La fondazione dell’eremo ad opera del frate eremita Rosario Campione da Acireale, avvenne nel 1751. Successivamente grazie a fra’ Gioacchino Maugeri e fra’ Giovanni Battista Strano nacque l’omonima comunità agricola. L’impianto originale era composto da una chiesetta con due piccoli vani, immersi nella vegetazione a cui si aggiunse in seguito una grande cisterna per la raccolta delle acque. Nel 1756 vennero aggiunte le celle e la cappella grazie alla collaborazione di Alfio e Concetto Grasso.
Archivio mensile:Febbraio 2015
Monastero sant’Antonio
A sud del centro storico di Mascalucia, all’interno del cimitero centrale, si trova un tempio di stile gotico antico la cui architettura risale ai primi tempi dei Cristiani in Sicilia. La sua architettura originale pare risalga ad epoca anteriore alla venuta dei Saraceni (anno 827). Sicuramente doveva far parte della giurisdizione dei P.P. Benedettini a quell’epoca diffusi in tutta l’isola. Attraverso la donazione di Tertullio, padre di San Placido, erano entrati in possesso dì immensi beni, tra cui molte terre nei dintorni di Catania In seguito appartenne all’Ordine dei Cavalieri Gerosolimitani, ed essendo unica chiesa, tra le contrade etnee, fu parrocchia dei paesi limitrofi quali San Giovanni Galermo, Gravina, Tremestieri etc..
Basilica di monte Po
Si tratta un’antica basilica bizantina. La chiesa dovrebbe essere datata fra la seconda metà del VI secolo e la prima metà del VII. Si sviluppa secondo quattro quadrati di cui tre comprendono il corpo delle navate e il quarto lo sviluppo dell’abside. Purtroppo poco o altro si è riusciti a comprendere e interpretare e i pochi resti rimasti, inaccessibili perché interni ad un cortile privato, meriterebbero sicuramente un approfondimento per ricostruire la storia delle prime comunità cattoliche catanesi.
Il santo e il professore
Il santo è Sant’Egidio, protettore di Linguaglossa, il Professore è Santo Calì, anch’egli di Linguaglossa. Anche in questo racconto di Marinella Fiume il motivo ispiratore ruota intorno all’Etna.
La statua lignea del Santo era stata collocata in una piazza all’ingresso del paese, proprio di fronte all’Etna, il giorno in cui la colata lavica sembrava minacciare l’abitato di Linguaglossa e, come un serpente che tutto fagocita, divorava le strutture sciistiche e alberghiere di Piano Provenzana insieme a un pezzo di quella pineta di pini larici per cui la città era famosa meta di villeggianti. Il fronte più avanzato camminava nell’ alveo del torrente Sciambro con una velocità di 3-4 metri al minuto.
Galleria drenante Aci Castello
Ubicata in area marginale appena a monte di Aci Castello. Si tratta di una galleria drenante di circa 30 metri di lunghezza, larga 1 metro e alta 1,5 metri, scavata nei “pillow lava” e rivestita di blocchi di pietra lavica, tranne i primi due metri dove le pareti sono state intonacate. Il soffitto è fatto con grossi blocchi lavici inclinati e contrapposti a “V” capovolta. Nell’ultimo tratto si divide in due gallerie che planimetricamente disegnano una “U”. Nel tratto finale le pareti non sono state rivestite con i blocchi.
Pagina realizzata in collaborazione con “Cavità antropiche e naturali dell’area di Catania“.
Foto e testo di Filippo Musarra.
Pagina Etnanatura: Galleria drenante Aci Castello.
Cuba Imbisci
Nessun dato storico aiuta a collocare cronologicamente il piccolo edificio religioso di contrada Imbischi. La piccola chiesa di contrada Imbischi sorge limitrofa al corso del fiume Alcantara. Tutt’intorno si intravedono resti architettonici reimpiegati in muretti a secco o in edifici rurali. Questo riutilizzo testimonierebbe un’ampia frequentazione dei luoghi ove sorgeva la chiesetta che certamente non giaceva isolata, ma inserita in un contesto abitativo ormai scomparso. L’edificio è orientato ovest/est e possiede una pianta rettangolare. Ad oriente si trova un abside semicircolare con catino emisferico. Il fianco settentrionale è conservato fino all’innesto del soffitto, al contrario di quello meridionale, del quale rimangono solo pochissime assise appena affioranti dall’attuale piano di calpestio. Nessun prospetto si conserva ad occidente.Il piccolo edificio sacro si componeva, all’interno, di un’unica navata, la cui copertura doveva essere probabilmente a volta. All’esterno, le fiancate laterali erano contraffortate e di tali semi pilastri oggi sopravvivono solo quelli settentrionali in numero di tre. Ancora, la lunga parete settentrionale presenta due finestre a forte strombo esterno, internamente caratterizzate da archetti a testa di chiodo. Si tratta di un elemento che, insieme con i contrafforti esterni, accomuna la chiesetta di Imbischi con la Cuba di S. Domenica presso Castiglione. A livello dell’imposta, si possono osservare altre due finestre rettangolari. L’abside è composto da conci di pietra lavica squadrati. La Fronte dell’abside è formata da un ampio arco a tutto sesto composto da blocchi di pietra lavica squadrata non inframmezzata da laterizi e poggiante lateralmente su due pilastrini sormontati da mensole. Non esistono dati certi che permettano una precisa collocazione cronologica della struttura. Si trattava certamente di una chiesa al servizio di una comunità rurale che viveva nei pressi del fiume Alcantara. Attraverso confronti tipologici con alcune strutture consimili, come la vicina Cuba di Castiglione o la basilichetta di Priolo, si potrebbe azzardare una collocazione temporale compresa tra il V/VI e l’VIII sec. d.C. Agli inizi del XX sec. fu Paolo Orsi ad interessarsi di contrada Imbischi [P. Orsi 1907, pp. 496-97] , compiendo alcune esplorazioni preliminari attraverso l’assistente R. Carta, a seguito dei ritrovamenti che oggi compongono la collezione Vagliasindi, esposta al museo di Randazzo. Carta rinvenne numerose sepolture a tegola dislocate per la maggior parte in contrada S. Anastasia (odierna contrada Feudo?) e nella limitrofa contrada Imbischi osservò la basilichetta che venne prontamente fotografata dal fotografo Rizzo (utilizzando presumibilmente una folding a lastre o “ibrida”, cioè con dorso predisposto per lastre o pellicole). Dalla visione delle fotografie Orsi dichiarava le sue preplessità relative alla datazione della chiesa, dubitando se si trattasse di una struttura risalente al periodo bizantino o normanno.
Giuseppe Tropea da medioevosicilia.eu
Pagina Etnanatura: Cuba Imbisci.
Su Etnanatura vedi anche “Le cube“.
Foto di Salvo Nicotra
Castello di Cassibile
Poco o nulla si conosce delle origini del Castello della marchesa di Cassibile. Le prime fonti risalgono al XIV secolo. L’area in cui fu costruito il castello, quasi al margine dello sperone roccioso, è stata interamente occupata nel sec. XVIII da una costruzione, di cui resta solo una parte del pianterreno, su cui nel secolo successive fu costruita una villa in stile neoclassico. Queste due fabbriche hanno cancellato o inglobato quanto restava della fortificazione, cosi che niente di essa ci e pervenuto che possa essere riconoscibile, ad eccezione, forse, di una cisterna con collo circolare, la cui vera venne graziosamente inserita nella facciata della villa. Dei blocchi di arenaria squadrati, giacenti nelle vicinanze, potrebbero essere materiali di risulta della distruzione del castello.
Foto di Francesco Marchese
Sentiero Etnanatura: Castello Marchesa di Cassibile.
M’illumino di meno
Anche quest’anno Etnanatura, da sempre sensibile alle problematiche della salvaguardia ambientale, aderisce alla giornata “M’illumino di meno” della trasmissione telefonica Caterpillar, per promuovere un consumo intelligente dell’energia, contro ogni spreco ed abuso. Il 13 Febbraio siamo tutti invitati a spegnere simbolicamente le luci delle nostre case e delle nostre città.
Torre dell’Acquafredda
Definire i lineamenti storici di un edificio di piccole dimensioni all’interno del complesso avvicendarsi degli avvenimenti, che nei secoli hanno caratterizzato e coinvolto l’intero territorio di Randazzo e la Valle dell’Alcantara, risulta alquanto complesso. Si sconosce con esattezza la data di edificazione della torre, presumibilmente innalzata intorno al XVI, secondo quanto è possibile evincere dalla contemporanea feudalizzazione di buona parte dei territori demaniali dell’abitato di Randazzo. La limitrofa contrada S. Anastasia figura già alla fine del XV sec. come possesso dei monasteri di S. Filippo il Grande o di Fragalà e del S. Giorgio di Gesso [D. Ventura 1991, pag. 240]; circa nello stesso periodo la contrada Acquafredda, oggi sita all’interno del territorio di Castiglione, rientra all’interno dei beni feudali della famiglia Lanza, la quale a partire dal XVI sec. detiene la baronia del vicino abitato di Mojo [D. Ventura 1991, pag. 250]. Conferma la progressiva infeudalizzazione di questa importante parte della valle dell’Alcantara un passo dell’opera di Filoteo degli Omodei, che nel 1557 ricorda: “ … E’ la Roccella un castelletto sopra fortissimo monte, del barone di casa Spatafora. E ricevendo questo fiume, lascia nel destro lato un’antica rocca chiamata la torre dell’Acqua fredda, di casa Lanza, dove si vedono alcune rovine…”[A.F. Omodei 1557, pag. 51]. L’ “antica rocca chiamata la torre dell’Acqua Fredda” sembrerebbe corrispondere all’attuale torre, sebbene nella descrizione il Filoteo ecceda negli aggettivi, definendola sia antica, sia rocca, lasciando dunque intendere che si possa trattare di un edificio più grande e di origini sicuramente precedenti al periodo in cui lo storico scriveva. Dei ruderi che lautore sosteneva di osservare limitrofi all’edificio fortificato, oggi si è persa traccia, fatta eccezione per la vicina basilichetta altomedievale. Filoteo degli Omodei ricorda altri edifici turriti presenti nel territorio circostante : “… Quindi dalla man sinistra (sei miglia tra Randazzo e Castiglione), tra l’Appennino e il Mongibello, vi è un territorio detto della Fede, feudo nominato il Moggio, dove oggi è una torre fondata a tempi nostri da D. Pietro Lanza, baron del Moggio…”[A.F. Omodei 1557, pag. 52-53]. La torre di Pietro Lanza era l’edificio residenziale principale della nobile famiglia, edificato al centro dell’abitato di Mojo e del quale oggi non rimane praticamente nulla, sebbene fosse ancora esistente agli inizi del XX sec. Il paese di Mojo, comunque, ha origini ben più antiche: Edrisi, nel 1150, testimonia l’esistenza di uno castello o borgo fortificato (hisn), “somigliante ad un piccolo casale” e definendolo al-Mudd (Mojo)[M. Amari 1880/81, vol. I pag. 116]. Agli inizi del XIV sec. all’interno del testo arabo Masalik al-Absar [M. Amari 1880/81, vol. I pag. 263] tra le rocche di Sicilia si cita Mojo, che stranamente alla fine dello stesso secolo non esiste più né come località, né come feudo [G.L. Barberi 1888, pag. 127]. Solo nel 1602 risorge come nuovo abitato, avente licentia populandi. Presumibilmente altre torri dovevano trovarsi sparse lungo il territorio di Mojo, tutte edificate in tempi vicini, già a partire dalla fine del XVI sec. Lo scopo di questi edifici doveva essere duplice: certamente di primaria importanza era il controllo continuo dei beni feudali; in secondo luogo tali edifici dovevano essere anche una dimostrazione di forza del potere baronale nei confronti degli abitanti del feudo e, più o meno direttamente, dei possedimenti demaniali dell’abitato di Randazzo. In effetti l’avanzare del latifondo e in generale l’appropriazione di territori un tempo semplicemente beni ecclesiastici o beni demaniali della città di Randazzo inizia nel XV sec. e prosegue inesorabile lungo i sec. XVI e XVII. Fra i feudi baronali, il più esteso risulta quello della “Foresta della Porta vecchia” [D. Ventura 1991, pag. 242], il quale per lungo tempo conserva una straordinaria compattezza territoriale e ai giorni nostri risulterebbe compreso tra i comuni di Bronte, Longi e Tortorici. Il feudo, in principio possesso di Matteo Palizzi e in seguito di Guglielmo Raimondo Moncada, si presenta composto da sette “marcati” e rimane indiviso fino al 1449, anno in cui le famiglie proprietarie dei Paternò e dei Santangelo procedono ad una spartizione. Quattro marcati, le contrade Triairi, Botti, Foresta Vecchia, Mangalaviti, tra Randazzo, Bronte e Longi, finiscono nelle mani dei Santangelo; i rimanenti tre, Cartolari, Barrilla, Acquasanta, insistenti su porzioni di territorio a nord di Randazzo, tra Longi e Tortorici, vanno ai Paternò, i quali finalmente li cederanno nel 1507 a Blasco Lanza, barone di Mojo. Dunque già agli inizi del XVI sec. avviene nei confronti di Randazzo un ideale accerchiamento dei suoi territori demaniali da parte della famiglia Lanza, la quale di anno in anno pare vantare sempre più estesi territori. In questo quadro storico, ove la terra risulta l’unico vero bene per il quale lottare accanitamente, la città regia conserva solo alcuni possedimenti demaniali, che ad oriente confinano con Castiglione, i Lanza e i terreni di proprietà ecclesiastica: principalmente si tratta del territorio di Montelaguardia[D. Ventura 1991, pag. 240 e 245], oggi solo piccolo abitato, ma un tempo probabilmente vantava una superficie più estesa, confinante con Castiglione e col feudo ecclesiastico di S. Anastasia, e di un noccioleto tra la terra di Castiglione e contrada Ianazzo, quest’ultima limitrofa ad Acquafredda e S. Anastasia. La torre di Acquafredda sorge su di un affioramento di roccia lavica lungo la sponda meridionale del fiume Alcantara, in un territorio compreso tra Castiglione e Randazzo. L’edificio è realizzato attraverso una muratura sommaria, composta da pietrame vario, generalmente di origine lavica, non sbozzato e legato insieme da una malta tenace. Solo i cantonali si presentano leggermente rinforzati da alcuni conci di pietra lavica sommariamente squadrati. La struttura possiede una pianta quadrata leggermente irregolare e si divide in due piani: al pian terreno si osserva solo l’ingresso, rivolto a settentrione, largo poco più di m. 0,50, e caratterizzato da strombatura interna. Si accede al primo piano per mezzo di una scala interna lignea, un tempo presumibilmente mobile, ai giorni nostri sostituita da una permanente. Questo secondo piano si distingue per la presenza di quattro ampie finestre quadrangolari, ciascuna delle quali rivolta verso uno dei punti cardinali: le finestre di meridione e occidente risultano murate. Inoltre si può osservare la presenza, poste ai lati dei finestroni, di alcune saettiere, che possiedono una strombatura non molto accentuata. Tali saettiere sono in realtà cieche, poiché il loro necessario sbocco esterno è stato del tutto ostruito, causa i pesanti rifacimenti esterni che nei secoli hanno afflitto la torre. La copertura della struttura è a doppio spiovente, composto da tegole disposte alla maniera “laconica”. Inoltre il tetto è arricchito da una merlatura a coda di rondine decorativa posta similmente ad acroteri: quattro merli sono angolari, due centrali. Inoltre essi si impiantano sulle tegole di copertura, elemento che farebbe pensare ad un’aggiunta successiva di questi elementi architettonici. L’intero corpo di fabbrica pur possedendo unità edilizia, è, comunque, il frutto di alcuni rifacimenti e rimaneggiamenti attuati in epoche successive. La torre sembra, infatti, aver subito adattamenti nella funzionalità abitativa di volta in volta simili, ma non identici. Per prima cosa l’ingresso, composto da bei conci di pietra lavica, si presenta sorretto da un architrave basaltico e monolitico, poggiante a sua volta a sinistra su di un concio di pietra lavica avente verso l’interno una sagomatura ad arco di cerchio; a destra, in realtà doveva esservi la medesima soluzione architettonica, adesso perduta e semplicemente sostituita in malo modo da alcuni laterizi sovrapposti. Poco al di sopra dell’architrave si osserva un’ampia parte mancante della muratura, presumiblmente causata dall’asportazione di un oggetto, quale un tempo poteva essere il blasone della famiglia Lanza. Varcato l’angusto ingresso, si trova un vano quadrangolare privo di finestre o aperture. Risalta solo la soluzione per la divisione dei due piani, operata per mezzo di travi e assi di legno che compongono i pavimento del piano superiore. Si tratta di una soluzione edilizia certamente recente, ma che potrebbe rispecchiare il sistema originale di divisione dei piani. Quale utilità potesse un tempo avere un vano del tutto chiuso, ove l’unico varco per la luce era la porta d’ingresso? Presumibilmente il pian terreno della torre dell’Acquafredda serviva per stipare derrate alimentari, quali cereali, ortaggi, prodotti della natura in genere, anche uva, visto che ad esempio sia il feudo S. Anastasia, quanto quello limitrofo dell’Acquafredda vennero, tra XV e XVI sec. convertiti alla produzione vitivinicola. Il piano superiore doveva svolgere rudimentali funzioni residenziali e di avvistamento. Le grandi finestre, arricchite da una cornice composta da conci ben squadrati di pietra lavica, vennero probabilmente praticate in seguito, quando le necessità abitative non furono più quelle per la difesa del territorio. Presumibilmente nel medesimo periodo in cui vennero ricavate le finestre, vennero ostruite anche le saettiere, forse non più utili. Le pareti interne di entrambi i piani risultano coperte in maniera uniforme da un intonachino grigiastro, risultato di rifacimento recente, che ha trasformato la torre prima in una sorta di magazzino temporaneo di attrezzi agricoli, in seguito, fino ai giorni nostri, in un rifugio temporaneo per i pastori della zona. L’intera superficie esterna dell’edificio presentava un tempo un rivestimento di colore anch’esso grigiastro, il cui progressivo ed inesorabile disfacimento lascia la nuda muratura della torre all’azione disgregatrice degli agenti atmosferici. In particolar modo il prospetto settentrionale presenta, non lontano dal cantonale di nord-est, una frattura, risultato o di un progressivo cedimento strutturale, o di un terremoto, evento non infrequenti nella zona. Anche la stessa solidità dell’edificio si basa più che nella tecnica edilizia e nello spessore della muratura, non oltre i 0,70/0,80 m., soprattutto nelle fondamenta praticate su di uno sperone di roccia lavica più che mai antico e solido. A tal proposito sorge anche il sospetto che un tempo vi potesse essere un tunnel che principiando alla base della rocca, potesse condurre direttamente all’interno del pian terreno della torre. Questa ipotesi non è verificabile, poiché il pavimento del piano terreno adesso è semplicemente il risultato di uno spesso strato di calce. Si è già accennato a due particolari, che questa sezione si promette di approfondire: l’orografia della zona e la presenza di altre torri simili a quella di contrada Acquafredda. Questa zona della valle dell’Alcantara (media valle) si caratterizza per alcune particolarità, che la distinguono rispetto alle sue porzioni limitrofe al mare (bassa valle) o ai Nebrodi (alta valle). I territori che si distendono a meridione del fiume sono il riultato di centinaia d’anni di lavori per cavare dalla dura e nera roccia vulcanica un terreno fertile atto a colture cerealicole e vitivinicole, oltre a frutteti, uliveti e pochi agrumeti. Si tratta di un territorio mediamente irregolare, ove ogni affioramento di roccia lavica rappresenta un ipotetico punto di osservazione. La torre di Acquafredda sfrutta tale peculiarità, che giustifica la sua limitata altezza, non oltre gli otto metri. Il territorio che si stende lungo la sponda settentrionale del fiume Alcantara, possiede caratteristiche decisamente diverse. Si tratta, infatti, di un terreno prevalentemente argilloso, dove il vigneto spesso cede il passo al frutteto e all’uliveto. Questi luoghi sono immediatamente a ridosso dei Peloritani meridionali, caratterizzati da rilievi di circa 1100/1200 m. s.l.m., adatti maggiormente alla pastorizia, e da zone boschive un tempo di gran lunga più estese. L’Alcantara era ed è il vero spartiacque di due ambienti tangibilmente diversi, poiché un tempo le colate laviche, provenienti dai vulcanetti effimeri prodotti dall’attività magmatica dell’Etna, arrestavano la loro corsa contro il violento fluire delle acque del fiume, raramente valicandolo. Ma la memoria di un grande corso d’acqua in grado di arrestare un altrettanto fiume di fuoco oggi è praticamente scomparsa, giacchè l’alveo dell’Alcantara risulta particolarmente ristretto, causa pesanti attività agricole. Esse infatti hanno progressivamente rosicchiato le sponde per ottenere terreno coltivabile, la cui necessità d’acqua ha causato l’ulteriore prosciugamento del fiume in favore di pesanti attività irrigue. In tale maniera la maestosa Valle versa alla stregua di un gigante ferito, bisognoso di profonde cure, che ne risanino le piaghe ormai infette. Qualora questo monito possa sembrare un’esagerazione, giova osservare che il fiume, un tempo colmo d’acqua in ogni stagione, ha ormai assunto un carattere torrentizio. Tutto questo disfacimento ha origini recenti, meno di cinquant’anni. La ricchezza naturalistica della Valle va di pari passo con quella archeologica ed artistica. Aquafredda non è solo la contrada della torre, ma anche un sito archeologico che nei decenni passati ha restituito numerosi reperti di epoca classica, adesso esposti presso il museo Vagliasindi di Randazzo. Anche le limitrofe contrade S. Anastasia e Imbischi sono ricche di storia e ancora ai giorni nostri restituiscono i ruderi di edifici sacri risalenti ad epoca greco-bizantina. La torre dell’Acquafredda non è isolata. La citata descrizione dell’Omodei lascia intendere l’esistenza di strutture turrite in altri luoghi della baronia Lanza. In effetti non molto distante dall’edificio oggetto di studio, ne sorge un altro, esattamente a est-nord-est. La costruzione risulta poco visibile perché inglobata in strutture più recenti. Questa torre presenta caratteristiche del tutto simili a quelle analizzate per l’Acquafredda, sebbene si presenti decisamente più alta, contando un piano in più. Per il resto, pianta, copertura e merlatura coincidono. Purtroppo per osservare un’altra struttura simile bisogna viaggiare molto attraverso la Valle, in direzione orientale, fino all’attuale abitato di Giardini Naxos. All’interno dell’area archeologica che contiene i resti dell’antica colonia greca di Naxos sorge un’altra torre, detta della Vignazza: essa presenta uguale pianta, uguale copertura, simile altezza e divisione dei piani (tre) sebbene sia assente la merlatura. La torre della Vignazza inoltre conserva integro l’ingresso, largo 0,50 m. circa e sorretto dal caratteristico architrave monolitico in pietra lavica. Purtroppo quest’ultima struttura, dopo svariati decenni di abbandono, è stata oggetto di pesanti restauri, che hanno del tutto nascosto la muratura, coperta sotto uno spesso intonaco grigiastro. E’ evidente che tali torri fossero il risultato di un’idea edilizia comune ed evidentemente di esigenze diffuse tanto nell’entroterra etneo, quanto lungo la costa. Dovevano svolgere una doppia funzione: di vedetta e di luogo ove presumibilmente stipare derrate alimentari. In effetti queste strutture non posseggono affatto caratteritiche simli alle contemporanee torri di Deputazione, la cui edificazione fu il risultato di un piano ben studiato, rivolto alla difesa delle coste siciliane. Al fine di porre in atto un’opera tanto dispendiosa, vennero dalla Toscana due architetti, Camillo Camilliani [C. Camilliani 1877] e Tiburzio Spannocchi [T. Spannocchi 1993]. Il loro compito, di difficile attuazione, fu quello di una lunga ricognizione dei tre litorali dell’Isola, per scoprire luoghi adatti per edificare grandi torri di avvistamento. Esse avevano caratteristiche comuni: base scarpata, all’interno della quale vi stava solitamente una cisterna; primo piano a pianta quadrangolare e segnato da marcapiano; infine terrazza ove solitamente sostava un piccolo cannone. Le torri di Deputazione, infatti, funzionavano come veri e propri fortini, collegati fra loro, ma virtualmente indipendenti: avevano l’importante compito di difendere, anche a colpi di cannone, le coste dai frequenti sbarchi di pirati turchi Dunque caratteristiche diverse rispetto alle torri oggetto di studio. La differenza si spiega in base allo scopo per il quale vennero edificate. La torre dell’Acquafredda non doveva cannoneggiare nessuno, eventualmente avvertire i vicini abitanti delle campagne di possibili pericoli imminenti: incendi, briganti, eventuali pirati, tanto ardimentosi da spingersi cosi in profondità verso l’entroterra. E trattandosi di torri probabilmente private, desta interesse l’identità del progetto: ovunque si trovino edifici del genere, essi presentano sempre caratteristiche comuni. Ciò lascia incuriositi, poiché nel caso di torri private edificate lungo le coste dell’isola, questa identità di progetto non si riscontra. Sia il Camilliani, quanto lo Spannocchi descrivono torri baronali sempre diverse, una a pianta quadrangolare, un’altra a pianta circolare, tutte con dimensioni dissimili. Evidentemente le torri granaio edificate lungo l’Alcantara, nella loro identità strutturale rispondono a particolari esigenze, non ultime quelle prettamente legate alle attività rurali. In ultima analisi si consideri il caso dell’abitato ionico-etneo di Giarre. L’insediamento dovrebbe sorgere intorno alla metà del XVI sec. come centro di raccolta delle derrate alimentari prodotte dalle attività agricole esistenti nella zona. Poco prima dei moti rivoluzionari per l’unità d’Italia, al centro del paese sorgeva una torre. Ai giorni nostri di tale struttura nulla rimane, perché devastata dalla furia popolare del 1848. Fortunatamente dell’edificio turrito esiste una piccola rappresentazione pittorica, operata dalla mano di un pittore acese del settecento: Tuccari. Certamente la pittura stilizza l’antico centro storico di Giarre, ma la torre viene rappresentata similmente a quella dell’Acquafredda o della Vignazza presso Giardini Naxos: si ipotizzano infatti i tre piani, si legge chiaramente la pianta quadrata, la copertura a doppio spiovente e la posizione delle finestre simile a quanto si può osservare nelle strutture ancora esistenti. Pur non avendo una testimonianza architettonica diretta, si può affermare che l’antica torre di Giarre era una torre granaio, del tipo ampiamente esposto in queste pagine. La sua presenza non stupisce, poiché la vocazione dell’abitato fin dalla sua nascita era proprio quella agricola. Si sconosce il numero di tali strutture esistenti o esistite nell’area etnea. Studiarne la presenza e la diffusione potrebbe realmente aiutare la comprensione delle attività economiche e in generale della società siciliana del XVI e XVII sec. Infine, riguardo all’edificazione di tali strutture, non si sottovaluti la possibile influenza della famiglia Lanza, dei cui effettivi possedimenti terrieri, certamente vasti, non possediamo una completa conoscenza.
Giuseppe Tropea da medioevosicilia.eu.
Pagina Etnanatura: Torre Acquafredda.
Foto di Salvo Nicotra
Il castagno dei cento cavalli ovvero l’Albero Cosmico
Senza il suo clima e il suo humus, la Sicilia non sarebbe la terra dell’eterna primavera, l’Eden perduto. È il clima il vero miracolo che in Sicilia fa nascere gli alberi tra i più grandi del mondo, custodi di magiche truvature che si continuano a cercare senza successo perché la loro formula è custodita da esseri soprannaturali e un po’ capricciosi: “donne di fora”, streghe, gnomi, folletti, spiritelli. Sono vecchi tesori nascosti e incantati di cui la Sicilia è piena e la cui leggenda è fatta risalire da alcuni al periodo delle dominazioni arabe, quando molti nascosero le proprie fortune per timore di esserne derubati. Ma forse truvature sono gli alberi stessi, colonne portanti del cielo, straordinario miracolo della natura e dono degli dèi.
Nel bosco di Carpineto, sul versante orientale del vulcano, in un’area tutelata dal Parco dell’Etna, si trova il “Castagno dei cento cavalli”, uno tra gli alberi più celebri di Sicilia, il più famoso e grande d’Italia, un albero plurimillenario, ubicato in territorio del comune di Sant’Alfio (Ct). Il castagno è nel libro dei Guinness dei primati come l’albero più grande del mondo. Descritto come “naturale maraviglia, che è di stupore ad ognuno, e di decoro a questo Regno”, fu oggetto di uno dei più antichi atti di tutela naturalistica. Diversi botanici concordano sulla sua età: avrebbe dai due ai quattromila anni e potrebbe essere l’albero più antico d’Europa. Uno studio scientifico sul suo DNA dimostrerebbe che esso potrebbe avere la più grande circonferenza del mondo, superiore al celebre grande cipresso del Messico.
Molte leggende tramandano gli anziani del luogo, come quella secondo cui, sotto il Castagno, anticamente, sia stato sepolto un sarcofago pieno di monete d’oro e gioielli da parte di antichi guerrieri datisi alla fuga dopo essere stai sconfitti in una delle tante invasioni avvenute in tempi lontani, truvatura che potrebbe essere portata alla luce recitando una particolare orazione alla mezzanotte di un venerdì diciassette.
Le prime notizie storiche che lo riguardano risalgono al XVI secolo, mentre nel 1636, Pietro Carrera da Militello (Ct), nei suoi libri Del Mongibello ne descrisse il tronco “maestoso” e disse che l’albero era “capace di ospitare nel suo interno trenta cavalli”.
Dal 1630 questo mitico castagno insieme ai terreni circostanti divenne di proprietà dell’illustre ed antica famiglia santalfiese dei Caltabiano, “Cavalieri della Reale Corona d’Italia” che la ricevettero in concessione dai Vescovi-Conti di Catania, per poi passare a pubblico demanio. Ammirato da molti viaggiatori del Grand Tour, tra essi Jean Houël, che fu in Sicilia tra il 1776 e il 1779, lo ritrasse e ne diede questa descrizione nel suo Voyage pittoresque des îsles de Sicile, de Malte et de Lipari: “La sua mole è tanto superiore a quella degli altri alberi, che mai si può esprimere la sensazione provata nel descriverlo. Mi feci inoltre, dai dotti del villaggio raccontare la storia di questo albero, si chiama dei cento cavalli in causa della vasta estensione della sua ombra. Mi dissero come la regina Giovanna recandosi dalla Spagna a Napoli, si fermasse in Sicilia e andasse a visitare l’Etna, accompagnata da tutta la nobiltà di Catania stando a cavallo con essa, come tutto il suo seguito. Essendo sopravvenuto un temporale, essa si rifugiò sotto quest’albero, il cui vasto fogliame bastò per riparare dalla pioggia questa regina e tutti i suoi cavalieri”.
La leggenda popolare, infatti, narra che una regina, con al seguito cento dame e cavalieri, fu sorpresa da un temporale, durante una battuta di caccia, nelle vicinanze dell’albero e proprio sotto i rami trovò riparo con tutto il numeroso seguito. Il temporale continuò fino a sera, così la regina passò sotto le fronde del castagno una notte che per la bella e voluttuosa sovrana e per i suoi cortigiani, i cavalieri al suo seguito, fu notte “d’amore, lussuria e peccato”.
Non si sa bene quale possa essere la regina: secondo alcuni si tratterebbe di Giovanna d’Aragona, secondo altri ancora di Giovanna I d’Angiò, che divenne regina di Napoli nel 1343 e la cui storia verrà collegata all’insurrezione del Vespro, divenuta famosa per aver stipulato la pace di Catania del 1347 che pose fine alla seconda fase della sanguinosa guerra dei Novant’anni. Pare, però, che la regina Giovanna d’Angiò, nota per una certa dissolutezza nelle relazioni amorose, non fu mai in Sicilia. Tuttavia, nelle diverse versioni che della leggenda ne danno gli abitanti del luogo, pare che potrebbe esserne protagonista anche l’imperatrice Isabella d’Inghilterra, terza moglie di Federico II, coi suoi cento cavalieri.
Ma il maestoso castagno non ha bisogno di leggende, esso stesso è una leggenda e così lo canta in una composizione in dialetto il poeta catanese Giuseppe Borrello (1820-1894):
Un pedi di castagna tantu grossu ca ccu li rami sò forma un paracqua sutta di cui si riparò di l’acqua, di fùrmini e saitti la riggina Giuvanna ccu centu cavaleri, quannu ppi visitari Mungibeddu vinni surprisa di lu timpurali. D’allura si chiamò st’àrvulu situatu ‘ntra ‘na valli lu gran castagnu d’i centu cavalli. |
Una pianta di castagno tanto grosso che con i suoi rami forma un ombrello sotto il quale si riparò dalla pioggia, dai fulmini e dalle saette la regina Giovanna con cento cavalieri, quando per visitare Mongibello venne sorpresa dal temporale. Da allora si chiamò quest’albero situato entro una valle il gran castagno dei cento cavalli. |
Sotto il profilo emozionale, la vista del castagno evoca Il Canto degli alberi di Hermann Hesse: “Per me gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi… Sono come uomini solitari… Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la loro forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte. Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita”.
L’annoso castagno finisce per diventare l’Albero per antonomasia, l’Albero cosmico. Secondo le più antiche tradizioni dalla mitologia egizia, semitica, cretese, indiana, greca, latina, germanica, celtica, in passato, gli alberi venivano considerati la manifestazione più immediata e concreta della divinità: a essi gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto, intorno alle piante fiorivano miti straordinari, a ciascuna specie, a ogni albero, venivano attribuite virtù e funzioni speciali.
Il filosofo, naturalista, psicanalista, poeta, maestro zen e monaco Jacques Brosse, scomparso nel 2008, che assume l’albero a soggetto di molte opere, nel suo straordinario libro Mitologia degli alberi, scrive: “Fin dall’origine il destino degli uomini fu associato a quello degli alberi con legami talmente stretti e forti che è lecito chiedersi che cosa ne sarà di un’umanità che li ha brutalmente spezzati”. Un’analisi che attraversa epoche e religioni diverse, per restituirci un quadro completo della simbologia e del ruolo degli alberi “dal giardino dell’Eden al legno della Croce”. Oggi, però, gli uomini sembrano aver dimenticato il ruolo fondamentale della natura nella propria esistenza, perciò Brosse conclude: “Nessuna situazione mi pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza, di quella di un’umanità che coesiste con altre specie viventi con le quali non può comunicare”. Un tempo, invece, “la natura stessa aveva un significato che ognuno, nel suo intimo, percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge e si condanna”. Forse per ricordare agli uomini il senso antico della natura, per impedire che la distruggano e si condannino, nel 1965 il castagno fu dichiarato monumento nazionale e dal 2008 è stato riconosciuto dall’Unesco come “Monumento messaggero di pace”.
Pagina Etnanatura: Castagno dei Cento Cavalli.
Foto di Silvio Sorcini.