Sant’Omobono. Alla base della cupola una lunga iscrizione in latino corre in circolo e recita:
«QUOD INANI DEORUM OMNIUM VENERATIONI SUPERSTITIOSAE CATANENSIUM EREXERAT PIETAS IDEM HOC PROFUGATO EMENTITAE RELIGIONIS ERRORE IPISIS NASCENTIS FIDEI EXORDIIS DIVUS PETRUS APOSTOLORUM PRINCEPS ANO GRATIAE 44 CLAUDII IMPERATORIS II. DEO. OP. MAX. EIUSQUE GENITRICI IN TERRIS ADHUC AGENTI SACRAVIT PANTHEON.» («Ciò che la pietà dei Catanesi aveva eretto all’inutile superstiziosa venerazione di tutti gli dei questo stesso tolto l’errore della falsa religione negli stessi primordi della nascente fede San Pietro Principe degli Apostoli consacrò nell’anno di grazia 44 a Dio Ottimo Massimo e alla sua genitrice ancora vivente nell’anno II di Claudio Imperatore»).
Secondo recenti studi archeologici condotti durante la campagna di scavo del 2004-2008 atta ad un intervento di valorizzazione e pubblica fruizione del complesso archeologico, la struttura risalirebbe nel suo primitivo impianto al I-II secolo d.C., conobbe una fase di monumentalizzazione intorno al III secolo d.C. durante una fase di notevole arricchimento della città di Catania per poi conoscere una fase di abbandono tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo d.C.
L’edificio termale, rimasto inattivo per quasi due secoli e ormai in pesante stato di distruzione e di degrado, divenne sede di una chiesa intorno al IX-X secolo d.C. che sfruttò le pareti ancora integre per gli scopi liturgici. La chiesa ricavata – probabilmente sin dal suo sorgere dedicata al culto della Madonna – venne orientata in senso nord-sud e si utilizzarono i materiali recuperati dalle rovine per la sua costruzione. Qui, addossata alla chiesa e ricavata nelle rovine interrate delle terme, sorse un’ampia area cimiteriale, intensamente utilizzata tra i secoli XII e XIII e attiva ancora fino al XVI secolo. Di questo periodo risale il cambio di orientamento (dal senso nord-sud al senso est-ovest), l’apertura dell’ingresso con portale ad ogiva e la realizzazione di un’abside ad esso contrapposto. La chiesa venne quindi adeguata a cappella funebre per figure alto-borghesi, forse cappella cavalleresca della guardia di Federico II. L’orientamento tornò ad essere nel senso nord-sud nel Cinquecento, con la realizzazione di un nuovo ingresso con portale rinascimentale.
Nei primi studi moderni su Catania e già dal Fazello si ha menzione dell’edificio, ritenuto il più antico tempio di culto a Catania, ritenuto un Pantheon pagano convertito in luogo di culto cristiano e consacrato a Maria nel 44 d.C.. Tale tradizione, seppur errata, mantenne per quasi tre secoli il suo fascino, almeno fino ai primi studi del Biscari il quale identificò per primo l’edificio quale ambiente termale di epoca imperiale romana. La corretta identificazione non fece tuttavia diminuire l’interesse per questo edificio e ancora nel Settecento viene ricordato come l’antico Pantheon catanese, ritenuto precedente persino alla struttura romana.
Il bombardamento del 1943 devastò la vicina chiesa di Santa Maria La Cava risalente al Settecento e rovinò pesantemente la struttura. Tra gli anni quaranta e cinquanta si operò quindi una serie di lavori di consolidamento delle strutture. La direzione dei lavori fu affidata a Guido Libertini il quale tuttavia non risparmiò le strutture ecclesiastiche, né alcuni preziosi affreschi, per mettere in luce le strutture romane. Libertini suggerì la seguente cronologia: un livello ellenistico-romano con resti delle sue costruzioni termali, oggi meglio identificato con le strutture di I secolo; un rimaneggiamento di età imperiale che diede all’ambiente la forma circolare del calidarium, in realtà la struttura circolare risale all’epoca bizantina; un altro rimaneggiamento di età romana più tarda; il pavimento bizantino; alcune trasformazioni di età medievale; la sistemazione più recente che risale al XVII o al XVIII secolo. Nell’opera di sbancamento venne abbattuta anche una monumentale tomba cavalleresca che faceva da altare durante il XIII secolo e, sulla base dei resti superstiti ospitati presso il Castello Ursino, si deve identificare quale sepolcro di un cavaliere membro della guardia personale di Federico II.
Il 23 febbraio 1997 lo studioso Francesco Giordano vi portò in visita una delegazione religiosa composta dall’esarca della Chiesa Cristiana Ortodossa d’Italia il metropolita Ghennadio, l’ex console greco in Catania Mefalopulos e il presidente dell’Associazione Siculo-Romena Lo Meo.
Nell’arco di anni dal 2004 al 2008 l’edificio e l’area ad esso orbitante furono interessati da un nuovo ciclo di scavi atti alla preservazione, allo studio e alla fruizione della struttura. In questa campagna di scavo si rinvenne una gran quantità di tombe, si poterono identificare con certezza nove ambienti termali e ipotizzarne molti altri che si estendono al di sotto delle vicine Via Rotonda e Via La Mecca, venne messa in luce l’abside di età sveva e si misero in luce diversi affreschi precedentemente coperti da un anonimo intonaco monocromo. Lo studio, oltre a rivelare le diverse fasi di vita dell’edificio, ha anche permesso il riconoscimento del ciclo di pitture che decoravano gli interni della chiesa, riconducendo a datazioni più corrette quelle più antiche.
Da Wikipedia.

Sito Etnanatura: Terme della Rotonda

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Grotta di Monte Dolce

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10-02-2013 13-52-37di Enzo Crimi

L’Etna è stato definito un fantastico laboratorio della natura dove si intrecciano storie umane, miti leggende, dove la vita delle sue creature animali e vegetali segue il suo percorso di naturale straordinarietà pari solo a se stessa. Su tutto questo territorio, sino ad oggi sono state …censite almeno 220 grotte di origine vulcanica. Sin dall’alba del mondo sappiamo che le grotte hanno sempre rappresentato dei veri e propri misteri e la storia antica e recente dell’uomo è ricca di fatti inspiegabili e non comuni. Forme di paure ancestrali dell’immaginario collettivo, rappresentate da demoni e spiriti maligni, abitanti delle viscere della terra, si sono intrecciate con le fantasiose storie leggendarie di maghi, divinità, esseri demoniaci, briganti e tesori nascosti (truvature), i quali sono stati i veri soggetti di fantastiche vicende. La grotta di Monte Dolce in territorio di Castiglione di Sicilia, si trovava propriamente ad est del cono vulcanico millenario spento. Il piccolo passaggio di accesso era posto al livello del terreno e scivolava al suo interno, dove attraverso un’intricato sistema di cunicoli, secondo un’antica leggenda, oltrepassando sotterraneamente l’alveo del fiume Alcantara e i monti Peloritani, pare portasse direttamente sotto il mare, sino all’isola di Vulcano che, quindi, doveva considerarsi collegata con l’Etna. Ovviamente chi ha fatto tale insolito percorso non è potuto ritornare indietro per raccontarlo quindi non vi sono testimonianze dirette e pertanto il lettore dovrà accontentarsi di quanto narrato con un pizzico di fantasia dagli antichi scrittori quali il grande Virgilio, il Petrarca, Dante ed ultimo, Antonio Filoteo degli Omodei che attraverso il suo libro ”Aetnae Topographia”, scritto nel 1557, ci mette al corrente della sua escursione all’interno della grotta : “… In essa entrai insieme con altri amici, tutti ugualmente curiosi di conoscere i segreti della natura. Tenendo alla bocca della spelonca ben legata e guardata una fune, che ci trascinammo in lunghezza dietro le nostre spalle, camminammo oltre trecento passi per i luoghi oscuri e gli anfratti scoscesi di quella caverna, portando il lume chiuso dentro le lanterne e maggiori fiaccole accese. Alla fine, vinti dal freddo e dal gelo pungente, sebbene fossimo quasi al solstizio d’estate, ma anche da terribile paura, senza avere trovato il termine della caverna, aggomitolando di nuovo la fune, ripercorremmo il cammino fatto e tornammo alla luce, a rivedere il volto del sole, senza avere portato a termine l’impresa”.

Enzo Crimi

Link etnanatura: Grotta di Monte Dolce

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Grotta di San Nicola

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13-09-2013 15-19-07La grotta di San Nicola, detta anche grotta del santo, si presenta come una delle più complesse grotte etnee. Un insieme di caverne, spesso anguste, che si intersecano e si intrecciano a formare un fascinoso labirinto. L’anfratto è noto per la leggenda legata ad un santo locale, san Nicola Politi, che sembra che vi si sia rifugiato per mantenere la verginità compromessa da una decisione paterna che lo voleva sposo di un’avvenente fanciulla. Nei secoli è stata rifugio per le popolazioni, come testimoniano i resti archeologici rinvenuti. I più antichi ritrovamenti risalgonoalla cultura del Castelluccio.

Pagina etnanatura: Grotta di San Nicola.

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