Il ponte romano di Pietralunga

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1779128_10202635896532999_818019238_nI romani furono abilissimi maestri nella costruzione di ponti, acquedotti e strade e anche di imponenti teatri, circhi e anfiteatri. Due sono le cose principali che la civiltà romana ha lasciato all’umanità: le leggi e le strade. Leggi e strade che resistono fino alla nostra epoca ; il Diritto romano è ancora parzialmente presente nelle legislazioni di mezzo mondo e il suo studio fa parte degli atenei; le strade e i ponti, come gli acquedotti, sono ancora utilizzati spesso per i medesimi scopi per i quali furono costruiti due millenni fa. In ogni caso la loro resistenza alle dure leggi della corruzione del tempo ci dimostra come i nostri antichi avi costruissero per sfidare i secoli. Gli antichi romani avevano capito che per amministrare e controllare il loro immenso impero avevano bisogno di muoversi con facilità e sicurezza e i ponti erano gioco-forza gli elementi di continuità oltre gli sbarramenti naturali. Nei momenti bellici e in caso di urgente necessità, erano capaci di costruire un ponte in legno, per far passare i soldati oltre un fiume , in un solo giorno.Usavano leve, puntelli, argani, carrucole in modo talmente appropriato e coerente che alcune soluzioni tecniche ci sono tuttora sconosciute.Osservare i maestosi resti dell’acquedotto Claudio nella campagna romana, l’imponente Colosseo dell’Urbe o l’Arena di Verona come il monumentale ponte–acquedotto sul Gard vicino Avignone o altri simili costruzioni in altre parti dell’Europa o dell’Africa del nord, ci dimostrano la volontà costruttiva e il livello tecnico raggiunto dalle maestranze latine di quel periodo.La cupola del Pantheon di Roma è ancora l’opera più ardita a cui si guarda ogni volta che bisogna costruire una cupola. Il ponte di Pietralunga si collega con la conquista romana della Sicilia avvenuta con la prima guerra punica per strappare Messina ai cartaginesi nel 264 a.C. Conquistata l’isola si iniziarono le costruzioni pubbliche e le strade avevano la precedenza. La Sicilia sappiamo che era il granaio di Roma e trasportare il necessario cereale dall’interno necessitava di strade ampie e sicure.Il ponte infatti collegava Catania con l’interno attraverso Paternò e Centuripe e poi fino ad Enna. Antichi studiosi come Ignazio Paternò Castello accennavano al suddetto ponte già nel 1781 e poi anche il reverendo e compianto Gaetano Savasta nel suo libro “ Memorie storiche della città di Paternò” nel 1905 ; anche se l’antico eponimo di “coscia del ponte” si richiamava all’antico manufatto, per secoli l’arcata romana è stata praticamente seppellita dalla rena del fiume e dal silenzio. Il sottoscritto a seguito delle ricerche superficiali della zona notò la costruzione abbandonata e seminterrata. Più di una volta resistette alla tentazione di meglio osservare il torrione di pietre e conci che leggermente si intravedeva dalla riva del Simeto e quando si decise a toccare con mano di cosa si trattasse rimase quasi incredulo: Un ponte romano a Paternò. Mi ricordai che tanti anni prima, durante una piena del fiume, era venuta alla luce sulla sponda destra e quasi attaccata all’attuale margine, una antica strada romana che puntava verso nord-ovest, verso cioè Centuripe, sfruttando inizialmente la sponda destra del Simeto. All’inizio non seppi dare ragione e mi ero convinto per lungo tempo che doveva trattarsi della via di collegamento all’insediamento greco-romano do Pietralunga sul mone Castellaccio ma in effetti era un’opera troppo impegnativa per il relativamente piccolo insediamento di quei bassi monti . Adesso invece tutto era chiaro: le basole di calcare ben squadrate che sottocosta viaggiavano quasi a confine con il fiume continuavano sulle arcate. Una strada perciò non a mezza costa ma più bassa e il fatto che sia il ponte che le basole non sono ora vicini all’acqua fanno pensare che il corso del fiume poteva essere all’epoca leggermente spostato a sinistra.Del rinvenimento feci partecipe il prof. Angelino Consolo che ne diede notizia sul quotidiano La Sicilia domenica 27 agosto 1989. A seguito di ciò e anche per l’interessamento del gruppo locale di archeologia la Soprintendenza si mosse e iniziarono finalmente gli scavi.Il ponte giace su una potente massicciata che fa da base ai piloni e di conseguenza alle arcate.Una finestra a botte serviva a far defluire eventuali piene e un pronunciato sperone avanzato serviva da frangiflutti.Mi hanno colpito i conci della volta interna: poggiano a secco e sono in strati e alcuni in alto sono bugnati all’interno e presentano un incastro tipo coda di rondine.Fa contrasto l’esatta precisione dei blocchi faccia-vista con il riempimento a sacco dell’interno; ma questa era una tecnica tipicamente romana.Il ponte non è eccessivamente alto è questo potrebbe essere stato l’errore compiuto nella sua costruzione che non ha dato eccessivamente peso ai rari ma presenti periodi di piena del fiume durante talune stagioni invernali. Osservando però bene la potenza della struttura sembra difficile – anche se non impossibile -– che la forza del fiume sia stata capace di distruggere le arcate.In questi casi comunque , una strada ormai costruita pretende una riparazione e non un abbandono di una simile e ardita costruzione. Piuttosto facile pensare che il ponte ha subito la distruzione in epoca medievale antica come forma difensiva- passiva per impedire l’avanzata di eserciti invasori – tesi che viene avvalorata dall’Ansaldi nelle sue memorie storiche su Centuripe – e che la zona sia stata poi in un certo senso abbandonata , per la costruzione di un ponte più a nord di Pietralunga e di conseguenza siano poi caduti in incuria sia il ponte e che la relativa strada. Anche se l’altezza del manufatto non è elevata, la sua larghezza 4,15 metri ( 14 piedi, un piede era lungo 29,64 cm),è quella classica di una strada romana, capace cioè di far transitare due carri e permettere loro di rimanere in carreggiata. I costruttori romani cercavano quasi sempre di mantenere le misure standard ma esistono strade larghe appena poco più di un metro fino a sette. Autore della costruzione o perlomeno interessato alla sua costruzione dovrebbe essere stato , intorno al 164 d. C. il curatore delle cose pubbliche di Catina ( Catania ) Giulio Paterno (Soraci/La Sicilia in età imperiale/Minerva Editrice).La costruzione perciò sarebbe di epoca imperiale.Egli prende l’iniziativa di inviare una lettera a Lucio Vero e Marco Aurelio (coimperatori 161-180 d. C.) con la quale lamenta la necessità di finanziare alcune opere pubbliche catanesi.Il patronimico Paterno potrebbe essere alla base del toponimo di Paternò,scrive Nino Tomasello; ricordando che sino al XVI d.C, (vedasi il libro cassa delle Benedettine di Paternò), la datazione degli acquisti del Monastero riporta Paterno e non Paternò, cioè senza accento.Insomma così come la Regina Viarum – com’era chiamata la Via Appia nell’antichità – che fu costruita nel 312 a. C. dal censore Appio Claudio Crasso e da lui ne prese il nome, così il Procuratore Generale di Catania, ” curatores rei pubblicae” Giulio Paterno dette, quasi sicuramente, il nome alla strada e al centro abitato di Paternò, strada che da Catina arrivava oltre Centuripe passando per Paternò.Più che il ponte quindi, che risulta svincolato dal centro urbano, è la strada che passa proprio per il baricentro del paese tra il cardo e il decumano che si incrociano nell’attuale piazza ” Quattro Canti” a dare il nome alla città di Paternò. Recuperato il manufatto è giusto e doveroso ora curarne la fruibilità e lo stato di visibilità.Potrebbe rendersi necessario creare un itinerario storico e pubblicizzarlo sia alle scuole come ai normali visitatori stagionali della città.Utile transennare l’area e periodicamente darle una semplice manutenzione per evitare che erbacce e sabbia ricoprano la nostra oltre bimillenaria “coscia di ponte”; altrimenti risulterebbe un lavoro sprecato, fatto quasi per niente.
Da http://digilander.libero.it/archeopaterno/

Foto di Michele Torrisi

Sito Etnanatura: Ponte Romano di Pietralunga.

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Il pozzo di Ruggero

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27-01-2014 15-13-03La tradizione narra che in prossimità di Giarre nella odierna frazione di Santa Maria la Strada il Gran Conte Ruggero, mentre andava contro un esercito saraceno, invocò l’aiuto della Madonna e fece voto, in caso di vittoria di erigere un Santuario ed un pozzo. Ottenuta lla vittoria il conte mantenne il voto ed edificò sia il Santuario che una cisterna. Da allora il pozzo è stato chiamato di Ruggero ed il Santuario è stato meta di pellegrinaggi sino ai nostri giorni. Di questa bella leggenda non vi è alcuna conferma storica ed è possibile che la tradizione sia da collegarsi alla intensa attività di riconversione al cristianesimo avvenuta nel primo periodo normanno in Sicilia (XI secolo). L’attuale chiesa è di stile settecentesco siciliano. Sul pozzo, che è di incerta datazione e si trova proprio di fronte al santuario, vi è una lapide di marmo a ricordo del gran conte normanno. Da Wikipedia.

Sito etnanatura: Pozzo di Ruggero.

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La cisterna della regina

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534098_625864044133503_674626593_nLa Cisterna della Regina è una grande cisterna idrica appartenuta ad una tenuta reale del XIV secolo insistente nel territorio comunale di Belpasso, presso la contrada Regina Coeli.La tenuta comprendeva una villa ed un giardino fatta edificare da Eleonora d’Angiò, consorte del re Federico III di Aragona, dopo la morte del marito, avvenuta nel 1337. La villa si trovava nelle vicinanze dell’antico monastero di San Nicolò l’Arena, i cui monaci riservarono alla regina una cella per la preghiera per la contemplazione, e dove morì il 9 agosto 1345. La regina ebbe con le terre a nord di Malpasso (città dello Stato di Paternò, da cui ebbe origine poi l’odierno abitato di Belpasso) un rapporto molto stretto, e come lei i molti notabili del regno di Sicilia.
Le rovine della tenuta sono oggi comunemente denominate della Cisterna Regina e si trovano a nord-est di Belpasso. Del vecchio fabbricato è rimasto ben poco; questo sorgeva in una zona in dolce declivio solcata dalle acque del fiume Piscitello.
La villa nel 1910 venne investita da un braccio di lava che sommerse la parte più importante del caseggiato e l‘enorme cisterna che raccoglieva le acque piovane. La colata si arrestò proprio sul luogo in cui sorgeva la villa.

Testo tratto da Wikipedia

Foto di Salvo Nicotra

Sentiero etnanatura: Cisterna della regina.

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Acquedotto Biscari

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1908234_623793697673871_414969031_nL’acquedotto Biscari è un documento “vivente” della Contea adornese dei Moncada, l’ultima architettura di età aragonese e “precircondariale” di età borbonica. Simboleggia la fine di un secolo di splendore urbanistico e architettonico, che non ha riscontro nei secoli passati nella cittadina etnea. In questo secolo di “ripresa architettonica” si deve inquadrare anche quella economica, basata sull’agricoltura e sul commercio, che furono il vero motivo per cui fu costruito l’acquedotto, per iniziativa del Principe Biscari, Ignazio Paternò Castello, di cui rimane il nome. L’acquedotto-ponte fu costruito per la prima volta nel 1761-1776 e in una seconda volta nel 1786-1791. La condotta è costituita da 31 archi uniformi a sesto acuto che si sviluppano per centinaia di metri, di varia grandezza e altezza che attraversano le ripe del fiume per una lunghezza di circa 1330 piedi (400 metri) e con un altezza di circa 40 metri. L’arco principale, infatti, appena ogivato, ha un altezza di “130 piedi” (40metri). Sull’acquedotto e sulle sponde venne appoggiato un secondo ordine di archi che raggiunse la lunghezza di 360 canne (circa 740 metri). Il costo complessivo dell’opera fu calcolato in 100.000 scudi.
Da https://www.facebook.com/notes/antonio-barrasso/adrano-lacquedotto-biscariil-principe-ipcastellola-coltivazione-del-riso-e-un-te/10152039493622994
Foto di Salvo Nicotra.
Sito Etnanatura: Acquedotto Biscari.

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Il castello, il Neck, l’ulivo millenario e il Sieli

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16-02-2014 11-42-16Quella che vi proponiamo oggi è una passeggiata nella storia geologica, ambientale e umana dell’Etna. Senza rispettare la cronologia partiamo dal Castello di Motta (vedi), un torrione normanno, costruito su una preesistente struttura araba dal gran Conte Ruggero d’Altavilla. La torre è stata edificata come postazione difensiva sulla cima di un vulcano preetneo: il Neck (vedi). Si tratta di un cono vulcanico nato circa 500.000 or sono riempito da magma che non è fuoruscito e non ha provocato una colata lavica. Forse è l’unico esempio di “neck” in Italia. Altri esempi di questo tipo si trovano in Francia (Le Puy en Velais), in Algeria (Tamanrasset – Ahaggar) e negli Stati Uniti (Missouri, Montana, Arizona, Utah, New Messico). Per questa peculiarità il nek di Motta si ritrova citato su tutti i libri di geologia. Allontanandoci di poco dal centro urbano incontriamo un vecchio patriarca: l’Ulivo di Motta (vedi). L’enorme albero, vecchio di 1200 anni, si segnala per l’imponenza e la bellezza. Attraversando il torrente Sieli (vedi) si risale sull’omonima collina che presenta una vista incomparabile della rupe col castello, dell”Etna, della valle del Simeto e delle colline di Catania. Al ritorno ritrovate una grotta d’argilla (vedi) unica nel suo genere nel catanese (raccomandiamo di non entrare in grotta in quanto c’è il rischio di cedimento delle pareti).

Come sempre, purtroppo, non possiamo non segnalare alcuni aspetti negativi dovuti alla presenza di un’enorme discarica sul lato opposto della collina e di motociclisti che  usano i sentieri come piste da motocross compromettendo il fragile equilibrio dei posti.

Pagine Etnanatura:

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San Nicola

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995846_10202513200145666_675927073_nE’ una delle più antiche e suggestive chiese di Castiglione. Essa s’innalza proprio sulle sponde del fiume Alcantara, accanto all’antica strada regia che collegava Messina a Palermo attraverso l’interno dell’isola. Sorta in epoca normanna, fu cappella del monastero dei monaci cassinesi che ivi si erano stabiliti. All’interno sono stati scoperti nell’abside anche degli affreschi bizantineggianti d’un certo rilievo: un Cristo Pantacratore con i dodici apostoli e, sulle pareti laterali, un’immagine della Madonna che tiene in braccio il bambino Gesù. L’affresco è molto simile a quello della Madonna del Pileri di Randazzo (sec. XI) che si trova nella chiesa di Santa Maria , con la differenza che l’una tiene il bambino col braccio destro l’altra col sinistro. Nei pressi della chiesa, in Contrada Marca, nel Settembre del 1989 venne alla luce una Tomba Sepolcrale della Tarda Eta’ del Rame – inizio del Bronzo Antico. Nella galleria sotterranea di circa quindici metri lunga fu rinvenuto il seguente materiale archeologico: 1) Cospicue quantità di ossa umane depositate ad unico livello di deposizione funebre; 2) Un teschio con quattro lame di selce al disotto; 3) Quattro vasi, di cui uno non più ricomponibile, uno intatto e due già ricomposti, quindi in discrete condizioni. Tali ritrovamenti ci portano un po’ indietro nel tempo, allo sviluppo del “Castellucciano Maturo”, e dunque più accostabile allo stile di S. Ippolito, che va dal Neolitico, all’ultima Età del Rame, mentre il Castelluccio risalente alla prima Età del Bronzo, fa sviluppare nella Sicilia Meridionale le caratteristiche abitazioni rurali di piccole dimensioni. Questo periodo dell’Eneolitico è caratterizzato dal modo in cui lavoravano la ceramica e cioè che l’impasto ricavato era di colore bruno, mentre la superficie dei manufatti veniva colorata in rosso corallo; ed il modo in cui venivano disposte le anse per la presa. Notizie tratte da Castiglione_di_Sic e da Comune di Castiglione di Sicilia.

Foto di Etnanatura, Michele Torrisi e Gaetano Di Stefano

Sentiero Etnanatura: San Nicola.

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San Marco

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Sentiero Etnanatura: San Marco.

Si deve alla passione e alla sensibilità dell’amico Michele Torrisi la scoperta di questa chiesetta rurale in territorio di Malvagna. Difficile reperire informazioni attendibili, alcune fonti la datano al 1500 altre al 1700. Lo stato di abbandono e l’ingenuità amorevole degli affreschi la rendono di una struggevole ancorché violata bellezza.

Foto di Etnanatura e Michele Torrisi.

Sentiero Etnanatura: San Marco.

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IL castello degli schiavi: dalla leggenda al Padrino

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Castello_degli_schiavi_20100207 005Il Castello degli Schiavi, gioiello del barocco rurale siciliano del 1700, è ubicato sulla via Marina (anticamente Via Mulinelli), che da Fiumefreddo di Sicilia scende verso Marina di Cottone. Il nome del castello proviena da una leggenda. Si narra che, circa due secoli fa, un abile medico palermitano, certo Gaetano Palmieri, salvò da una gravissima malattia il figlio del Principe di Palagonia, il Gravina-Crujllas, e che questi, grato, gli donò un appezzamento del suo feudo situato vicino al fiume Fiumefreddo. Il Palmieri volle costruirvi una villa fortificata per abitarla per lunghi periodi dell’anno anche perchè quel luogo era molto gradito alla bella moglie, Rosalia, che amoreggiava, però, con un certo Nello Corvaja di Taormina. Un giorno, purtroppo, sbarcarono dei pirati turchi, i quali si diedero al saccheggio e, giunti al castello, rapirono i due proprietari; ma, mentre stavano per arrivare alla spiaggia per fuggire furono raggiunti da alcuni giovani armati, con a capo il Corvaja (che dall’alto di Taormina aveva visto approdare le tristi galere). I pirati furono così uccisi o vennero messi in fuga ed i Palmieri liberati. Per ringraziare il Padre Eterno fu eretta una chiesetta, accanto al castello, dedicata alla Madonna della Sacra Lettera, e fu costruita la loggia nella quale vennero poste le due statue di turchi, che sembrano guardare ansiosi verso il mare, come in attesa di essere liberati dai loro compagni, ed è proprio grazie a queste due statue che il Castello è stato soprannominato “degli Schiavi”. Il castello è oggi di proprietà della Famiglia Platania, baroni di Santa Lucia. All’ingresso del castello vi è un maestoso portale con un arco di pietra lavica raffigurante, al centro, un saraceno dal viso arrabbiato, sormontato da una conchiglia tipica del migliore barocco catanese di quel periodo. L’arco poggia su due false mensole che stanno come a sostenere i due laterali lavici del portale. Tutto il portale alterna rettangoli spianati (con una linea chiusa incavata per tutto il perimetro, posta all’interno di questo di 2,5 cm.) con altrettanti aventi una piramide, atipica al vertice, in rialzo. Appena entrati si viene subito colpiti dalla loggia (alta 3 metri e larga 4,5 per 3 metri) presente sulla sommità del castello, dalle cui aperture stanno “affacciate” le caratteristiche statue dei due mori e dalla quale il padrone delle terre poteva controllare i lavori nei campi. Gli interni della villa sono formati da un piano inferiore collegato con lo scantinato, dove non sembra esserci traccia di palmento, ma era, ed è, un luogo fresco dove mantenere a buona conservazione cibi e vini. In questo suggestivo ambiente è presente una botola, dalla quale inzia un passaggio sotterraneo che portava probabilmente alla Torre Rossa di FIumefreddo. Proprio la suggestione che promanano questi ambienti sotterranei nel 1998 Franco Battiato lo scelse come per la produzione del video musicale Schock in My Town. Al piano superiore troviamo otto stanze, ricolme di pregevoli oggetti: quadri di antichi signori, lo stemma dei Gravina in toson d’oro di Spagna, la bandiera con lo stemma dei Savoia, libri di pregio, mobili del secolo scorso. Il castello gode di un ampio cortile dove è presente un pozzo, al centro di esso, e la chiesetta, anticamente dedita al culto di San Giovanni, edificata nel 1544 da Ferdinando Gravina-Crujllas, così come si legge nella lapide posta all’ingresso. In seguito, nel 1840 circa, la chiesetta fu dedicata al culto della Madonna della Lettera. Il Castello degli Schiavi è famoso in tutto il mondo perchè è stato utilizzato più volte come set cinematografico. Nel 1968 Pier Paolo Pasolini vi girò alcune parti de L’orgia; raggiunse la fama mondiale grazie a Francis Ford Coppola che lo preferì per l’ambientazione delle scene principali de Il Padrino, sia parte I (1972) che II (1974), come l’indimenticabile esplosione della macchina dopo il matrimonio. Da http://www.icastelli.it

Pagina etnanatura: Castello degli Schiavi.

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M’illumino di meno

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illuminoEtnanatura, da sempre sensibile alle problematiche legate alla salvaguardia dell’ambiente e al risparmio energetico, aderisce convintamente all’iniziativa “M’illumino di meno” della trasmissione radiofonica Caterpillar. Invitiamo tutti gli amici di Etnanatura ad attivarsi per promuovere una politica ecologica basata anche sul risparmio energetico. Chiediamo simbolicamente a tutti di spegnere il maggior numero di elettrodomestici la sera del 14 febbraio, data che ricorda la stipula del protocollo di Kyoto.

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