https://www.etnanatura.it/paginaalltematici.php?codice=9
Oggi vogliamo parlare degli alberi dell’Etna raccontandovi lo loro storia, aneddoti e curiosità.
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Oggi vogliamo parlare degli alberi dell’Etna raccontandovi lo loro storia, aneddoti e curiosità.
Durante il raffreddamento di una colata lavica spessa si formano giunti e fratture. Se la colata tende a raffreddarsi rapidamente intervengono delle forze che tenderanno a farla contrarre in modo significativo. Mentre verticalmente il flusso può abbassarsi dissipando le tensioni, orizzontalmente non riesce a smaltirle e tende a fratturarsi. Le fratture estensive che si sono così formate danno quell’aspetto colonnare, il cui diametro dipende principalmente dalla velocità di raffreddamento (maggiore velocità causa un minor diametro). La forma delle fratture tende ad essere esagonale e potrà dare l’aspetto di un selciato costruito dall’uomo, o di cataste di pali disposti orizzontalmente . (1)
Visualizza Basalti colonnari in una mappa di dimensioni maggiori
Rupe di Aci Castello. La rupe del Castello si innalza verticalmente per circa 20 m. su una piattaforma costiera larga in media una decina di metri. Sul lato occidentale, una colata lavica etnea ha formato una piattaforma a 4 m. sul livello del mare e ha unito la rupe alla costa. La rupe é stata originata da una eruzione submarina causata dall’apertura di una frattura nel fondale del vasto golfo preetneo che occupava gran parte della Sicilia orientale nel Pleistocene, quando il grande vulcano Etna non era ancora sorto. Essa e la piattaforma su cui sorge (Praca) sono formate da pillows sferici o ellissoidali, ricoperti da una crosta vetrosa ialoclastitica di 2-3 etti di diametro; nella parte più alta é presente un enorme megapillow. (2)
Mega pillow Aci Castello. I pillows si formano in seguito all’apertura di una frattura nel fondale marino; l’acqua, scendendo dentro il canale, al brusco contatto con il magma, lo raffredda, creando una crosta vetrosa, nera, che ricorda 1′ ossidiana, ma che, in realtà, ha una composizione chimica del tutto diversa; la spinta del magma che ha una temperatura di circa l100° C, squarcia il tappo solido, ma la presenza dell’acqua ne fa formare un altro. Questi tappi vetrosi frantumati originano una grande quantità di materiale brecciato, che viene spinto in alto dal magma, all’esterno della frattura, depositandosi attorno ad essa: tale materiale, presente sempre attorno ai pillows, é detto ialoclastite. A questo punto, il magma che fuoriesce dalla frattura può attraversare la massa di copertura, formando sferoidi più o meno grandi. Si possono notare negli interstizi tra queste formazioni i resti dell’argilla del fondale marino, che giustifica, senza alcun dubbio la loro origine submarina; la struttura globulare dei pillows è tipica, d’altra parte, delle colate basaltiche, sgorgate e solidificate in fondo al mare. La causa principale del loro singolare modellamento interno, che presenta una struttura radiale specialmente in quelli più grandi, i megapillows, é dovuta, alla contrazione che il magma subisce a causa del rapido raffreddamento. Il rivestimento ialoclastitico esterno e la fessurazione radiale all’interno sono le caratteristiche che differenziano i pillows dalle comuni rocce vulcaniche di origine subaerea che possono avere lo stesso aspetto. (2)
Faraglione di Aci Trezza. Frutto di un’eruzione sottomarina, insieme alla suggestione paesaggistica data dai maestosi basalti colonnari, il piccolo complesso insulare custodisce minerali, quali l’analcime, che per la purezza e trasparenza dei cristalli sono quasi un unicum, assai ricercati da musei e geologi stranieri. (3)
Porto di Aci Trezza. Lungo il molo di Aci Trezza si trovano molte rocce con sottili prismi di contrazione termica; si tratta di affioramenti di dimensioni limitate, che testimoniano un più rapido raffreddamento roccioso (da cui la sottigliezza dei prismi, se confrontati con quelli delle Isole Ciclopi), aspetto che ha suggerito ai geologi un’origine parzialmente diversa, avvenuta si pensa sotto uno strato argilloso di più modesto spessore, oppure negli interstizi più interni delle lave a cuscino, come si può osservare nella Rupe di Acicastello.
Nek di Motta. Milioni di anni fa nel territorio su cui sorge Motta Sant’Anastasia era presente il mare. Quest’ area è stata interessata, in epoche successive, da un lento sollevamento fino ad emergere. Su di essa si erano depositati argille azzurre e conglomerati, che sono dei grossi ciottoli arrotondati di varia origine trasportati dai fiumi in piena. Questo tipo di formazione viene chiamato localmente “terre forti”. Circa 550.000 anni fa nella zona etnea si sono manifestati fenomeni vulcanici. Si è avuta, infatti, una notevole risalita di magma dal mantello verso la superficie. Una di queste intrusioni è riuscita a provocare un’eruzione che ha formato il conetto eruttivo di Motta Sant’Anastasia. L’eruzione, sicuramente di tipo esplosivo, ha formato il cono vulcanico e il magma ha riempito il camino vulcanico e il cratere solidificandosi, senza provocare alcuna colata lavica. Come ha evidenziato il vulcanologo dott.Romolo Romano, vi è un’altra ipotesi che potrebbe spiegare l’origine del vulcano di Motta Sant’ Anastasia. Potrebbe trattarsi, infatti, di un “diatrema”, cioè di un cratere di esplosione, ora smantellato. Una intrusione di magma, che risaliva dal mantello, potrebbe aver incontrato una falda freatica (una massa d’ acqua) dando luogo ad una esplosione “freato-magmatica”. Questa esplosione ha formato il diatrema ed ha lanciato tutto intorno il materiale vulcanico; subito dopo questa cavità è stata riempita dal magma. Col passare del tempo gli agenti atmosferici hanno eroso la parte più esterna del cono, mettendo allo scoperto la roccia che aveva riempito il camino vulcanico, quello che noi indichiamo con il nome di “neck” (“insieme delle lave solidificate all’ interno del condotto di un vulcano”), cioè “collo” e che tutti in paese chiamano “la rocca”. Il neck di Motta Sant’Anastasia è alto circa 65 m ed è formato da basalti colonnali prismatici a sezione esagonale e pentagonale più o meno regolari. Forse è l’unico esempio di “neck” in Italia, e se anche non fosse è sicuramente il più bello. Altri esempi di questo tipo si trovano in Francia (Le Puy en Velais), in Algeria (Tamanrasset – Ahaggar) e negli Stati Uniti (Missouri, Montana, Arizona, Utah, New Messico). (4)
Santa Maria la Scala. A nord dell’abitato, accessibile via mare, si trova la Grotta delle palombe , un complesso di basalti colonnari parzialmente frantumato dalle mareggiate.Nel 1972 così si è inabissato il caratteristico pugno che si ergeva nello specchio di mare chiuso a sud dalla pietra delle sarpe. Secondo la fantasia popolare era il rifugio amoroso del pastore Aci e della ninfa Galatea. (5)
Gole dell’Alcantara. Sono delle gole alte fino a 25 metri e larghe nei punti più stretti 2 metri e nei punti più larghi 4-5 metri; il canyon naturale, a differenza di quanto comunemente si pensa, non è stato scavato nel corso di migliaia di anni dall’acqua. L’ipotesi più accreditata è legata ad eventi sismici che, con un movimenti sussultorio-tettonici fecero letteralmente spaccare in due vecchi laghi basaltici formatisi dalla fuoriuscita di magma dalle fessurazioni, vecchie di 300.000 anni, dei basamenti pre-etnei, consentendo all’acqua del fiume di insinuarsi al suo interno. Questo fenomeno è evidenziato dal fatto che la struttura delle pareti (simile in alcuni punti a “cataste di legna” ed in altri a “colonne d’organo”) è intatta e spigolosa. (6)
Foto di Etnanatura e di Michele Torrisi: clicca qui per vedere le foto dei siti.
Pagine Etnanatura:
(1) Wikipedia. http://it.wikipedia.org/wiki/Basalto#Basalto_colonnare
(2) Comune di Aci Castello. http://www.comune.acicastello.ct.it/la_citt%C3%A0/la_natura/Il_territorio.aspx
(3) http://www.comune.acicastello.ct.it/la_citt%C3%A0/la_natura/I_Faraglioni.aspx
(4) Comune di Motta. A cura degli alunni dell’Istituto Comprensivo “Gabriele D’Annunzio”. http://nuke.comune.mottasantanastasia.ct.it/IlDongione/tabid/113/Default.aspx
(5) Wikipedia. http://it.wikipedia.org/wiki/Santa_Maria_la_Scala
(6) Wikipedia. http://it.wikipedia.org/wiki/Gole_dell’Alcantara
Abbarbicato a metà costa sul monte Sant’Elia a 370 metri s.l.m. seguendo l’orografia del terreno il paese ha caratteristiche prettamente medioevali con un susseguirsi ed incrociarsi di viuzze che si dipanano spesso in sottopassi tipici dell’architettura medievale spagnola ed araba, anche se delle vecchie dimore poco o nulla rimane fagogitate da un’edilizia accattona. Casalvecchio è molto antico: già esisteva in epoca bizantina essendo citato in una scrittura aragonese del 1351 con la sua denominazione greca Palachorion cioè vecchio casale e successivamente con la traduzione latina di Rus Vetus. Nel periodo della dominazione araba della Sicilia prese il nome di Calathabieth. Nel 1862, dopo l’Unità d’Italia, prese il nome definitivo di Casalvecchio Siculo. In epoca saracena godeva di una propria autonomia che perse nel 1139 con la fondazione in epoca normanna di Savoca. Artefice ne fu il re Ruggero II di Sicilia, che facendo costruire un castello in quel luogo, assoggettò tutti i casali circostanti (i Sarracinorum Pagi) e li riunì sotto la nuova denominazione di Baronia di Savoca. Fino al 1492, a Casalvecchio, era presente un’importante e laboriosa comunità ebraica: se le origini della presenza ebraica nel territorio casalvetino non sono ben chiare, esistono tuttavia preziosi documenti, risalenti al 1409 ed al 1470, dai quali si evince che tra Savoca e Casalvecchio dimoravano circa 250/300 ebrei.
Iniziamo la nostra passeggiata per le strette vie del paese dalla zona in alto dove ritroviamo la fontana dell’acqua Ruggia, così chiamata perché la leggenda narra che vi si fermò a bere il conte Ruggero. L’acqua sgorga da due mascheroni scolpiti in pietra locale. Vi sono annessi un caratteristico lavatoio coperto e un antico abbeveratoio per animali.
Scendendo per la via Santissima Annunziata incontriamo l’omonima chiesa dell’Annunziata. Originaria del Cinquecento ma di stile barocco, è ricca di pregiati stucchi seicenteschi. Vi si può ammirare una tela dl secolo XVII ed una scultura lignea della Madonna con angelo annunziante eseguita a Napoli nel 1742 da Francesco Di Nardo scultore napoletano attivo fra il 1710 e il 1758 e autore di alcuni dei primi presepi napoletani.
Via sant’Onofrio taglia in due il paese e presenta la chiesa madre di Sant’Onofrio il cui culto (come si evince dalla lettura di un suo diploma rilasciato nel 1117) risale ai tempi di Ruggero II. La chiesa attuale risale al secolo XVII e fu ubicata trasversalmente rispetto alla precedente. La facciata è in stile barocco in pietra locale; il pavimento originale barocco è formato da marmi di vario colore e provenienza; di notevole pregio è il soffitto in legno a cassettoni. All’interno si conservano tele antiche, in particolare quella di Gaspare Camarda del 1622, e vari altari in marmo del Seicento e del Settecento. Vi si trova una statua lignea del Cinquecento raffigurante Sant’Onofrio a mezzo busto. Una seconda statua di Sant’Onofrio è conservata nel vicino museo parrocchiale: essa è tutta in argento, ad altezza d’uomo. Fu realizzata nel 1745 dall’orafo messinese Giuseppe Aricò a spese e per volere del popolo casalvetino come ringraziamento per essere stato risparmiato dall’epidemia di peste che nel 1743 si era propagata nella provincia messinese provocando circa 40.000 vittime.
Scendiamo per le strette vie per ritrovare il cuore medioevale del paese: piazza Vecchia dove si svolgevano tutte le attività artigiane e commerciali del tempo con la presenza delle varie botteghe di falegnameria, alimentari, osterie, depositi per il baco da seta, ecc. In seguito la piazzetta è stata vandalizzata con la distruzione degli archi (conservati fino agli anni settanta). Attualmente si può ammirare un portale di notevole fattura in pietra arenaria.
Riprendiamo il cammino per ritrovare la chiesa di san Teodoro martire. Stefano Bottari la fa risalire al Cinquecento e vi si conservano tele del pittore ed umanista secentista casalvetino Antonino Cannavò. Molto interessanti i ruderi dall’annesso convento degli Agostiniani Scalzi.
In basso, ai confini del paese, incontriamo la Fontana Vecchia con l’acqua che sgorga dalla bocca di un mascherone scolpito in pietra locale. Il plesso include un abbeveratoio per animali e un lavatoio antico.
Ma dobbiamo uscire dal paese e scendere nel canalone del torrente Agrò per ritrovare un gioiello unico per fascino, bellezza e storia: la chiesa dei santi Pietro e Paolo (vedi), forse una delle più belle chiese della Sicilia orientale. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.
Visualizza Casalvecchio in una mappa di dimensioni maggiori
Info tratte da Wikipedia.
Siti Etnanatura:
La nostra visita di Savoca, antico e affascinante paesino ai confini fra le province di Messina e Catania, comincia da un film che ha fatto la storia della cinematografia “Il padrino” di Francis Ford Coppola considerato dalla rivista Empire il più bello di tutti i tempi. Nella finzione cinematografica Michael Corleone chiede la mano di Apollonia nel bar Vitelli, per poi sposarla nella chiesa di Santa Lucia.
Salendo sulla collina sopra il bar si raggiunge la cripta dei Cappuccini. Realizzata agli inizi del Seicento nei sotterranei della chiesa omonima, racchiude 37 cadaveri mummificati appartenenti a patrizi, avvocati, notai, possidenti, preti, monaci, abati, medici, poeti, magistrati, una nobildonna e tre bambini, tutti appartenenti alla ricca e potente aristocrazia savocese. Sembra che i frati cappuccini abbiano appreso le tecniche di imbalsamazione
in Sud America, le quali, attraverso la Spagna, sarebbero giunte in Sicilia. La mummia più antica risale al 1776, ed appartiene al notar Pietro Salvadore, la più recente è del 1876 ed appartiene a Giuseppe Trischitta. Il procedimento di mummificazione durava sessanta giorni, era detto dell’essiccazione naturale; consisteva, prima nell’immergere per due giorni la salma in una soluzione di sale e aceto, successivamente, dopo aver proceduto allo scolo dei visceri, nel distenderla nella cripta della Chiesa Madre dove, sfruttando il gioco delle correnti d’aria, avveniva la naturale essiccazione del cadavere. Infine, la mummia veniva elegantemente vestita e si procedeva a traslarla solennemente nel sito in questione. Il procedimento di mummificazione veniva effettuato direttamente dai frati Cappuccini ed era abbastanza costoso. La cripta dei Cappuccini di Savoca ha suscitato, nel corso del XX secolo, l’interesse di molti illustri scrittori, come Ercole Patti, Leonardo Sciascia e Mario Praz. I corpi sono rivestiti con elegantissimi abiti d’epoca e danno mostra di sé nelle nicchie e nelle bare in cui sono racchiusi.
Ritornando verso il bar Vitelli e risalendo per la collina opposta a quella dei cappuccini, si ritrova l’antica porta del quartiere San Michele. Si presenta come un arco a sesto acuto in pietra arenaria, risalente al XII secolo. Fino al XIX secolo via San Michele, strada d’accesso alla porta, non era altro che una ripida scalinata scolpita nella roccia viva. Fino al 1918, erano ancora presenti le porte in ferro, che, nel Medioevo, venivano aperte all’alba e chiuse al tramonto. Il manufatto è stato restaurato nel 2009.
Superata la porta si ritrovano i resti dell’antico carcere. L’antico carcere della Terra di Savoca, fino al 1795 era ubicato nel villaggio di Casalvecchio. Quando poi questo paese si emancipò dal dominio savocese, le prigioni vennero spostate nel centro di Savoca, in un’ala dell’antico Palazzo della Curia. Del carcere rimangono miseri avanzi murari e una finestra quadrata, chiusa con una grata in ferro battuto, su cui troneggiava lo stemma dell’Archimandrita, rimosso e custodito al museo locale. È ancora visibile all’interno una cisterna che serviva per l’approvvigionamento idrico di buona parte dell’abitato. Dal 1855, quando Savoca cessò di essere capoluogo del suo circondario, andò in disuso. Crollò parzialmente nel 1908 e non fu più ricostruito.
La chiesa di San Michele, costruita attorno al 1250, per volere degli Archimandriti, era la chiesa del Castello di Pentefur, ampliata nei primi decenni del XV secolo, venne ristrutturata ed affrescata agli inizi Seicento, seguendo lo stile Barocco. Inizialmente l’edificio era di esigue dimensioni e, secondo un antico manoscritto datato 1308, vi celebravano la Divina Liturgia numerosi sacerdoti di rito greco. Verso il 1420 la chiesa venne ampliata e si procedette ad impreziosirla con i due attuali portali in stile gotico-siculo. Durante tutto il Medioevo ed oltre, il non credente che si convertiva al Cristianesimo, secondo una documentata tradizione, doveva salire ginocchioni, in atto di penitenza, i suoi sette gradini, per poi ricevere il sacramento del battesimo.
Sulla cima della collina domina il castello di Pentefur (vedi). È ridotto ormai a pochi ruderi, consistenti in ampi tratti delle mura merlate, nei resti della torre trapezoidale, che fu a due elevazioni su un’area di 350 m², ed in alcune cisterne. Il Castello sorge sull’omonimo colle, edificato in posizione strategico-difensiva, ha la base di forma trapezoidale. Risale, con molta probabilità, all’epoca tardo-romana o bizantina, secondo la tradizione venne edificato dai leggendari e misteriosi Pentefur. Venne riedificato dagli arabi e ampliato dai Normanni che ne fecero la residenza estiva dell’Archimandrita di Messina, signore feudale della Baronia di Savoca. L’Archimandrita messinese trascorreva, assieme alla sua corte, buona parte dell’anno all’interno del Castello Pentefur. Dal 1355 è proclamato Castello Regio ed è al centro di un susseguirsi di turbolenti eventi che si protrarrà per circa trent’anni, viene infatti tolto all’Archimandrita dal Re Federico IV di Sicilia che lo attribuisce a Guglielmo Rosso Conte d’Aidone. È lo stesso re Federico IV, il 30 novembre 1355, ad imporre ai Giurati ed ai Sindaci savocesi ed all’Archimandrita di Savoca Teodoro di giurare fedeltà al nuovo Capitano del Castello. Nel 1356 vi si rifugiò lo Strategoto messinese Arrigo Rosso Conte d’Aidone, fratello di Guglielmo, scampato miracolosamente all’eccidio di Messina. Sempre nel 1356, il re assegnò il castello al nobile messinese Federico di Giordano, fino al 1385, quando è nominato Castellano di Savoca Tommaso Crisafi da Messina. Nel 1386 il Castello ritorna definitivamente in possesso degli Archimandriti con Paolo IV di Notarleone. Tra il 1421 ed il 1450, risulta essere residenza stabile dell’Archimandrita Luca IV de Bufalis, il quale preferisce risiedere stabilmente a Savoca anziché a Messina. Nel 1480, venne restaurato ed ingrandito dall’Archimandrita Leonzio II Crisafi e, nel 1631, venne sontuosamente abbellito a spese dell’Archimandrita Diego de Requiensez.
Dal castello partivano gli ordini e le direttive indirizzate a tutti i fortini e le torri di vedetta disseminate sul litorale e che facevano parte del sistema di avviso delle Torri costiere della Sicilia, costruite su indicazione dell’architetto fiorentino Camillo Camilliani, ove oggi sorgono i comuni di Santa Teresa di Riva, Furci Siculo e Roccalumera. È stato per secoli il centro del potere a Savoca, poi, pian piano perse d’importanza. Alla fine del XVII secolo subì gravi danni a causa del Terremoto del 1693, sicché in prosieguo fu poco frequentato dalla Corte Archimandritale che preferiva risiedere a Messina o a Roma. Dal 1780, circa, venne abbandonato ed andò in rovina per sempre.
Accanto alla chiesa di San Michele, ma questa volta alla base della collina ritroviamo i resti dell’antica Sinagoga medioevale. Il vetusto manufatto è in pessime condizioni di conservazione, invaso da sterpaglie e terriccio alluvionale, all’interno esiste una profonda cisterna. Sono visibili due archi in pietra sul prospetto principale, mentre su quello laterale, si scorge una pregevole finestra in pietra arenaria, ancora in discrete condizioni; caratteristici sono i conci di pietra angolare che collegano detto prospetto con la parete ovest. Non si conosce l’anno di costruzione di questo edificio, si sa solo, grazie ad antichi documenti che lo individuano con assoluta precisione “nel centro e nel migliore luogo” dell’antico abitato, che esisteva già nel 1408. Fruivano di questa sinagoga gli ebrei residenti a Savoca e nei borghi e villaggi vicini. Poiché detto edificio di culto sorgeva in un quartiere abitato da cristiani, perdipiù vicino a chiese ed all’edificio dove si curavano l’amministrazione e la giustizia cittadine, nell’agosto 1470, venne confiscato su ordine del Viceré di Sicilia Lope III Ximénez de Urrea y de Bardaixi. Lo stesso viceré dispose che la sinagoga venisse edificata in altro luogo. La ragione di tale severo provvedimento è da ricercare nel fatto che i giudei savocesi, nell’officiare i loro riti, cantavano inni a voce talmente alta da disturbare le attività dei cristiani che da lì a pochi passi si svolgevano. Di conseguenza, la sinagoga venne rivenduta ad un privato cittadino del luogo, tal Filippo Sturiali, che la trasformò in civile abitazione. Non è dato sapersi ove gli ebrei savocesi stabilirono il loro nuovo luogo di culto. Pochi anni dopo, nel 1492, gli ebrei sono costretti a lasciare la Sicilia. La loro sinagoga divenne una civile abitazione, per secoli; nel XX secolo viene adibita a stalla, poi, dopo il crollo del tetto, è diventata un rudere a cielo aperto lasciato in uno stato di incuria. Il vetusto manufatto è stato, nel corso degli anni, oggetto di studi da parte di numerosi esperti; nel 1997, si accertò l’orientamento dell’edificio in direzione est-ovest (cioè verso Gerusalemme) e la presenza di una grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana che serviva per le abluzioni rituali. Nel 2014, tra le rovine della sinagoga, è stata scoperta una lapide con sopra scolpita la stella di David. Risulta interessante ricordare che a Savoca esisteva anche un cimitero ebraico, sito in località Moselle, nei pressi della frazione di Rina.
Risalendo ritroviamo la chiesa di San Nicolò (già nominata a proposito del film il Padrino). Edificata nel XIII secolo, fino a tutto il XVII secolo era riccamente adornata con affreschi in stile bizantino. L’edificio odierno presenta un’architettura settecentesca frutto di un rimaneggiamento successivo. Conserva una statua lignea di Santa Lucia eseguita dallo scultore Reginaldo D’Agostino.
L’ultima (ma non per importanza e bellezza) chiesa che visitiamo è la chiesa Maria Assunta. E’ la Chiesa Matrice di Savoca ed è un monumento nazionale italiano dal 1910. Edificata nel 1130, presenta una facciata a doppio spiovente con un portale centrale, di impostazione rinascimentale, spinto verso l’alto da paraste laterali che guidano lo sguardo verso il rosone in pietra lavica a cinque bracci. Nella cripta della chiesa nei secoli passati si procedeva alla mummificazione delle salme dei notabili del paese. Fu sede periferica dell’archimandrita di Messina di cui all’interno si conserva la cattedra lignea.
Accanto alla matrice ritroviamo un’antica costruzione tardo medievale realizzata verso la fine del Quattrocento con una bella finestra bifora che viene citata in molti antichi testi per il suo “stile greco”. L’edificio venne restaurato verso la fine del Seicento. Ha uno stile gotico-spagnolo, tipico della Sicilia del tardo Quattrocento; il successivo restauro del XVII secolo ha dato, altresì, al manufatto un ulteriore sapore ispanico-fiammingo. Il portale d’ingresso è ornato con gigli borbonici settecenteschi. Appartenne nei secoli scorsi alle facoltose famiglie locali dei Fleres e dei Trischitta. Tra il 1909 ed il 1927, ospitò gli uffici municipali del comune di Savoca. Negli ultimi cento anni è appartenuto alle famiglie Rizzo e Altadonna. Il pregevole monumento venne propagandato nel 1928 dal Touring Club Italiano. L’edificio è sottoposto al vincolo di tutela architettonica, si presenta in buono stato di conservazione ed appartiene alla famiglia Cantatore.
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Info tratte da Wikipedia.
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Per Catania si aggira un fantasma che conserva i ricordi del tempo. Molti anni fa non era tale anzi condivideva la vita, gli amori e la storia dei catanesi: le passeggiate di Stesicoro, i bagni termali dei romani lascivi, la storia-fiaba di Gammazita al tempo dei vespri, le opulenze dei re normanni e la vita dei comuni cittadini. Poi un’immane catastrofe lo costrinse a nascondersi nelle viscere della terra e ad emergere solo in pochi tratti sconosciuti ai più. Il nostro fantasma si chiama Amenano.
Per gli antichi greci l’Amenano era un dio rappresentato nelle monete con il corpo di un toro e la faccia umana. Sicuramente la presenza di un fiume dovette essere un motivo dirimente per la localizzazione dell’antica città di Kατάvηquando i coloni calcidesi la fondarono, sotto la guida di Tucle, nel 729 a.C. Il nome del fiume probabilmente è dovuto ad una intermittenza del flusso delle acque (ameneinos) come ci ricorda lo studioso Carlo Gemmellaro a cui molto dobbiamo nella stesura di queste note (“Per le accresciute acque dell’Amenano” relazione Carlo Gemmellaro all’Accademia Gioenia di Scienze nel 1833 – vedi). Citato da Strabone nel suo libro quinto del Rerun Geographcarum (“Quod Amenano evenire fluvio » perhibent Catanam perfluenti, qui per aliquot …”), viene nominato anche da Ovidio (“nec non Sicanias volvens Amenanus harenas nunc fluit, interdum”) nel libro XV delle Metamorfosi. Nel medioevo il fiume venne chiamato Iudicello perché attraversava il quartiere ebraico della Giudecca. Ma nel 1669 una terribile eruzione dell’Etna, considerata la più devastante eruzione storica del vulcano, arrivò fino a Catania coprendo il lago di Nicito dal quale si dipartivano ben 36 canali che alimentavano i rami dell’Amenano dentro la città di Catania. Da allora il fiume diventa un fantasma nascosto fra le viscere della città.
Cerchiamo ora di ricostruirne il percorso sotterraneo del fiume. La fonte prima del nostro lavoro è senz’altro il Gemmellaro, ma alle note dello studioso abbiamo voluto affiancare alcune considerazioni che ci sembrano logiche (quale la presenza di edifici termali) e i ricordi di qualche amico prezioso (primo fra tutti Concetto Mazzaglia).
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Partendo dal colle Majorana nella zona detta, forse non a caso, Acquicella, il fiume dovrebbe discendere lungo l’attuale viale Mario Rapisardi fino a piazza Santa Maria di Gesù dove anticamente si allargava a formare il lago Nicito. Da qui dovrebbe diramarsi in due tronconi prevalenti.
Il primo ramo del fiume arriva al giardino Bellini lungo viale Regina Margherita, passa sotto la moderna fontana di largo Paisiello (alimentata proprio dalle acque del fiume), scorre sotto il palazzo ex Cassa di Risparmio edificato dopo avere demolito la scuola Turrisi Colonna pericolante perché costruita sul fiume, quindi si
dirige sotto il pozzo Villallegra e il Monastero di S. Giuliano in via Crociferi, scende per piazza Duomo dove è visibile in quanto allaga le terme Achilliane (vedi) e finisce nel mare.
Il secondo ramo, partendo sempre da piazza Santa Maria del Gesù, scorre sotto via Lago Nicito e poi per via Pebliscito, via Botte dell’Acqua e piazza Itria dove si trovano i resti delle terme romane dell’Itria,
arriva a Piazza Dante dove sono visibili i ruderi di un antico Balneum (si tratta di terme private di epoca romana). Da qui dovrebbe verificarsi un’ulteriore diramazione.
Un ramo del fiume scende per via Quartarone e poi per via Orfanelli, attraversa via Garibaldi e via Vittorio Emanule per arrivare in via San Calogero dove si trova il pozzo di Gammazita (vedi),
quindi probabilmente arriva alle terme dell’Indirizzo (vedi).
Nei pressi delle terme è possibile scendere nella grotta Amenano (vedi) dove ancora oggi si vedono scorrere le acque, da lì al mare il tratto è molto breve. Questo ramo attraversa quello che era il quartiere ebraico di Catania e che dette al fiume il nome Iudicello. Nelle ricostruzione di questo tratto, per lo meno nella parte iniziale, ci siamo voluti attenere alle indicazioni di Gemmellaro.
Resterebbe però stranamente escluso il Balneum di Casa Sapuppo (vedi) in piazza Sant’Antonio che comunque a qualche fonte doveva pur attingere per alimentare le terme.
Ma da piazza Dante si diparte un terzo affluente che probabilmente scende per via della Rotonda con le antiche e affascinanti terme della Rotonda (vedi).
e poi attraversa l’Odeon e il Teatro Romano (vedi) dove riemerge allagando la cavea.
Quindi scorre sotto piazza Santa Maria del Gesù, arriva a piazza Duomo dove riemerge nella fontana dell’Amenano e nell’antico lavatoio.
Ancora un breve tratto sotterraneo per tornare alla luce nella villa Pacini e finire la corsa nel porto di Catania.
Per finire devo ringraziare Salvo Nicotra e Concetto Mazzaglia, due amici di Etnanatura che hanno contribuito con foto e notizie.
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La cuba è una cappella paleocristiana o bizantina presente in Sicilia, dove le cube vennero erette da monaci basiliani a partire dal VII secolo. La Sicilia, pur se fedele a Roma, è stata storicamente un crocevia fra la chiesa d’oriente e quella d’occidente e soprattutto dopo la caduta dell’impero romano e le successive invasioni barbariche quando divenne territorio dell’Impero bizantino. La bizantinizzazione dell’isola proseguì con l’afflusso dal Nordafrica e dal medio oriente di profughi ortodossi scacciati dagli arabi. Nel 732 l’isola passò al patriarcato di Costantinopoli sino alla successiva occupazione musulmana della Sicilia. Diversi cenobi vennero fondati da monaci basiliani, generalmente ortodossi. Con gli arabi generalmente tolleranti furono anche i cenobi basiliani a mantenere viva la religione cristiana (specie nell’oriente dell’isola). La conquista normanna e la successiva riconversione al cristianesimo dell’isola fu inoltre agevolata dal profondo radicamento delle comunità monastiche di rito greco. La parola “cuba” ha una origine controversa ed è stata oggetto di studio. Secondo alcuni il termine deriva dal latino cupa (botte) e cupula (botticella) o dall’arabo kubba (fossa, deposito) o qubba (cupola), per altri direttamente dalla forma cubica dell’edificio. In siciliano si citano spesso le chiesette di campagna come cubole.
L’architettura ecclesiastica bizantina a differenza di quella romana, dove l’altare viene posto in fondo la navata principale a simboleggiare il passaggio tra la vita materiale terrena e la vita eterna, era rigidamente geometrica e basata su forme essenzialmente cubiche. Così le cube si presentavano a croce greca con pianta quadrata, cupola, ambiente centrale e solitamente tre absidi (a cellae trichorae o chiesa a trifoglio). L’abside posteriore aveva una apertura (spesso una bifora) sempre rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione, durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell’edificio attraverso l’apertura desse inizio alla Pasqua. Le altre due absidi contenevano ciascuna una piccola cappella. La struttura presentava tutti gli angoli superiori smussati, così si riusciva a far apparire come un unico corpo la semisferica cupola con il geometrico cubo costituito dall’edificio.
La cuba di Santa Domenica (vedi) è una cappella bizantina di Castiglione di Sicilia, forse eretta fra il VII secolo ed il IX secolo.
Chiamata anche « ‘a cubula» dai locali, la cuba di Santa Domenica è forse la più importante cuba bizantina presente in Sicilia, monumento nazionale dal 31 agosto del 1909 grazie allo studio del rudere effettuato da Sebastiano Agati.
L’edificio ha le caratteristiche tipiche della cuba, ovvero è rigidamente geometrico e basato su forme essenzialmente cubiche pur se allungato. Così Santa Domenica si presenta a croce latina con pianta quadrata, cupola e tre absidi. L’abside posteriore ha una bifora rivolta verso oriente affinché, secondo tradizione, durante la veglia pasquale la luce della luna piena entrando nell’edificio attraverso l’apertura desse inizio alla Pasqua. Le altre due absidi contenevano ciascuna una piccola cappella. La cuba, costruita con pietra, blocchi lavici, malta e materiali in cotto internamente era ricca di affreschi di fattura bizantina, oggi perduti. La facciata è a due ordini. Nel primo vi è l’ingresso principale che è caratterizzato da un arco ed è di maggiori dimensioni rispetto agli altri due presenti ai lati. Nel secondo ordine della facciata si trovano due finestre ed una trifora di dimensioni considerevoli. Secondo alcuni accertamenti recenti[2] la facciata sarebbe stata preceduta da un portico o nartece per penitenti e catecumeni, mentre il tetto e la pavimentazione sarebbero stati in cotto. Le finestre hanno una particolare forma a «testa di chiodo». Nell’interno a tre navate, divise da una serie di pilastri quadrangolari, la cupola centrale è arricchita da volte a crociera e da minime tracce degli intonaci originali. Dopo anni di degrado la chiesa è stata oggetto di restauro negli ultimi anni. Dopo i restauri sono stati rinvenuti due scheletri di probabile datazione bizantina che farebbe supporre la presenza di un attiguo cimitero basiliano.
Un antico rudere di epoca bizantina, la cuba di Santo Stefano (vedi), si trova in contrada San Michele a Dagala del Re, frazione di Santa Venerina, alle spalle della chiesa di Bongiardo. Una strada interpoderale porta fino ad un querceto che nasconde l’antico rudere. E’ comunque difficilmente raggiungibile data la mancanza di qualsiasi segnaletica e soprattutto perché si trova in una proprietà privata.
Coperto di edera e di altra vegetazione spontanea, il rudere conserva una buona parte della sua struttura muraria.
La sua scoperta, nei tempi moderni, appartiene a Stefano Bottari, che pubblicava un testo con la descrizione del rudere nella Rivista di Archeologia Cristiana nel 1944-45. Qualche anno dopo Biagio Pace, nella sua monumentale opera “Arte e civiltà della Sicilia antica” fa riferimento alla scoperta di Bottari.
Nel 1959 viene riscoperta dall’allora sovrintendente ai monumenti per la Sicilia Orientale, l’architetto Pietro Lojacono. Mezz’anno dopo pubblicava nella rivista “Tecnica e Ricostruzione” un resoconto di “come avvenne la scoperta della cella trichora” e dei “lavori per mettere in luce il monumento”. Agli occhi di Lojacono il rudere si presentava come “un deposito di pietrame gettatovi dai contadini per la bonifica dei terreni circostanti”. Procedette ai lavori di sterro e di consolidamento delle murature pericolanti. Fece le misurazioni precise ed emesse delle ipotesi sui aspetti costruttivi, nonché sul suo aspetto originale.
In seguito nacque un interesse per il rudere ed il suo recupero. Un progetto per il recupero è stato elaborato dall’architetto Brocato. Al comune di Santa Venerina ci sono intenzioni di acquistare il terreno e realizzare il progetto di recupero, destinando l’area circostante a un museo di mineralogia.
Nonostante tanti anni dalla presa di coscienza del valore del rudere, esso si trova ancora in stato di abbandono. Non è possibile scattare una foto del rudere intero per illustrare la sua monumentalità e l’armonia delle parti, così come lo si può osservare sul posto; esso è immerso nella vegetazione. Però alcuni particolari danno un’idea chiara dello stato del monumento.
L’ingresso, lascia vedere di quanto sia interrato l’edificio. I muri delle absidi danno un’idea dell’ampiezza del naos. Nel nartece possiamo individuare la volta a botte che copriva i braci laterali. Nonostante il rovinoso stato, la finestra dell’abside est ci suggerisce che la sua forma era una bifora o forse una trifora.
Un albero nel nartece, un pezzo di muro in una cornice troppo romantica – sono le espressioni dello stato in cui si trova il monumento.
Comunque per avere un’immagine concludente è opportuno procedere alla presentazione della pianta che è stato possibile rilevare in quanto i muri perimetrali a varie altezze sono tutti presenti.
L’edificio e composto da due parti: una parte trilobata ed uno spazio rettangolare di dimensioni impressionanti. La parte trilobata costituisce la cella trichora.
Una trichora ben conservata è la cuba di Malvagna nella vale dell’Alcantara. Si notano bene le abside e la cupola.
La chiesa di Dagala si distingue dalle altre trichore per le sue armoniose proporzioni, con ampie absidi laterali, leggermente più piccole dell’abside centrale. Del tutto particolare è e il nartece molto ampio, diviso in tre parti marcati da volte a botte. Nell’estremità sinistra del nartece c’è una cisterna con parete doppio, è una modifica ulteriore che portò alla chiusura di uno degli ingressi del prospetto. Il lato opposto poteva essere chiuso per necessità funzionali. Durante i lavori di rimozione delle macerie e del pietrame, effettuate da Lojacono, non fu trovato alcun pavimento primitivo, invece fu trovato nella zona centrale del nartece un pozzetto formato da pietre laviche che doveva servire da fonte battesimale.
La muratura è fatta con la pietra lavica e calce con l’integrazione di conci di cotto. E’ un tipo di muratura caratteristico per le costruzioni della valle d’Alcantara coeve. Nei muri del nartece erano inserite piccole anforette in posizione verticale e orizontale (con la bocca verso l’esterno). Non è del tutto chiaro la loro funzione. Comunque, la presenza del cotto nella muratura contribuisce a mantenere asciutto le pareti affrescate.
La copertura della chiesa comprendeva la cupola sopra il naos e tre volte a botte per il nartece, che segnavano la divisione di questo spazio in tre elementi. Le due volte laterali sono indicate dalla conclusione dei muri in altezza in forma di arco ed una piccola parte della volta rimasta. La volta a botte centrale è più una conclusione logica che un indizio esatto degli elementi strutturali rimasti.
L’architetto Lojacono nel studiare il rudere ricostruì l’aspetto originale con due sezioni: una longitudinale che mostra la disposizione degli spazi lungo l’asse della chiesa e altra del nartece che illustra l’articolazione di questo elemento particolare per la chiesa di Dagala.
L’aspetto esteriore visto da nord-est da un punto più alto dà un’idea dell’insieme.
Non c’è dubbio sull’epoca alla quale ascrivere l’edificio. Si tratta del periodo prearabo, tra la seconda metà del VII secolo e inizio del IX, più probabile verso la fine dell’intervallo indicato. Quanto riguarda il nartece, sono state avanzate ipotesi che sia una aggiunta posteriore del periodo normanno. E possibile, ma poteva benissimo essere contemporaneo con la parte centrale della chiesa, in quanto un nartece, pronao, è un accessorio utile e indispensabile delle chiese bizantine. Le dimensioni sproporzionate del nartece sembrano rispondere a una propensione per sottolineare l’importanza, ma osserviamo che rispondeva a concrete esigenze pratiche. Si nota chiaramente che il nartece e un corpo giustapposto alle pareti delle abside; delle fessure chiare si vedono sulla linea di giunzione tra il nartece e le abside. Il tipo di muratura, pietra lavica di dimensioni diversi legati con la calce e l’aggiunta di cocci di cotto, è la stessa. Il nartece, probabilmente costituisce una aggiunta nei tempi coevi alla costruzione della trichora stessa.
Il monastero era con certezza uno basiliano alla data della sua fondazione, dato il periodo di costruzione e la sua forma architettonica. Sembra che era attivo nell’inizio del XII secolo, un secolo di grande fiorire del monachesimo basiliano. Possibilmente venne affrescato come successe a Nunziatella, ma dei colori si è persa qualsiasi traccia per causa della caduta del intonaco. Il rapido declino dei monasteri basiliani dalla fine del XII secolo, favorì il passaggio della chiesa al monastero benedettino che venne ricordato nella “Cronaca” di Nicolò Speciale nell’occasione dell’eruzione dell’Etna del 1284, quando,molto probabile fu abbandonato, forse per sempre.
Nello stato attuale non si può parlare di qualsiasi fruizione, dato lo stato di abbandono e di trovarsi in proprietà privata. In attesa della realizzazione dei progetti interessanti per il recupero che per il loro costo possono ancora ritardare per un po’, una contenuta azione di pulizia e di assicurazione dell’agibilità potrebbe ridare vita al rudere. Operazioni per niente facili quelle di pulizia, si tratta di alberi cresciuti dentro la chiesa, di tanta vegetazione che con le loro radici distruggeranno la solidità dei muri di basalto e calce, le stesse radici che in certe parti tengono ancora insieme le pietre. Un’operazione decisiva di liberazione dei muri di vegetazione con la necessaria consolidazione si impone. Il concetto ottocentesco del rudere coperto da vegetazione, condiviso anche da Lojacono più di quarant’anni fa che cercò di rispettare “finchè è stato possibile, la veste di edera, che conferisce al rudere un aspetto pittoresco e romantico” non aiuterebbe molto alla fruizione del rudere come insieme di indizi della sua forma originaria. Un azione congiunta di tutti i fattori che condividono l’importanza del rudere e la necessità di trasmetterlo ai posteri, potrebbe essere utile nel trovare forze e mezzi per il recupero.
Il Santuario mariano di Vena (vedi) custodisce una immagine antica della Vergine col Bambino. Una tavola spessa di cm. 3, di dimensioni cm. 170 x 67. Si ritiene che sia una icona bizantina del VI secolo. E’ un’immagine della Vergine di tipo Odigitria. Il disegno e la trattazione del colore rende difficilmente ogni raffronto con altri dipinti antichi conosciuti dell’area bizantina. E’ un dipinto molto venerato a Vena, in Provincia di Catania, e nei dintorni. Con questo dipinto, storia, legenda e tradizione si mescolano nel sentire della gente del paese e si trasforma in atto di fede, di verità santa, ed acquista valore simbolico che irradia un fascino sui paesi lontani e vicini. Tre sono i pilastri della storia di Vena: un monastero fondato da Gregorio Magno, un’icona che il pontefice donò al monastero ed un poeta che dedicò parole d’amore al santo dipinto.
Nella ricca corrispondenza di Gregorio Magno molte lettere riguardano la Sicilia, dove lui fondo sei monasteri, probabilmente nel 575. Tra i riferimenti ai monasteri siciliani c’è uno dedicato al monastero Sant’Andrea sopra Mascali.
La legenda narra che i frati diretti da Mascali verso le terre indicati da Gregorio, i possedimenti di Silvia, la madre di Gregorio, portavano con loro l’icona della Vergine. Per volere del cielo i frati vengono fermati dal peso della tavola. Trovano una fonte d’acqua e riconoscono in essa un segno dall’alto, fondano il monastero. Era l’anno 597. Molto tempo dopo la legenda verrà sancita con una lapide recante un’iscrizione latina : “Qui l’immagine della Vergine si ferma, dà l’acqua, vuole un tempio. San Gregorio dona gli edifici (chiesa e monastero) e Silvia il bosco”.
Teofane Cerameo, scrittore e predicatore, formatosi nel monastero Sant’Andrea fondato da Gregorio Magno “sopra Mascali”, torna in seguito ed in una omelia chiama l’immagine della Vergine che lui conosceva dai tempi di studio “non manufatta”. Questa è un’altra conferma della presenza dell’icona nel monastero. E vero che la figura di Teofane Cerameo suscita molte controversie. E’ possibile che sia esistito più di uno con questo nome dato che i testi del Cerameo fanno riferimenti riscontrabili nell’età normanna, o che al corpo dei testi del celebre scrittore del IX secolo, che interessa la nostra storia, siano aggiunti altri testi in epoche posteriori dagli anonimi, contribuendo così al mistero del personaggio in questione. Per la nostra storia importa la menzione dell’esistenza del dipinto della Vergine nel monastero Sant’Andrea nell’età prearaba.
Il monastero sorgeva vicino all’attuale Santuario, i suoi resti erano visibili all’inizio del ‘900. Non ci sono informazioni del monastero dopo il Cerameo. A quel tempo il monastero era basiliano, lo si deduce dalle omelie dello stesso scrittore. E’ possibile che il monastero è stato abbandonato dopo l’epoca normanna con il declino dei monasteri basiliani oppure in seguito alle minacce dell’Etna. Verso il 1500 e già Abbazia di Santa Maria della Vena. Quale sia stato il destino del dipinto in tanti secoli di buio della memoria non si sa. Don Paolo Cannavò, nel suo ampio volume dedicato al Santuario, trova una analogia, ricordando la legenda della Madonna di Guadalupe, un’icona donata da Gregorio Magno a S. Leonardo, vescovo di Seviglia, e nascosta all’incalzare del pericolo arabo, viene miracolosamente conservata e riscoperta circa seicento anni dopo.
Non ha molta importanza se il dipinto è proprio quello donato da Gregorio Magno e cantato da Teofane Cerameo o è un dipinto del XIII secolo, opera di un pittore locale, dato il modo di modellare la materia pittorica. Questo dipinto si identifica con la fede popolare in una tale misura da acquistare potere di sottrarsi alla qualsiasi indagine scientifica, come un oggetto sacro e santo che non accetta altro che la venerazione. Questo è il vero significato del dipinto.
Il Santuario di Vena, più che un monumento storico, è una testimonianza di fede in un passato lontano simboleggiato da un oggetto di culto, collegato alla sua provenienza bizantina come al modo di venerare le immagini, caratteristico all’Oriente cristiano.
La Chiesa S. Maria Annunziata (vedi) si trova non lontano dalla matrice S. Maria dell’Itria in via Etnea a Nunziata, frazione di Mascali(CT). Chiamata anche “Nunziatella”, la chiesa ha acquisito una certa notorietà grazie agli affreschi bizantini rinvenuti nell’abside.
La chiesa ha la forma basilicale con l’abside orientata all’Ovest. Prospetto principale: un portone d’ingresso ed una finestra sovrastante; in alto il campanile a vela con due volute raccordanti. Prospetto laterale Sud si affaccia sulla strada, ha in alto tre finestre, sull’estrema sinistra una finestra più bassa, un’apertura d’ingresso laterale e tracce di un’altra apertura più bassa a tutto sesto. Ad Ovest la navata si conclude con un’abside.
L’attuale forma basilicale risale al periodo normanno. A questo indica lo studio comparato degli affreschi del sito con dipinti coevi.
La chiesa apparteneva forse ad un monastero basiliano che riuscì a coagulare un piccolo centro abitato dandoli il suo nome.
L’esecuzione degli affreschi è ascrivibile alla seconda metà del XII secolo e sono un esempio di pura pittura bizantina; affinità tecniche con gli affreschi eseguiti nell’Impero bizantino verso la metà di quel secolo.
Poche sono le informazioni sulla storia della Nunziatella nei secoli successivi. Sappiamo che divenne un priorato forse già nel seicento e che la comunità sorta attorno la chiesa era cresciuta fino a uguagliare Mascali da dove provenivano gli abitanti di Nunziata. Nel XX secolo appariva come una modesta chiesa ottocentesca, il suo passato bizantino era rimasto nascosto sotto l’intonaco.
Fu il Professore Enzo Maganuco, docente di Storia dell’Arte dell’Ateneo di Messina, che scoprì nel 1939 l’esistenza di affreschi bizantini sotto l’intonaco bianco delle pareti. Pur avendo visto solo un piccolo frammento dell’antico dipinto, fecce delle osservazioni giuste sull’epoca, sull’esecuzione e soprattutto sul valore artistico dei dipinti nascosti.
Lavori di restauro sono stati intrapresi dalla Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali di Catania negli anni 1985 – 1990. La rimozione dell’intonaco ha permesso vedere la struttura muraria antica. La muratura presenta due tecniche: la parte inferiore – grossi conci di pietra squadrati ed intercalati da filari regolari di elementi di cotto (tipo di muratura caratteristico per le chiese greche e ortodosse), la parte superiore è composta da pietre piccole con maggiore quantità di malta ( si tratta di un innalzamento ulteriore). In seguito agli scavi interni è rinvenuto un impianto quadrato con l’abside più stretta rispetto all’attuale. Ciò suggerisce che la chiesa attuale è stata costruita sul posto di un’altra più antica.
Di rilevanza maggiore è la scoperta di frammenti di affresco nella conca dell’abside e sulla parete sud. Questi affreschi sono di grande valore artistico e storico. La conca dell’abside necessita di ulteriori interventi di restauro ed è possibile far rinvenire altri particolari ancora nascosti sotto l’intonaco. Ma già la parte visibile è sufficiente per fornire un idea precisa sul valore artistico e storico, nonché sul programma iconografico.
Nel 1939 il professore Enzo Maganuco, docente di Storia dell’Arte dell’Ateneo di Messina, in seguito ad un sopralluogo nelle chiese superstite dopo la colata lavica del 1928 scopri nella chiesa della Nunziatella un “piccolo affresco che trovasi all’inizio del lato destro della calotta absidale”. Il Professore pensò che si trattava di un ciclo di immagini “della vita di Cristo di cui questo frammento sarebbe un passo iniziale, cioè Cristo tra i dottori”.
In seguito ai lavori di restauro sono stati portati alla luci vari frammenti di affresco nella conca dell’abside. I frammenti del dipinto rinvenuti forniscono informazioni certi sulla composizione e sul valore artistico, e storico, nonché sul significato religioso del dipinto.
Due frammenti di affresco si trovano ai lati sotto la conca dell’abside. Sembra che la conca forma un registro distinto nella decorazione dell’abside. I due frammenti nella parte inferiore sembrano far parte di due composizioni distinte che insieme ad altre decoravano la parete dell’abside. E’ possibile che si tratti di immagini a carattere narrativo con significato teologico. Si tratta della testa nimbata di un santo al margine sinistro dell’abside e sul lato opposto la Madre di Dio col Bambino. Maganuco non ha visto il volto della Vergine e per questo pensò al tema Cristo tra i dottori; a questo lo spinse il volto del Cristo giovinetto. Nell’arte bizantina il Bambino è rappresentato nella sua natura divina e ci appare come Signore benedicente e portatore della Legge, di conseguenza il viso non è di un bambino, ma un volto maturo, pieno di saggezza divina.
La posizione di questo particolare sulla parete dell’abside fa supporre che faceva parte di una composizione nella quale occupava la parte destra in alto. Poteva rappresentare l’Adorazione dei Magi – l’immagine che ha come significato teologico l’incarnazione del Verbo– un tema ricorrente per la zona del presbiterio. Quanto riguarda la testa nimbata nella parte sinistra dell’abside è difficile risalire al significato della composizione della quale faceva parte.
Nella conca dell’abside osserviamo il Cristo Pantocratore con il nimbo crocifero, benedice con la mano destra e regge con la sinistra il libro. In basso alla sinistra di Cristo un busto con la testa nimbata di un angelo ben visibile; in alto alla destra di Cristo un angelo alato e con le mani coperte in segno di riverenza di fronte al Cristo.
I frammenti di affresco rinvenuti per prima cosa indicano che si tratta di pittura bizantina nella sua forma pura greca dell’epoca comnena, XII secolo. Con questi affreschi ci troviamo di fronte alla vera arte bizantina del suo periodo classico.
Nelle chiese bizantine l’immagine del Pantocratore occupa di solito la cupola, il posto più alto nella chiesa bizantina. In Italia nelle chiese di tipo basilicale, in mancanza della cupola il suo posto è nell’abside: busto nella cattedrale di Cefalù (mosaico costantinopolitano), in trono nell’abside a Sant’Angelo in Formis e qui a Nunziatella.
Il volto di Cristo di Nunziatella lo troviamo più vicino a quello della chiesa San Pantelimone di Nérézi (Macedonia) costruita nel 1164. La caratteristica principale di quel periodo sta in una stilizzazione avanzata delle pieghe dei vestimenti, un linearismo armonioso che tende ad appiattire i volumi (esempio). Nello stesso tempo, i dipinti conservano i tratti delicati dei volti greci con una certa libertà di movimento e concentrazione psicologica. Sul piano dello stile del trattamento delle forme, le proporzioni, l’armonia delle linee e dei dettagli, i dipinti della Nunziatella appartengono all’arte greca del XII secolo
E’ possibile una ricostruzione della composizione della conca dell’abside. Sono visibili il Cristo Pantocratore, i cuscini del trono sul quale siede, i piedi che poggiano sull’ovale che racchiude l’intera figura, un Angelo alato che sorregge con un ala l’ovale in alto a sinistra, mentre altro in basso a destra svolge una funzione similare. Sul intradosso un nastro a zig-zag delimita la composizione. Riassumendo questi elementi in un disegno e completandolo, con la consapevolezza che la composizione doveva essere simmetria, otteniamo la ricostruzione della composizione.
Il particolare dell’affresco rinvenuto sulla parete Sud, scoperto durante i lavori di restauro, costituisce un argomento forte in favore di un programma iconografico esteso a tutto l’interno della chiesa del XII secolo; esso si trova a destra di un’apertura con l’arco a tutto sesto (parete sud). L’attenta osservazione dei colori di questo frammento di affresco e dell’esecuzione tecnica dà la certezza che sia eseguito dagli stessi pittori che hanno affrescato l’abside. Questo vuol dire che la forma basilicale della chiesa esisteva al tempo dell’esecuzione degli affreschi.
A Catania del periodo bizantino sono rimasti ricordi di alcune chiese. Colate laviche e terremoti, specialmente quello del 1693, hanno distrutto la maggior parte delle testimonianze dell’epoca bizantina. Si è salvato la Cappella Bonaiuto (vedi), detta del Salvatorello.
La Cappella Binajuto o del Salvaterello si trova nel centro storico di Catania, inglobato nel settecentesco palazzo Bonaiuto in via Bonaiuto 7 ed è l’unico monumento bizantino inserito nel circuito culturale e turistico di Catania.
Altre strutture architettoniche sono state aggiunte nel XV secolo. Nella sistemazione del settecento è stato chiuso l’ingresso originale, lato sud, e aperto uno nell’abside ovest; l’abside nord è stata chiusa parzialmente con un muro facente parte di un’altra fabbrica.
Attualmente la chiesa è interrata a due metri dal livello della strada, come indica la sezione.
Non è conosciuto il titolo originario, ma si riteneva verso il ‘700 che fosse dedicata al SS Salvatore.
E’ stata ritenuta, dai scrittori catanesi, un Pantheon pagano, un sepolcro romano o un elemento di terme.
Nella seconda metà del XVIII secolo è la chiesa della casa Bonaiuto, viene trasformata in cappella mortuaria.
Negli anni trenta del secolo scorso la Soprintendenza di Catania esegui lavori di restauro sotto la direzione del arch. Sebastiano Agati, continuati dall’arch. Piero Gazzola che operò la demolizione ed il ripristino delle strutture originare del monumento.
L’edificio è una cella trichora, costituita da un vano centrale quadrato di m. 8,1 per lato coperto da una volta a vela a tutto sesto a circa 10 m, tre grandi nicchioni, nel quarto lato a mezzogiorno si trovava l’ingresso.
La volta ha un occhio di luce in chiave, aperto in un epoca relativamente recente. Quattro appoggi particolari sostengono la volta, sotto di essi – quattro colonne ioniche con ruolo decorativo e non di sostegno. Si conserva una delle basi e porzioni del capitello. La volta attuale è rifatta, riprendendo la geometria di quella originaria.
La chiesa è stata costruita con materiale di recupero romano. Forse l’impiego decorativo delle colonne ioniche fosse stimolato dall’esistenza di elementi architettonici degli ruderi antichi.
La pavimentazione originaria – basalto lavico, parte della quale è stata individuata in un locale adiacente.
L’edificio è datato a partire dal VI secolo. Probabilmente si deve posticipare questa data verso la seconda meta del secolo successivo. Per tutto il VI e inizio del VII secolo Sicilia prende ispirazione da Roma ed è alquanto improbabile che il tipo di chiesa a pianta centrale, che proprio nel VI secolo si affermava come elemento distintivo della cristianità orientale, poteva essere realizzata in Sicilia. Invece a partire del primo quarto del VII secolo la Sicilia conosce la prima grande ondata di immigrazione dell’elemento etnico greco e di rito orientale. Solo in seguito a questo fenomeno in Sicilia si diffonde la pianta centrale trilobata. Di dimensioni ridotte, la Cella Trichora, come viene riconosciuta dalla storiografia, è riscontrabile nell’Africa del Nord da dove viene portata nell’Isola.
Menzioni della chiesa si ha a partire del XVII secolo. La vediamo indicato in un disegno, la pianta di Catania, di G. Merelli tra 1676 e il 1677. Cent’anni più tardi viene menzionata da J. Houel nel Catalogue Raisoné del Voyage Pittoresque des iles de Sicilie, de Malte et de Lipari, Paris, 1782; un guazzo di J. Houel si trova al Louvre – la pianta e la vista interna della chiesa del palazzo Bonaiuto. Già a quel tempo la chiesa era trasformata in cappella privata della famiglia Bonaiuto. I primi scavi archeologici sono stati eseguiti sotto la direzione del principe Biscari nel terzo quarto del XVIII secolo e documentati da Meyer.
La Capella Bonaiuto è gestita dalla società Cappella Bonaiuto di Salvatore Bonaiuto & c. s.a.s che ha curato il restauro; destinata ad attività polivalente, rivolta principalmente alla realizzazione di servizi nei settori della fruizione dei beni culturali.
Le Terme della Rotonda (vedi) sono delle strutture termali di epoca romana, datate al I-II secolo d.C. e site nel centro storico di Catania. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. Della decorazione pittorica di quella che fu la chiesa rimangono poche tracce. Le più antiche identificate rappresentano i Santi vescovi Leone e Nicola, a decorazione degli stipiti dell’arco ovest del presbiterio; una Madonna in Trono sulla parete orientale dello stesso ambiente; una Madonna in Trono con Bambino. Tali affreschi si possono identificare quali appartenenti al periodo compreso tra il XII e il XIV secolo.
La Cuba di Malvagna (vedi), edificata nella metà del VII secolo, mostra evidenti imprecisioni costruttive ed una insufficiente cura nell’impostazione simmetrica rispetto ad altre cube della zona etnea. Né la porta di ingresso, infatti, né l’abside sul lato est si trovano in asse e le rispettive pareti risultano avere differenti dimensioni. Nell’abside centrale si evidenziano due scarne aperture sovrapposte mentre i profili dei catini absidali, tutti dotati di riseghe alle imposte, alternano mattoni laterizi rossastri a conci di pietra lavica, notoriamente assai diffusa in tutta l’area etnea. Lo stesso materiale è stato inoltre utilizzato per l’edificazione della cupola la quale, realizzata con sistema costruttivo autoportante ad anelli concentrici, si raccorda alla pianta quadrata dell’edificio tramite conchette angolari.
La chiesa di Gesù e Maria, o del Salvatore (vedi), o più remotamente chiamata di Santa Maria la Candelora o di Santa Maria dei Cerei, è un insigne monumento bizantino (VI° – IX° secolo) che si trova nel comune di Rometta. Questa chiesa pare facesse parte di un antichissimo monastero di suore clarisse venute a Rometta nel 1320 e a suo ricordo è rimasta la denominazione popolare di “badia vecchia”. L’edificio antico di questo monastero, che più non c’è, si sviluppava fino alla vicina “porta terra” (o porta Milazzo). Pare che queste suore siano venute a Rometta nel 1320; nel 1342 la regina Elisabetta chiese al Pontefice un breve per il trasferimento del monastero a Messina che avvenne nel 1345 e qui prese il nome di Monastero di Basicò, dal nome della strada (da “Notizie storiche di Rometta ” di Nicolò Saija).
La chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò (vedi) si trova in Sicilia, in provincia di Messina, nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. È facilmente raggiungibile percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Raggiunto e superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all’Abbazia. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.La chiesa dei Santi Pietro e Paolo d’Agrò si trova in Sicilia, in provincia di Messina, nella frazione San Pietro di Casalvecchio Siculo. È facilmente raggiungibile percorrendo la strada provinciale n. 19 che da Santa Teresa di Riva porta a Casalvecchio Siculo. Raggiunto e superato il centro di Casalvecchio, e seguendo le indicazioni, ci si immette nella strada comunale che porta direttamente all’Abbazia. La chiesa originaria risaliva presumibilmente all’incirca al 560 Fu in seguito completamente distrutta dagli arabi e quindi ricostruita nel 1117. Tale data è certa in quanto è stata dedotta da un “Atto di Donazione” di Ruggero II, datato 1116 scritto in lingua greca , conservato nel Codice Vaticano 8201, e tradotto in latino da Costantino Lascaris nel 1478. Da tale Atto di donazione si deduce che il conte Ruggero II in viaggio da Messina a Palermo fa una sosta in scala S. Alexii e cioè al castello di Sant’Alessio Siculo. In tale circostanza viene avvicinato dal monaco basiliano Gerasimo, il quale chiede al sovrano la facoltà e le risorse per riedificare (erigendi et readificandi) il monastero sito in fluvio Agrilea. La richiesta venne prontamente accolta e il monaco Gerasimo di San Pietro e Paolo si adoperò immediatamente a far erigere il tempio. Dal diploma di donazione si evince inoltre che il monastero fu dotato di alcuni redditi fissi: estesi campi di querce, di pascoli, alberi da frutto. Gli fu addirittura concessa la completa proprietà di un intero villaggio il Vicum Agrillae (l’attuale Forza d’Agrò) con assoluto potere da parte dei monaci su ogni oggetto o abitante di tale villaggio. In particolare era obbligo agli abitanti di detto villaggio di portare “due galline al monastero nelle feste di Natale e di Pasqua nonché la decima sulle capre e sui porci”. Si disponeva che il monastero fosse fornito ogni anno di otto barili di tonnina della tonnara di Oliveri e che ogni merce diretta al monastero fosse libera da ogni gravame di tasse. Era inoltre concesso all’Abate del Monastero il diritto del foro e cioè quello “di giudicare e di condannare, e la potestà sopra di quelli che, colti in delitti, potevano essere legati e flagellati e rimanere con i ceppi ai piedi, riservando la pena per l’omicidio alla Curia Regale”. Per tali pene l’Abbazia pagava la locazione del carcere sito in Casalvecchio ( “carcerem in Casali Veteri”) Con tali poteri si equiparava quindi la figura dell’Abate del Monastero dei Ss Pietro e Paolo a quello di un barone normanno del tempo. La chiesa molto probabilmente subì dei gravi danni nel 1169 a causa del fortissimo terremoto che quell’anno squassò tutta la Sicilia orientale. Fu quindi ristrutturata e rinnovata nel 1172 dall’architetto (capomastro) Gherardo il Franco come si può dedurre dall’iscrizione in greco antico posta sull’architrave della porta d’ingresso: “Fu rinnovato questo tempio dei SS. Apostoli Pietro e Paolo da Teostericto Abate di Taormina, a sue spese. Possa Iddio ricordarlo. Nell’anno 6680. Il capomastro Gherardo il Franco”. L’anno 6680 corrisponde nella cronologia greco- bizantina appunto al 1172 in quanto gli anni si computavano dall’origine del mondo che, per i greco-bizantini, risaliva a 5508 anni prima della venuta di Cristo. Da quel restauro la chiesa non subì altre modifiche ed è giunta a noi praticamente intatta, al contrario del circostante Monastero di cui rimangono solo pochi resti e qualche edificio recentemente oggetto di un lavoro di restauro Oltre ai due Abati su citati Gerasimo e Teostericto, si conoscono i nomi di altri 26 Abati che si sono succeduti nel corso dei secoli, fra i quali l’Abate Fra Simone Blundo, palermitano e il successore un certo Abate Fra Bessarione, greco, nel 1449 che ha diritto di voto nel parlamento siciliano e che fu nominato Cardinale da Nicolò V. L’ultimo Abate Nicolò Judice, fu nominato Cardinale da Benedetto XIII l’11 giugno 1725). Il Monastero della vallata di Agrò fu un centro notevole di vita spirituale, sociale ed economica. Prospetto della chiesa dei SS. Pietro e Paolo L’ampio territorio che controllava era molto ricco di varie colture e allevamenti ed era dotato di vari mulini per la produzione di farine e derivati. Abbondava la produzione di vino e olio. Di tali ricchezze prodotte dal Monastero ne beneficiava anche il paese di Casalvecchio Siculo (“Casale Vetus”) che viveva gravitando intorno alle attività del monastero stesso. Nel corso dei vari secoli il Monastero dei SS Pietro e Paolo d’Agrò e la chiesa di S. Onofrio di Casalvecchio svolsero il ministero pastorale in unità d’intenti con la “Gran Corte Archimandritale di Messina” la quale concedeva all’Abate del “venerabile Monastero dell’Abatia dei SS. Pietro e Paolo d’Agrò, su richiesta della Matrice dell’Università di Casalvecchio sotto il titolo di S. Onofrio, di poter condurre processionalmente la Reliquia di detto S. Onofrio…in una delle due processioni….” ( Liber actorum, 1705, Archivio della “Gran Corte Archimandritale di Messina”). Dai registri del 1328 si apprende della presenza di sette monaci e di dieci nel 1336. Dopo secoli di permanenza nel monastero i frati furono costretti a richiedere il trasferimento ad altra sede. Infatti in quel luogo l’aria era diventata insalubre e quasi irrespirabile a causa dell’acqua imputridita del Agrò proveniente dalle coltivazioni di lino che lungo in fiume era massicciamente ed intensamente coltivato. La richiesta di trasferimento fu accolta dall’Archimandrita di Messina e dal re Ferdinando IV e la sede Abbaziale del Monastero dei SS Pietro e Paolo fu trasferita a Messina nel 1794. In seguito la chiesa venne praticamente abbandonata e per molti anni servì addirittura da deposito per attrezzature contadine. Tale stato di totale abbandono ed incuria durò fino agli anni ‘60 del secolo scorso, visitata solamente da studiosi dell’architettura medievale sia italiani che stranieri. Solo negli anni ‘60 fu ripulita , fu oggetto di varie campagne di restauro conservativo, riaperta al culto, e alle visite turistiche. È stata oggetto di vari studi da parte di vari critici e storici dell’arte fra i quali Stefano Bottari, Pietro Lojacono, E.H Freshfield, Antonio Salinas, Ernesto Basile, Enrico Calandra. Descrizione architettonica Ha l’aspetto di una chiesa fortificata con il classico orientamento della parte absidale ad est. Il suo aspetto ed il coronamento di merli indicano senza dubbio la funzione di fortezza che ha dovuto sostenere nei vari secoli. Ha caratteristiche molto simili a quelle che si possono riscontrare nelle grandi cattedrali coeve di Cefalù e Monreale. Architettonicamente si può certamente definire come una sintesi dello stile bizantino, arabo e normanno. un sincretismo culturale che ha prodotto un’opera architettonica che a detta di alcuni studiosi potrebbe rappresentare il primo esempio di protogotico, più propriamente un esempio lampante di elementi architettonici diversi uniti in un’unica struttura, che al suo interno contengono e assemblano gli elementi principali e quindi lo stile artistico-costruttivo del normanno e dell’arabo. Tali elementi fusi assieme creano le linee guida del protogotico. Stile bizantino la decorazione delle facciate con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate struttura a mattoni con ornati a spina-pesce e a zig-zag e anche nella decorazione della facciata con strette lesene terminanti con archeggiature incrociate; la particolare policromia delle membrature architettoniche; la sagoma dei pulvini insistenti su capitelli a paniere; la croce di tipo bizantino incisa nella lunetta sulla porta d’ingresso. Stile Arabo le caratteristiche archeggiature sovrapposte che sorreggono la cupola minore del presbiterio; tale cupola si sviluppa con un tamburo ottagonale con otto finestre; la forma terminale curva delle merlature ed il sesto rialzato degli archi; la forma delle cupole e il terminale chiaramente di stile arabo delle stesse; Stile Normanno la planimetria a tre navate con l’ingresso fiancheggiato da due torri molto simile alle grandi cattedrali normanne di Cefalù e Monreale; il portico posto fra le due torri dell’ingresso. Indubbiamente l’aspetto che colpisce di più ad una prima osservazione è la spettacolare policromia delle facciate resa possibile dal sapiente alternarsi di mattoni in cotto, pietre laviche (di provenienza etnea), pietra serena locale. Lo stesso Prof. Stefano Bottari così la descrive: “La bizzarra policromia, ottenuta per mezzo del mattone, delle lava e della pietra bianca, adoperati per la costruzione ed intrecciati armoniosamente, acquista allo snello edificio una fisionomia veramente suggestiva e pittoresca….”. L’interno è caratterizzato da una assoluta austerità. Non è presente alcuna decorazione o affresco e i muri sono completamente spogli : si può ammirare solamente il gioco dei mattoni e delle pietre di costruzione. Non sappiamo se in origine fossero presenti decorazioni o altro però è difficile pensare che nel corso dei secoli non fossero stati presenti degli affreschi.
Nessun dato storico aiuta a collocare cronologicamente la Cuba Imbisci (vedi). La piccola chiesa di contrada Imbischi sorge limitrofa al corso del fiume Alcantara. Tutt’intorno si intravedono resti architettonici reimpiegati in muretti a secco o in edifici rurali. Questo riutilizzo testimonierebbe un’ampia frequentazione dei luoghi ove sorgeva la chiesetta che certamente non giaceva isolata, ma inserita in un contesto abitativo ormai scomparso. L’edificio è orientato ovest/est e possiede una pianta rettangolare. Ad oriente si trova un abside semicircolare con catino emisferico. Il fianco settentrionale è conservato fino all’innesto del soffitto, al contrario di quello meridionale, del quale rimangono solo pochissime assise appena affioranti dall’attuale piano di calpestio. Nessun prospetto si conserva ad occidente.Il piccolo edificio sacro si componeva, all’interno, di un’unica navata, la cui copertura doveva essere probabilmente a volta. All’esterno, le fiancate laterali erano contraffortate e di tali semi pilastri oggi sopravvivono solo quelli settentrionali in numero di tre. Ancora, la lunga parete settentrionale presenta due finestre a forte strombo esterno, internamente caratterizzate da archetti a testa di chiodo. Si tratta di un elemento che, insieme con i contrafforti esterni, accomuna la chiesetta di Imbischi con la Cuba di S. Domenica presso Castiglione. A livello dell’imposta, si possono osservare altre due finestre rettangolari. L’abside è composto da conci di pietra lavica squadrati. La Fronte dell’abside è formata da un ampio arco a tutto sesto composto da blocchi di pietra lavica squadrata non inframmezzata da laterizi e poggiante lateralmente su due pilastrini sormontati da mensole. Non esistono dati certi che permettano una precisa collocazione cronologica della struttura. Si trattava certamente di una chiesa al servizio di una comunità rurale che viveva nei pressi del fiume Alcantara. Attraverso confronti tipologici con alcune strutture consimili, come la vicina Cuba di Castiglione o la basilichetta di Priolo, si potrebbe azzardare una collocazione temporale compresa tra il V/VI e l’VIII sec. d.C. Agli inizi del XX sec. fu Paolo Orsi ad interessarsi di contrada Imbischi [P. Orsi 1907, pp. 496-97] , compiendo alcune esplorazioni preliminari attraverso l’assistente R. Carta, a seguito dei ritrovamenti che oggi compongono la collezione Vagliasindi, esposta al museo di Randazzo. Carta rinvenne numerose sepolture a tegola dislocate per la maggior parte in contrada S. Anastasia (odierna contrada Feudo?) e nella limitrofa contrada Imbischi osservò la basilichetta che venne prontamente fotografata dal fotografo Rizzo (utilizzando presumibilmente una folding a lastre o “ibrida”, cioè con dorso predisposto per lastre o pellicole). Dalla visione delle fotografie Orsi dichiarava le sue preplessità relative alla datazione della chiesa, dubitando se si trattasse di una struttura risalente al periodo bizantino o normanno.
Siti Etnanatura:
Fonti
Catania era originariamente un insediamento sicano, quindi dopo il XIII secolo a.C. sede di un grosso villaggio siculo e rifondato come Kατάvη nel 729 a.C. da coloni greci calcidesi guidati da Tucle dal dominio dei quali venne tolta nel 476 a.C. da Gerone I di Siracusa che la chiamò Aitna (Etna). Dopo la morte del tiranno siracusano e la sconfitta di Trasibulo la città fu riconquistata dai Katanaioi che le rimisero il nome originario. Subì la conquista di Dionisio I di Siracusa.
Fu poi conquistata dai Romani nel 263 a.C. È l’inserimento nella universalitas romana che attribuisce alla città il carattere di “sistema urbano complesso”, che verrà continuato fino alla riconversione “barocca” operata dopo la distruzione di fine XVII secolo.
Tracce del periodo pregreco si ritrovano soprattutto in alcune grotte. Notevoli testimonianze del periodo del bronzo antico (1.800-1.400 a.C.) si ritrovano nella grotta Petralia (vedi) dove gli archeologi hanno infatti rinvenuto numerosi frammenti ceramici dell’Età del Bronzo, utensili di selce, ossa di grossi mammiferi, un curioso ciottolo lavico sferico, il cui significato sfugge ancora oggi agli stessi archeologi, vasi, sepolture con scheletri umani, recinti realizzati con sassi opportunamente disposti sul pavimento della grotta, entro i quali probabilmente l’uomo preistorico vi svolgeva riti d’iniziazione (v. Giuseppe Sperlinga su www.cataniacultura.com).
Al periodo romano risalgono invece i resti ritrovati nella grotta dei roditori (vedi). Nella grotta sono stati infatti rinvenuti frammenti ceramici di età tardo-romana e bizantina e i resti di una lucerna.
Rinvenimenti del periodo preistorico si sono avuti anche nella grotta delle Chiesa a San Giovanni Galermo.
Iniziamo il nostro percorso alla scoperta dei resti greci e soprattutto romani di Catania dal cuore della città, piazza Duomo, e dal suo simbolo “U liotru“. La fontana dell’Elefante è stata realizzata da Vaccarini nell’ambito della ricostruzione della città etnea dopo il terremoto dell’11 gennaio 1693. Secondo il geografo Idrisi, la statua dell’elefante era stata realizzata durante la dominazione cartaginese o bizantina. Nel periodo in cui visitò Catania (XII secolo), l’elefante di pietra lavica si trovava già all’interno delle mura della città. Vi sarebbe stato portato daibenedettini del monastero di Sant’Agata, che lo avrebbero posto sotto un arco detto “di Liodoro”. Nel 1239 la statua dell’elefante fu scelta come simbolo di Catania. Alcuni sostengono che il trasferimento all’interno delle mura avvenne proprio in quest’occasione. L’elefante sorregge un obelisco che probabilmente fu portato a Catania durante le crociate, proveniente da Syene. In città fu collocato nel Circo Massimo, secondo l’ipotesi di Ignazio Paternò Castello.
La proboscide dell’elefante indica l’ingresso del duomo dove troviamo delle colonne probabilmente provenienti dal teatro romano.
Accanto al duomo si trova l’ingresso delle terme Achilliane (vedi). Si tratta di strutture termali sotterranee databili al IV-V d.C. Dell’impianto originale si conserva una camera centrale il cui soffitto a crociere è sorretto da quattro pilastri a pianta quadrangolare. Al vano si accede tramite un corridoio con volta a botte che corre in direzione est-ovest e terminante in una porta che si apre su una serie di vasche ad ipocausto parallele tra loro, facenti parte di un complesso sistema di canalizzazione dell’acqua che si estende verso nord. Anche il vano principale si apre con tre ingressi ad arco sulle vasche, ad ovest del vano stesso.
Dietro il Duomo, in via Museo Biscari, alla Civita, si trova quella che la tradizione vuole sia la casa natale Sant’Agata. Così testimonia una lapide fatta affiggere nel 1728 dalla madre abatessa Maria Rosaria Statella nel prospetto sud del convento di San Placido. In effetti nei sotterranei del convento sono stati rinvenuti rest archeologici coevi alla santa catanese.
In via Bonajuto possiamo vistare uno dei pochi edifici di rilievo superstite dell’epoca bizantina a Catania, la cappella Bonajuto (vedi). Si presenta a croce greca con pianta quadrata, cupola e tre absidi («cellae trichorae» o «chiesa a trifoglio») in forma simile alla cuba bizantina presente in Sicilia. L’edificio, che è inoltre arricchito di testimonianze medioevali e quattrocentesche, è scampato ai diversi terremoti che hanno colpito la città, fra cui quello devastante del 1693. La famiglia Bonajuto prese possesso della cappella a partire dal quattrocento e nel secolo successivo vi edificò la propria residenza. Sino all’insediamento dei Bonajuto la cappella era dedicata al SS.Salvatore, denominazione che mantenne probabilmente sino al XVIII secolo. Nel XVIII secolo quando la cappella fu oggetto di restauri e ristrutturazione dell’ingresso, questa fu meta del viaggio del pittore francese Jean Houel.
Ritornando indietro verso il Duomo e imboccando via Garibaldi s’incontra Piazza Mazzini. Nei primi decenni del XVIII secolo, non è certo per mano di quali architetti, in quella che sarebbe dovuta divenire la principale piazza del mercato catanese sorsero quattro identici loggiati, ciascuno composto da 8 colonne in marmo bianco, che formarono una cornice quadrangolare lungo i perimetri del luogo ad eccezione delle quattro aperture stradali. Tali colonne furono recuperate da rovine di epoca romana probabilmente dai resti di una basilica posta dove oggi sorge la chiesa di Sant’Agostino con convento annesso.
Da piazza Mazzini prima per via Auteri e poi per via Bonoma arriviamo a piazza Currò dove possiamo ammirare da lontano (in quanto non sono visitabili) le terme dell’Indirizzo (vedi). Si tratta di alcuni resti di un complesso termale romano risalenti al II secolo. Il complesso evidenzia un calidarium ed un frigidarium, oltre alle fornaci per il riscaldamento dell’acqua e dell’aria e tutte le canalizzazioni per l’approvvigionamento dell’acqua e quelle per lo scarico. Altri ambienti accessori sono evidenziati a livello di fondamenta. La dizione Indirizzo si riferisce al vicino Convento carmelitano dell’Indirizzo, così denominato per un miracolo che avrebbe salvato il viceré Pedro Téllez-Girón, terzo duca di Osuna nel 1610. Sorpreso da una tempesta mentre si avvicinava alla costa durante la notte, venne salvato da una luce votiva di detto convento che lo “indirizzò” al porto.
Proseguendo per via San Calogero si arriva al castello Ursino fondato da Federico II di Svevia nel XIII secolo. Il maniero ebbe una certa visibilità nel corso dei Vespri siciliani, come sede del parlamento e, in seguito, residenza dei sovrani aragonesi fra cui Federico III. Oggi è sede del museo civico della città etnea. Per la tematica del presente articolo ci interessa sottolineare la presenza nel museo del nucleo principale della raccolta Biscari costituito da materiali archeologici provenienti dagli scavi eseguiti a Catania.
Nel cortile San Pantaleone ritroviamo il Foro romano (vedi). Il presunto Forum si presentava come una serie di diversi edifici circondanti un’ampia area centrale che costituiva il “foro” vero e proprio. Tali edifici dovettero essere quasi certamente essere dei magazzini o negozi. Lorenzo Bolano descriveva nel Cinquecento la presenza di otto ambienti con copertura a vôlta a sud e altri quattro a nord (quasi certamente perduti questi ultimi con la creazione del Corso, attuale via Vittorio Emanuele II). Il Bolano riferisce anche di un’ala occidentale distrutta ai suoi tempi. Il Bolano tuttavia lo descrive come un impianto termale, dato che la zona era soggetta a periodici fenomeni di allagamento. La struttura rimase così definita fino alle dovute correzioni del Biscari. Ancora Valeriano De Franchi, cartografo per l’opera del D’Arcangelo, ne traccia una prima planimetria dove la struttura viene chiamata Terme Amasene. Ai tempi del principe Ignazio Paternò Castello il pianterreno risultava essere già sepolto, mentre il secondo piano (cinque metri più in alto) era diventato residenza per molti popolani e i lati ridotti a due soltanto (quelli a sud e ad est) uniti ad angolo retto. Adolf Holm attesta esserci stati ai suoi tempi sette vani ad est e tre a sud e che questi furono chiamati “grotte di S. Pantaleo (…) per metà interrate e ridotte a povere abitazioni”. Il Libertini, in nota al testo dell’Holm, fa presente come gli otto ambienti a sud persistano, mentre le strutture a est furono convertite in antico in un unico corridoio. La facciata era di circa 45 metri di lunghezza. Tuttavia le strutture riconosciute dal Libertini erano quelle del secondo piano, mentre cinque metri più sopra rimanevano i ruderi del piano interrato che potrebbero essere i locali di cui fa menzione l’Holm. Oggi del presunto foro rimangono soltanto un paio di ambienti attigui visibili a sud, con ingresso architravato sormontato da una apertura ad arco, molto simile nell’aspetto ai magazzini del Foro Traianeo, oltre alle aperture ad arco semplice. Della struttura a est rimangono i resti di una parete in opus reticulatum appartenenti ad uno dei magazzini. Tuttavia, in un lavoro del 2008, Edoardo Tortorici ha messo in dubbio la possibilità che si tratti di un foro, mettendo piuttosto la struttura a confronto con gli horrea noti. Il vicino convento di S. Agostino pure conservava parte della struttura, forse una basilica, consistente in un grosso muro cui poggiava l’edificio religioso e trentadue colonne, prima del terremoto del 1693 componenti il chiostro del convento, in seguito poste a decoro dell’antico Plano San Philippo (oggi Piazza Mazzini). Da qui inoltre provengono il torso colossale di imperatore giulio-claudio e un lastricato in calcare un tempo esposti al Museo Biscari. Oggi il torso colossale è ospite al Castello Ursino.
Nella piazza Sant’Antonio dove ritroviamo il Balneum di casa Sapuppo. Trovato da Biscari nel Settecento probabilmente struttura termale privata. Purtroppo il sito è “protetto” da un’orribile gabbia di ferro e vetro che ne rende impossibile la fruizione.
Attraversando in perpendicolare via Garibaldi, via Vittorio Emanuele e infine via teatro Greco ritroviamo il monastero dei Benedettini. Nella piazza antistante ancora un edificio termale romano: il balneum di piazza Dante, anch’esso probabilmente struttura termale privata in dote ad un’antica casa patrizia in epoca tardo imperiale.
Sotto le scuderie del Monastero dei Benedettini e nel cortile interno ritroviamo due strade romane: il Decumano e il Cardo. Il decumano (in latino: decumanus, variante di decimanus, derivato di decĭmus, “decimo”) era una via che correva in direzione est-ovest nelle città romane. Esse erano solitamente basate su uno schema urbanistico ortogonale, ossia suddivise in isolati quadrangolari uniformi, in particolare per quanto riguarda le fondazioni coloniali.
Il termine decumanu veniva infatti utilizzato per indicare una delimitazione in direzione est-ovest nella centuriazione romana, ossia la divisione del territorio di una colonia in lotti quadrati che venivano assegnati ai singoli coloni. Ciascun lotto costituiva il fondo per cento famiglie, ed era delimitato da un cardo, il “polo cardinale” e ogni dieci famiglie, da un decumanus, “la strada della decima parte”.
Uno degli assi principali della centuriazione e dell’urbanistica cittadina era il decumanus maximus, che si incrociava ad angolo retto con il cardo maximus, ovvero il principale asse nord-sud. L’insediamento romano risultava quindi diviso in quattro parti chiamate quartieri (termine che in seguito ha assunto il significato di nucleo con caratteristiche storiche e geografiche all’interno di un agglomerato urbano). Di regola, all’incrocio di queste due direttrici principali si trovava quasi sempre il forum, ossia la piazza principale della città. Il decumanus maximus inoltre collegava due delle quattro porte dell’insediamento, quelle in direzione est – ovest: la dextera e la sinistra. Il Decumano dei Benedettini presenta una notevole pendenza da Est verso Ovest e corre, come dicevamo, sotto tutto il plesso delle ex scuderie del convento. Sui lati del Decumano di affacciavano edifici dotati di portici, di cui ancora oggi si conservano alcuni pilastri in blocchi lavici squadrati e allineati lungo il marciapiede. Accanto al Cardo sono stati ritrovati i resti di una strada e di una domus romani. Sempre in quest’area sono stati repertati manufatti risalenti all’età neolitica e un tratto di mura civiche di periodo greco.
Poco lontano i pochi resti di un altro edificio termale: le terme dell’Itria.
Di fronte l’ospedale Santa Marta, accanto alla chiesa dei Minoritelli, i resti del carcere romano che la leggenda vuole sia stato il carcere di transito dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino prima che venissero uccisi a Lentini da Tertullo.
Scendendo per via Rotonda si incontrano le Terme della Rotonda (vedi). Sono delle strutture termali di epoca romana di grande fascino e bellezza, datate al I-II secolo d.C.. Sul sito sorse pure una chiesa di probabile origine bizantina intestata alla Vergine Maria. La singolare struttura architettonica della chiesa che vi si ricavò, una grande cupola sorretta da possenti contrafforti posta su un ambiente quadrato, fece sorgere l’appellativo di Rotonda al complesso ecclesiastico, spesso indicato col toponimo de La Rotonda nelle planimetrie Cinque e Secentesche. La struttura termale è stata solo di recente chiarificata, come un grande complesso di edifici quadrangolari connessi tra loro e seguenti uno stesso orientamento. Tra essi emerge una grande sala absidata – forse un frigidarium – orientata in direzione nord-sud databile alla prima fase vitale delle terme, a cui si appoggia sul lato est un grande ambiente ad ipocausto ricco di numerose suspensurae che dovevano reggere un pavimento mosaicato di cui pure si sono rinvenute esigue tracce e identificabile come calidarium.
Alla fine di via Rotonda, in via Vittorio Emanuele, si segnala per bellezza e importanza storica il Teatro romano (vedi). Il suo aspetto attuale risale al II secolo ed è stato messo in luce a partire dalla fine del XIX secolo. A est confina con un teatro minore, detto odeon. La struttura teatrale visibile appartiene alle grandi costruzioni del genere di epoca antonina, composta da una complessa scena, originariamente decorata da colonne marmoree in seguito resa monumentale con l’aggiunta di nicchie e finti ambienti prospettici che dovevano creare l’illusione di una più vasta profondità, un pulpitum riccamente strutturato e decorato da marmi, l’orchestra dal diametro di circa 22 metri originariamente rivestita in opus sectile con una fantasia di cerchi inscritti in quadrati, danneggiata più volte e restaurata un’ultima volta malamente nel IV secolo, e sovente allagata da una polla di acqua sorgente scambiata in passato con l’Amenano, i due parodoi fortemente rovinati dai lavori effettuati per ricavarne ambienti e persino scarichi per le acque nere, una delle carceris resa nel XVIII secolo una palazzina privata, l’ampia cavea dal diametro di 98 metri costituita da ventuno serie di sedili, divisi orizzontalmente da due praecinctiones e verticalmente da nove cunei e otto scalette. Le due precinzioni separano le tre parti della cavea: ima (poggiata direttamente sul declivio del colle Montevergine), media e summa (queste ultime messe in comunicazione dagli ambulacri che si aprono verso l’esterno tramite diversi vomitoria ai vari cunei e tra loro con un fitto sistema di scale).
Lungo via Crociferi si trovano, in verità ben nascosti da orribili loculi di cemento e vetro, i resti della Domus di via Crociferi casa patrizia di epoca romano imperiale.
Risalendo per via Etnea fino a piazza Stesicoro, a destra, al centro del mercato, si trova la chiesa di San Gaetano alle Grotte (vedi) che sorge sui resti di un antico tempio fondato nel 262 d.C. dall’allora vescovo S. Everio col titolo di S. Maria. All’interno di una grotta lavica originatasi forse nell’eruzione del Larmisi venne ricavata una cisterna ipogea di epoca romana, in seguito riadattata all’uso di sepolcreto paleocristiano delle necropoli. L’impianto primitivo divenne nel 262 una chiesa cristiana, forse la prima costruita a Catania, prima ancora della vicina chiesa del Santo Spirito eretta ad opera del vescovo San Berillo, e tra le prime in Europa ad essere intitolate a Maria. Inizialmente sede di un martyrion. Le tracce più antiche, precedenti alla trasformazione in chiesa, sarebbero da cercarsi nel pozzo a sud dove sul soffitto rimangono tracce di una campata in mattoni di terracotta, un archosolium (murato per ricavarne l’altare), una falsa finestra e due sedili in pietra lavica. Con l’editto che consentiva la libertà di culto del 313 l’edificio poté dotarsi degli elementi strutturali necessari alle funzioni sacre, come l’altare (che probabilmente chiudeva un passaggio verso un altro settore della grotta che si estendeva a nord verso il santuario del Carmine) e l’arco trionfale che reggeva un’iconostasi. In questo periodo l’ambiente venne totalmente rivestito di affreschi di cui oggi non restano che labili tracce, se non una Madonna con Bambino del III secolo, di cui si leggono appena i volti, nella parete settentrionale dov’è ricavato l’altarino, rimaneggiato più volte nei secoli successivi. Con l’erezione del tempio apogeo vengono messe in atto le prime sostanziali modifiche, tra cui un nuovo ingresso più ampio a occidente e la ristrutturazione del pozzo per ricavarne un fonte battesimale. Il battesimo avveniva per immersione e lo si faceva superati i sette anni di vita. Non si conosce se con la conquista Islamica la chiesetta subì qualche modifica, certo è che nell’XI secolo, con l’avvento dei Normanni, fu rimaneggiata sostanzialmente. Venne eretta una nuova gradinata in pietra lavica in sostituzione di una ripida discesa (com’era più usuale in epoca paleocristiana) e il cambio di culto (da orientale a occidentale) influenzò anche l’architettura battesimale: di questo periodo infatti il pozzo cilindrico per il lavaggio del capo ai fanciulli.
Dietro il mercato con accesso dalla Caserma Centro Documentale Esercito di Catania, ritroviamo il Mausoleo romano del Carmine costituito da alcuni resti di un edificio funerario di epoca romana datato alla seconda metà del II secolo e indicato dagli studiosi come significativo esempio fra i monumenti funerari d’età romana. Questo mausoleo è stato erroneamente indicato come la tomba di Stesicoro.
Ritornando su piazza Stesicoro non possiamo non visitare l’Anfiteatro romano (vedi) forse la più significativa testimonianza di epoca romana presente a Catania. Il monumento fu costruito nel II secolo, la data precisa è incerta, ma il tipo di architettura fa propendere per l’epoca tra gli imperatori Adriano e Antonino Pio. Fu raggiunto dalla lava del 252-253 ma non distrutto. Nel V secolo Teodorico re degli Ostrogoti lo utilizzò quale cava di materiale da costruzione per la edificazione di edifici in muratura e, successivamente nell’XI secolo, anche Ruggero II di Sicilia ne trasse ulteriori strutture e materiali per la costruzione della Cattedrale di Sant’Agata, sulle cui absidi si riconoscono ancora le sue pietre perfettamente tagliate usate, forse, anche nel Castello Ursino in età federiciana. L’edificio presentava la pianta di forma ellittica, l’arena misurava un diametro maggiore di 70 m ed uno minore di circa 50 m. I diametri esterni erano di 125 x 105 m, mentre la circonferenza esterna era di 309 metri e la circonferenza dell’Arena di 192 metri, e si è calcolato che poteva contenere 15.000 spettatori seduti e quasi il doppio di quella cifra con l’aggiunta di impalcature lignee per gli spettatori in piedi. Addossato alla vicina collina ne era separato da un corridoio con grandi archi e volte che facevano da sostegno per le gradinate. Era probabilmente prevista anche una copertura con grandi teli per il riparo dal forte sole o nel caso di pioggia. La cavea presentava 14 gradoni. Venne costruito con la pietra lavica dell’Etna ricoperta da marmi ed aveva trentadue ordini di posti. Secondo una tradizione incerta e priva di riscontri si vuole vi si svolgessero anche le naumachie, vere battaglie navali con navi e combattenti dopo averlo riempito di acqua mediante l’antico acquedotto. L’anfiteatro di Catania è strutturalmente il più complesso degli anfiteatri siciliani e il più grande in Sicilia. Appartiene al gruppo delle grandi fabbriche quali il Colosseo, l’anfiteatro di Capua, l’Arena di Verona. Presenta una struttura realizzata con muri radiali e volte non addossata al terreno, dove la facciata non si appoggia direttamente ai muri radiali, bensì a una galleria di distribuzione periferica.
Alle spalle dell’Anfiteatro la chiesa di sant’Agata alla fornace. Sopra l’altare dal magnifico paliotto in marmi policromi, si conservano, protetti da una teca, i resti della fornace in cui subì il martirio la Santa.
Risalendo per via Cappuccini si incontra subito Sant’Agata al carcere (vedi). Secondo la tradizione in questo luogo venne tenuta prigioniera sant’Agata prima di subire il martirio. Accanto ad essa si apre un angusto passaggio che conduce in un locale di epoca romana, attiguo alla chiesa, considerato il carcere di Sant’Agata da cui discende la denominazione della chiesa. Recenti scavi qui effettuati hanno confermato l’esistenza di una grande struttura tripartita coeva al martirio della Santa, la cui funzione tuttavia non è ancora ben chiara. Nella stessa chiesa è conservata la cassa in cui erano contenute le reliquie di sant’Agata riportate a Catania, da Costantinopoli, dai soldati Gisliberto e Goselmo nel 1126, dopo un’assenza di oltre 86 anni.
Ancora più in alto, lungo vi santa Maddalena, ritroviamo la chiesa di Sant’Agata la Vetere (vedi). La sua fondazione risale all’anno 264, quando il vescovo San Everio, quarto vescovo della diocesi, eresse una modesta edicola votiva nel luogo in cui la vergine Agata subì il martirio del taglio delle mammelle, tredici anni dopo la sua morte. Dopo l’editto di Costantino (313) l’edicola fu sostituita da un vero e proprio edificio di culto costruito, ad opera del vescovo San Severino, tra il 380 ed il 436. La chiesa di Sant’Agata la Vetere divenne sede della cattedra vescovile ed in essa sarebbero state trasferite le reliquie della martire dal loro originario luogo di sepoltura. Ampliata in forma basilicale nel 776 o 778, la chiesa fu la cattedrale della città per otto secoli, fino al 1089 o 1091 (quando il conte Ruggero dispose l’edificazione della nuova Cattedrale, consacrata nel 1094): per questo motivo fu indicata con l’appellativo la Vetere, cioè l’antica. Quasi totalmente distrutta dal terremoto del 1693, ad eccezione della cripta sotterranea, fu ricostruita nel 1722. Subito dopo l’ingresso, protetta da una teca, si trova la cassa in legno che per oltre 500 anni custodì le spoglie di sant’Agata.
Nella parte alta di piazza Stesicoro, all’inizio di via sant’Euplio, la Cripta di sant’Euplio (vedi). I ruderi della chiesetta dedicata al diacono co-patrono di Catania, Sant’Euplio, costruita in età medioevale e distrutta l’8 luglio 1943 dal bombardamento alleato, conservano l’accesso ad un ambiente ipogeo, identificato in antico con la prima chiesa in cui il Santo officiò, dove fu trovato e ucciso. All’ambiente ricavato in gran parte nella roccia si accede mediante una scala che conduce in una camera piuttosto umida su cui si aprono alcune nicchie laterali, probabilmente destinate a sepolcro. Sulle pareti resistono ancora antiche tracce di pittura. Gli affreschi dovettero adornare anche il piccolo altare in cui rimangono solo poche figure, ormai quasi completamente scomparse.
Risalendo via Etna fino alla villa Bellini, al numero 35 di viale Regina Margherita, all’interno di un giardino privato, si erge il Mausoleo circolare di villa Modica (vedi). La Villa Modica è un edificio ottocentesco che sorge sul viale Regina Margherita, area di villeggiatura nel corso del XIX secolo sorta su ciò che molti secoli prima fu la Necropoli patrizia di Catania. L’edificio, un ricco palazzotto nobiliare in stile Neo-Romanico con accenni di Neo-Gotico, racchiude un ampio giardino, un tempo facente parte della ricca selva del contado catanese, in cui è custodito un importante Mausoleo Romano. L’edificio funebre presenta un diametro esterno di poco inferiore agli 8 metri e reca a ovest un’apertura arcuata che da’ all’interno. Al di sopra una cornice in terracotta (di cui non rimangono che labili tracce) segnava il confine tra il pianterreno e il piano superiore. L’interno del piano inferiore è un ambiente circolare su cui si affacciano quattro nicchie ad arco ricavate nello spessore murario, mentre la copertura è un’originale volta a cono ribassato (quasi “mammelliforme”) realizzato da fasce parallele concentriche in pietre di lava. Il secondo piano era invece costituito da un portico aperto verso est, costituito da due mezze colonne. Del secondo piano tuttavia rimane un alzato di circa 50 cm soltanto, quanto basta tuttavia a supporre l’esistenza di un nicchione atto probabilmente a contenere una qualche statua.
Poco distante, con accesso da una traversa di via Ipogeo, un altro edificio funebre, l’Ipogeo quadrato (vedi) lungo circa 15 metri e largo 12. Anch’esso presenta un ingresso ad ovest cui corrisponde un angusto corridoio che conduce ad un loculo di fronte, a seguito di una scalinata che lo ingombrava per metà; ai due lati corrispondevano due piccole nicchie atte forse a contenere altrettante urne funerarie e aperte all’esterno da strette feritoie, di cui rimane la sola a nord, a seguito della demolizione della parete sud per ricavare la bocca di una fornace per la calce ad uso dell’allora vicino monastero dei Padri Riformati cui apparteneva. Si presenta costruito ad opus incertum e coperto da una vôlta in mattoni di terracotta. Il Principe di Biscari, sulla base della robustezza della fabbrica e notando i resti di una copertura a volta a botte ne supponeva un secondo piano, verosimilmente a piramide (spinto probabilmente anche dalla considerazione della forma in pianta quasi perfettamente quadrata), così come più tardi confermava il Serradifalco.
Risalendo per via Vittorio Emanuele, dentro l’edificio del vecchio ospedale Garibaldi, ritroviamo la Chiesa della Mecca. L’antica chiesa della Mecca, la cui etimologia rimane oggi ancora ombrosa, si presenta oggi nel suo aspetto settecentesco, ricostruita dopo il terremoto del 1693 su un precedente edificio di culto risalente al 1576 legato ad un piccolo monastero. Il monastero divenne nel 1856 sede di unalbergo dei poveri, divenuto nel 1883 per interesse senato civico sede dell’ospedale Garibaldi. La chiesetta, ridotta oggi a cappella ospedaliera e retta da un piccolo gruppo di monache, conserva l’accesso ad una cripta di epoca romana. Essa consiste di un colombario di oltre 6 metri di lunghezza per quasi 4 di larghezza. Tale colombario venne costruito nella prima metà in pietra lavica e in mattoni per la parte superiore, con una copertura a volta a botte. lungo le quattro pareti si aprono 18 loculi quadrangolari di cui uno, sul lato ovest, a nicchia e molto più grande rispetto agli altri.
Per ritrovare un altro monumento funerario dobbiamo allontanarci dal centro di Catania e spostarci alla periferia in cima alla collina Leucatia (vedi). In cima al monte San Paolillo, resistono all’ingiuria del tempo e dell’uomo i ruderi di un edificio che ricorda la tipologia di alcuni monumenti sepolcrali romani rinvenuti nella città di Catania e in alcune aree della fascia costiera ionica. Sin dal XVII secolo, si narrava di un’antica costruzione risalente al II-III sec. d.C., riferibile a un tempio di epoca romana, dedicato alla dea Leucotea, di forma quadrata, edificata con grossi blocchi basaltici, con all’interno tre nicchie e coperta a volta. La forma quadrata era ascrivibile alla presenza di muri di rivestimento sui lati est, sud e ovest, prolungati fino a incontrarsi ad angolo retto. Le pareti dovevano presentarsi prive di alcun rivestimento marmoreo. La costruzione della monumentale tomba, agli inizi del ‘900, subì consistenti modifiche. Per consentire, infatti, sia una più comoda visione panoramica della città, sia l’appostamento di cacciatori pronti a sparare all’avifauna di passaggio, sarebbe stato costruito un terrazzino con annessa scalinata al posto dell’originaria artistica cupola. Sempre qui, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania, dal novembre al dicembre 1994 ha condotto una campagna di scavi in seguito alla quale sono stati riportati alla luce, sparsi in un raggio di alcune decine di metri, altri interessanti ritrovamenti: il banco lavico del monumento funerario, una tomba a cassa (sempre di epoca romana), un muro spesso 80 cm e lungo 6 m, che gli esperti, esaminata la tecnica di costruzione, fanno risalire addirittura al IV sec. a.C. E, ancora, materiale ceramico attribuibile al passaggio dal Tardo Bronzo all’Età del Ferro, frammenti ceramici ascrivibili al periodo che va dal Bronzo medio all’epoca greco-arcaica. L’anno successivo, inoltre, sono stati rinvenuti lembi di ciottoli fluviali compattati, sormontati da un piano di calpestio in terra battuta e pochi frammenti riconducibili presumibilmente al Bronzo medio. La breve campagna di scavi ha consentito agli archeologi di verificare quanto già scritto nei secoli passati dai cultori della storia catanese e vale a dire che la presenza di notevole materiale stratificato non solo testimonia con certezza il passaggio di antiche civiltà, ma apre nuovi scenari dalla Preistoria alla colonizzazione greca. Ora, una campagna di scavo della Soprintendenza effettuata a poche decine di metri dal cantiere bloccato dalla magistratura ha riportato alla luce i resti di un villaggio preistorico. Ne sapremo sicuramente di più nelle prossime settimane. L’analisi dei reperti finora recuperati confermano che la colonizzazione del territorio non è avvenuta solo a partire dalla città antica, ma contemporaneamente in aree periferiche che potevano avere per i Calcidesi una posizione strategica militare ed economica. E la collina di Leucatia risponde a queste esigenze, tant’è vero che fu abitata da uomini primitivi che sfruttarono le sorgenti d’acqua e la naturale posizione di difesa del sito. Le conoscenze raggiunte permettono, inoltre, di affermare che non solo l’area ricopre un interesse archeologico di gran pregio in quanto testimonianza diretta d’insediamenti indigeni pre-coloniali, ma anche dell’appartenenza del monumento funerario a una vasta area di necropoli di epoca romana asserita lungo la direttrice della Catania-Messina. Un’altra importante annotazione è che l’attuale area era un’impenetrabile selva di querce e pini. In epoca romana, la legna ricavata da quei boschi, una volta trasferita nei cantieri dell’Urbe, servì in gran parte per la costruzione della flotta navale romana (Tutte le notizie relative alla collina Leucatia sono tratte da un articolo pubblicato dal prof. G. Sperlinga su Cataniacultura).
Un discorso a parte merita l’acquedotto romano (vedi). L’acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo. Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma, mentre è in Bolano la prima descrizione dell’acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera e nel secolo successivo Vito Maria Amico e Ignazio Paternò Castello descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico, tuttavia le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e separata in due ambienti da un alto divisorio, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci ne ipotizza una portata di 46 zappe. L’ingegnere Luciano Nicolosi pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l’aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l’esterno, come per l’interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell’acquedotto. Nel 1964 l’archeologa Sebastiana Lagona ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell’analisi dell’edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell’auditorium “Don L. Milani” di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l’acquedotto catanese come tema principale, a cura dell’organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell’Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania. Per l’approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l’abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d’acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi – l’Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano – o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell’Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (…) adatti alla coltura. Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite. Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania. La presenza della grande struttura è certa solo dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino. Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell’antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l’esigenza di un tale monumento. L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l’eruzione del 253 e una lapide – rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva – ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po’ di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l’uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all’attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata “con ordinate lastre”, cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio. L’eruzione dell’Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi). Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.Il tracciato dell’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono quattro diverse sorgenti che venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente – sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura – un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all’interno delle condotte e conservate dall’Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro convento. Queste lamine per l’Amico dovevano ricoprire l’intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall’usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius. Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km. Qui da una quota di terra 369,50 m.s.l.m. si giunge a circa 347,50 m.s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell’acqua va da quota 368,00 m.s.l.m. a 349,75 m.s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi. Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell’acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l’acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell’abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private etc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l’Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il convento benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all’esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto <>. Leggende. Molte porzioni dell’acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L’uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari – non scritte, ma tramandate oralmente – come diverse storie legate alla figura di Sant’Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l’immensità del suo amore – non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio – fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all’identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu.
Attualmente esistono tre testimonianze a Catania dei resti dell’acquedotto romano. Di fronte l’ospedale Nuovo Garibaldi, dietro il liceo Spedalieri e in via Grassi in un orto privato (vedi mappa).
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p.s. Dove non citato si devono assumere come fonti l’enciclopedia on line Wikipedia e il testo Catania antica di Antonio Scifo Alma Editore.