L’Etna catasto magico: i diavoli del Gebel

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9_Alessandro Lo PiccoloAbbiamo il piacere e l’onore di pubblicare un intervento della professoressa Marinella Fiume tratto dal suo ultimo libro Sicilia esoterica (Newton Compton 2013). Marinella Fiume  è nata a Noto (Sr), risiede a Fiumefreddo di Sicilia, cittadina di cui è stata sindaco. Laureata in Lettere classiche, insegna nei Licei. E’ presidente dell’Associazione antiracket “C. A. Dalla Chiesa”. Scrive saggi, racconti e romanzi. A nome di tutti gli amici di Etnanatura  ringraziamo la prof.ssa Fiume   per la sua cortese disponibilità.

L’Etna, in dialetto siciliano, Mungibeddu, è un complesso vulcanico originatosi nel Quaternario ed ancora attivo. Il suo nome si fa risalire al greco antico Aἴτνα, che deriva dalla parola greca aitho (bruciare) o dalla parola fenicia attano (fornace), da cui il latino Aetna.

Gli Arabi la chiamavano Jabal al-burkān o Jabal Aṭma Ṣiqilliyya (“vulcano” o “montagna somma della Sicilia”), nome in seguito mutato in Mons Gibel, cioè la montagna due volte (dal latino mons “monte” e dall’arabo Jebel “monte”) proprio per indicarne la maestosità. Ma il termine Mungibeddu rimase di uso comune praticamente fino ai nostri giorni. Secondo un’altra teoria, il nome Mongibello deriverebbe da Mulciber, uno degli epiteti con cui i latini veneravano il dio Vulcano. Le popolazioni etnee chiamano l’Etna a muntagna, la  montagna per antonomasia.

Un’ascesa al cratere è densa di suggestioni. Viaggiatori sulle orme dei tanti che ci precedono alla ricerca degli infiniti  legami di senso tra realtà e immaginario, proprio come viandanti ci guardiamo dentro e indietro, sostiamo e ci inchiniamo a ogni piè sospinto a raccogliere e affardellare significati, echi, emozioni, immagini e parole d’altri, dei molti altri, grandi e meno grandi, scrittori del passato e del presente che nell’Etna e nei suoi luoghi si sono variamente imbattuti, subendone il fascino e immortalandoli. Perché l’Etna, il vulcano più attivo d’Europa, è un “catasto magico”,  un patrimonio di archetipi, miti e leggende stratificato nei secoli su cui si fondano l’immagine simbolica e l’immaginario collettivo dei Siciliani.

I viaggiatori stranieri effettuarono l’ascesa al cratere come un viaggio iniziatico, di formazione, ma anche i boscaioli, i pastori, gli scalpellini, pur inorriditi dalla vorago profunda, la gran voragine che vomita fuoco, e dalla sterminata profondità del cratere, la profunditas incomprehensibilis, hanno dovuto imparare nei secoli a convivere con l’imprevedibile furia della Muntagna, il cui nome significa “l’ardente”.

Per gli scrittori della Grecia classica,  il “mondo dei morti”,  il Tartaro era situato sotto l’Etna.

Il gran mago Virgilio, nell’Eneide, rammenta Encelado che giace “dal fulmine percosso e non estinto sotto questa mole” e, quando sospira, “si scuote il monte e la Trinacria tutta”, mentre nelle Georgiche narra delle officine dei Ciclopi che si danno operosi a far saette “d’ammollato ferro al gran Tonante” e il Vulcano “delle pesanti incudini rimbomba”.

Ovidio, anche lui considerato nel Medio Evo un mago, nella cui villa a Sulmona aveva  un pozzo dentro cui parlava col demonio, racconta nelle Metamorfosi di Tifeo, compagno di Encelado, che esala dalla bocca il fuoco per le caverne ed empie di pomici e di fumo il cielo intorno e tutte le campagne.

La leggenda narra che la Sicilia è sorretta dal gigante Tifeo che, volendo impadronirsi della sede celeste, fu condannato a questo supplizio: con la mano destra sorregge Peloro (Messina), con la sinistra Pachino e Lilibeo (Trapani), mentre l’Etna poggia sulle sue gambe e sulla sua testa. E, quando cerca di liberarsi dal peso delle città e delle grandi montagne, la terra trema.

Chi raccolse ai piedi del Vulcano la tradizione orale e la memoria letteraria, colta e popolare, fu soprattutto lo scrittore etnicolo Santo Calì (1918–1972),  nato e vissuto a Linguaglossa “la bifida”, il cui toponimo è la ripetizione della parola “lingua”, dapprima in italiano e poi in greco. Egli così rievoca il fascino  misterioso di un’ascensione all’Etna: “Fumano la voragine e i vicini crepacci alle insonni fatiche di Vulcano e dei Ciclopi nelle officine bruciate, ma il cratere centrale dorme il sonno del fatale Empedocle… Passano per la mente i pensieri sublimi onde le umane generazioni hanno conosciuto la via del bene e del male, sotto ai suoi piedi dentro la Voragine… è la visione paurosa di un inferno vivo, popolato di mille mostri, intronati dalle minacciose grida di Tifeo, Briareo ed Encelado, ma sopra di te il sole luminoso risplende in una gloria di Paradiso” (Nostalgia del cratere). Dal buio alla luce: il cammino della Gnosi.

Pur nell’incertezza delle fonti -Padri e Dottori della Chiesa e la letteratura popolare-,  anche il medico positivista ed etnografo palermitano Giuseppe Pitrè (1841–1916), nel discutere su quale sia la terra dove vive il diavolo, sostiene che “l’abitazione più celebre dove si pone l’Inferno rimane comunque in Sicilia” e che la credenza  popolare più antica e diffusa afferma che la bocca dell’Inferno è il Mongibello. Tale credenza risale alla tradizione medievale che poneva il regno del demonio dentro i vulcani appunto perché vomitano fiamme infernali, e l’Inferno nel centro della terra, per cui opera del demonio si consideravano terremoti ed eruzioni vulcaniche.

Una spiegazione tradizionale ma controversa è l’origine egiziana della credenza secondo cui i crateri dei vulcani  sono “spiramenta” o “caminos”, porte dell’Inferno. E la leggenda, dalle sponde del Nilo, sarebbe poi passata in Grecia, da lì in Etruria e poi a Roma.

All’inferno di demoni “pagani”, che ci restituiscono le fonti classiche, da Platone ad Aristotele a Seneca, si sovrappone poi l’Inferno cristiano delle fonti che individuano nell’Etna la più ampia e terribile di queste porte: dal vescovo Patrizio, martire sotto Decio, a Minucio Felice (III sec.), a Paciano, vescovo di Barcinone (IV sec.), a Girolamo (V sec.), a Gregorio Magno (VI sec.), ai Padri della Chiesa.

A queste fonti vanno aggiunte le leggende di un ricco patrimonio tramandato oralmente, in parte raccolto dalla viva voce dei contadini e dei pastori etnei da autori come Santo Calì (Leggendario dell’Etna), in parte ancora trasmesso di padre in figlio, quando non completamente scomparso.

Lo studioso Benedetto Radice (Bronte 1854–1931), gran viaggiatore, pubblicista e frequentatore di archivi, in rapporti di amicizia con la grande cultura siciliana del primo ‘900 (Verga, Gentile, Pirandello, Capuana),  scrive che “una leggenda antichissima dell’Egitto narra che i crateri dei vulcani fossero le porte dell’Inferno. All’avvento del Cristianesimo disparvero i tempii a Giove, a Vulcano ad Adrano. La concezione pagana del fuoco eterno tormentatore degli empii si fece cristiana. La filosofica leggenda si confuse con i demoni del Vangelo; la novella religione confermò, consacrò il mito, convertì Tifeo in Lucifero, i Giganti in demoni tormentatori, il fuoco etneo in fuoco infernale, e l’Etna fu detto Umbilicus Inferni”.

Ma chi è il diavolo, principio del male e nemico di Dio per Sant’Agostino e il pensiero cristiano, forza intermedia tra il mondo e la divinità per quello pagano?

Gli etnologi sostengono per lo più che gli dèi pagani, debellati dai santi, subiscano un processo di antropomorfizzazione, finendo col risorgere sotto forma di diavoli. La tradizione popolare che fa del cratere la porta dell’Inferno trasforma in demoni i numi che avevano avuto altari e templi: Giove, Giunone, Diana, Apollo, Mercurio, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al culto che loro era reso e ricompaiono tra le tenebre dell’Inferno cristiano. Ma, privi di quell’accento positivo che la pagana civiltà contadina aveva posto nel fuoco, le eruzioni dell’Etna divennero manifestazioni diaboliche e la distruttività da esse provocata fu interpretata come espiazione di colpe collettive e individuali.

Quello del demonio è infatti un mito a due facce: esso comprende Tifeo e Proserpina, fertilità e distruzione, in quanto l’economia contadina risente del potere benefico, fertilizzante della lava, ma anche del suo potere distruttivo.

Dottori e Padri della Chiesa sono quasi unanimi nel ritenere che i demoni abbiano un corpo, una forma umana gigantesca e mostruosa, che Torquato Tasso dice “strane ed orribili forme”, di una bruttezza spaventosa e ridicola, nella quale il ferino si mescola all’umano, perché il male è grottesco. Anche il Lucifero dell’Inferno dantesco è gigantesco e ampi echi delle descrizioni dei demoni della Divina Commedia giunsero alla letteratura popolare e furono assimilati nell’oralità e nell’iconografia successiva. I contadini vedono il diavolo come il peggior nemico, perciò nelle società agricole come quella siciliana, esso acquista un aspetto teriomorfo, di animale, di fiera, e rappresenta i rischi legati alla terra e al raccolto: malattia o moria del bestiame, siccità, tempesta. E nei Bestiari medievali il diavolo era elencato tra le altre bestie. Ma non c’è forma che questo “Proteo infernale”, tentatore e ingannatore dell’umanità, non possa rivestire all’occorrenza, come dimostrano le Vite dei Santi in cui esso appare in figura di uomini e donne, giovani o vecchi, amici o parenti, o di animali: draghi, serpenti scorpioni, lumache, formiche, volpi, rospi, leoni, pipistrelli, cani.

In Sicilia, il nome del diavolo è tabù, si ha tanto orrore di nominarlo per non evocarne la presenza, che si ricorre ad eufemismi come Chiddu cu li corna, U mmalidittu, L’ancilu niuru, U bruttu bestia, mentre Cìferu, corruzione di Lucifero è sinonimo di grosso serpente. Per esorcizzarlo si recita ancora questa orazione:

 

A lu pizzu di la livedda c’è u nimicu tintaturi quant’è laria la so fiùra fa scantari ogni criatura!E tu chi ci dirrai? Ca cu mia non c’è chi ffariCà lu iornu di Santa Crucidissi milli voti Gèsu. Al bordo dell’avello c’è un nemico tentatore quanto è brutta la sua figura fa spaventare ogni creatura!E tu che gli dirai? Che con me non c’è che fareChè il giorno di Santa Croce

dissi mille volte Gesù.

 

Il diavolo, insomma, è la mitizzazione del male, l’espressione delle conflittualità dell’uomo con le realtà storiche e naturali, del conflitto Uomo-Natura, Uomo-Storia, e permette così di estraniare gli eventi negativi del reale, proiettandoli in un’illusoria figura mitologica. Ma è anche espressione dei piaceri carnali rimossi dall’etica e dai condizionamenti sociali, del complesso d’Edipo e del desiderio di sfidare il padre, tra emulazione e ostilità (Freud). E, come Dio, è anche un Mito, riflesso dell’inconscio collettivo universale e senza tempo (Jung). Dal punto di vista culturale, esso è il risultato dell’interiezione tra l’immaginario della lunga tradizione teologica (che culmina con la Summa di san Tommaso) e l’immaginario popolare, l’incontro tra il diavolo delle classi colte, che parla il latino ecclesiastico dei preti per soggiogare i contadini, e il diavolo plebeo che parla un linguaggio “mammalucchino” per difendersene e prendersene gioco. I demoni plebei, anzi, sono spesso “poveri diavoli”, fabbri specializzati nella lavorazione del ferro battuto – vanto dell’artigianato siciliano –  che lavorano nelle officine etnee e ogni tanto scendono a valle quando viene commissionato loro qualche lavoretto. Una filastrocca ancora viva in queste vallate così recita:

 

Diavuli c’abbitati a Muncibeddu, scinnìti, ca bbi veni di calata, purtàtivi la ncunia e lu marteddu c’è di buscari na bbona jurnata.  Diavoli che abitate a Mongibello, scendete ché è tutta di discesa, portatevi l’incudine e il martello guadagnerete una buona paga.

In antitesi con la dottrina classica del cristianesimo, accanto alla tradizione teologica e letteraria riguardo Lucifero, si sviluppò, già nei primi tempi di fioritura e di espansione delle dottrine cristiane, una corrente gnostica che interpreta la figura luciferina in chiave salvifica e liberatrice per l’uomo dalla tirannia del Creatore: il serpente Lucifero, etimologicamente dal greco “Portatore di luce”, sarebbe colui che ha indotto l’uomo alla conoscenza, la scientia boni et mali, e dunque alla sua elevazione a divinità, contro la volontà di Dio che avrebbe voluto invece mantenere l’uomo a suo suddito. La sua figura sarebbe accostabile a quella di Prometeo, che rubò agli dei il fuoco per farne dono agli uomini e per questo fu punito.

Tali motivi saranno  ripresi da una lunghissima tradizione gnostica e filosofica fino alla Massoneria, al Rosacrocianesimo, al Romanticismo e poi alla New Age: una cultura teosofica compendiata nel termine “Luciferismo” che ne esalta gli aspetti luminosi. Poiché Dio è Sophìa (Sapienza), il diavolo non poteva essere ignorato nella Kabala. Gli studiosi di mistica ebraica sostengono che il nome del diavolo sia quello di Jehowah letto al contrario, non perché sia Dio, ma in quanto negazione dell’idea stessa di divinità.

Nell’ambito dell’esoterismo e dell’occultismo, Lucifero, il più bello tra gli angeli, sarebbe un detentore di sapienza inaccessibile all’uomo comune. L’originario stato angelico di Satana e dei suoi demoni, la caduta dal Cielo a causa della loro superbia e al loro intento di usurpare Dio e l’introduzione nella storia della morte e del male (fisico, metafisico, morale) sono elementi essenziali del mistero della creazione nella Genesi. Perciò i cultori dell’occultismo vedono nel diavolo una categoria di spiriti  “inferiori” (sia benigni sia maligni), un’espressione di libertà individuale  (Eliphas Levi), e nell’esoterismo il diavolo è forza creativa, ideata per il bene, anche se in grado di servire il male,  in contrapposizione con il Satanismo che identifica Lucifero con Satana e ne venera l’aspetto tenebroso. DianusLucifero sarebbe un dio delle religioni antiche, fratello, figlio e marito  della dea Diana, Signore della Luce e del Mattino, e legato agli antichi misteri del dio etrusco Tinia e agli dei greco-romani Pan, Bacco, Dioniso, Apollo. Dal  dio greco Eosforo  (torcia luminosa di Eos – Aurora), identificato con la Stella del mattino, deriverebbe Lucifer, un’antica divinità romana, rappresentata nei culti sotto l’aspetto agreste-pastorale del signore delle foreste e delle piante, della fertilità, dei raccolti, dei capi di bestiame, ma anche come signore della saggezza e guardiano dei santuari. Sebbene, in definitiva,  le sue vere origini restino misteriose, il diavolo con le corna e le zampe di caprone denuncia una chiara derivazione dal dio Pan. I suoi culti misterici  si manifestavano come riti orgiastico – sessuali caratterizzati da un’ebbrezza indotta sia da bevande alcoliche che da droghe, come i culti di Priapo e quelli fallici. La loro diffusione a Roma è testimoniata dalla “Casa dei misteri” di Pompei e dall’Asino d’oro di Apuleio. Avversati dal Senato romano e poi dal Cristianesimo, i culti bacchici sopravvivono in Sicilia sotto diverse forme. In seguito le “baccanti” divennero streghe e la Chiesa si diede a  combattere il diavolo attraverso l’Inquisizione. Ma, nella iconografia medievale, Baphomet è divenuto simbolo dei maestri del Tempio, il cui volto resta oscuro. Dopo i Templari, molte donne furono condannate come eretiche e blasfeme, adoratrici di Baphomet, demone mostruoso ed ermafrodito, forse mutuato dalla figura di Bacco taurocefalo, ma anche storpiatura di “Maometto” in funzione antislamica.

Marinella Fiume, Da Sicilia esoterica (Newton Compton 2013)

 

Foto di Alessandro Lo Piccolo

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Il fantasma del parco

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ParcoEtnaQuante persone lavorano al parco dell’Etna e quale ruolo ricoprono? Ve lo siete mai chiesto? Dare una risposta è molto facile e ci aiuta a capire il perché di tante anomalie. Ebbene l’ente parco si avvale di:

  • un presidente, la dott.ssa Maria Antonietta Mazzaglia
  • un consiglio direttivo formato da ventidue persone: il presidente, i sindaci o i delegati dei comuni il cui territorio ricade nel parco e il presidente della provincia di Catania
  • sei membri del comitato esecutivo
  • tredici dirigenti
  • due giornalisti
  • sedici funzionari direttivi tecnici e amministrativo/contabili
  • quattro istruttori direttivi
  • un autista
  • dieci collaboratori e operatori
  • e due (non duecento ma due!) guide alpine

Stop. Una struttura amministrativa burocratica formata prevalentemente da capi e sottocapi senza nessuna possibilità di azione diretta e significativa sul territorio.

Inutilmente sul sito dell’ente parco abbiamo cercato i curricula dei dirigenti come invece previsto dalle recenti normative sulla trasparenza.

P.S. Le informazioni riportate sono facilmente consultabili sullo stesso sito del parco alla pagina: http://www.parcoetna.it/Pagina.aspx?p=14

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Crateri eruzione 1991

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20052012 159L’ultima grande eruzione etnea del XX secolo ha inizio nella mattinata del 14 dicembre 1991, quando si aprono alcune fessure eruttive sia sul versante settentrionale del cono del Cratere di Sud-Est (per intenderci, quello che ora viene spesso chiamato “vecchio” per distinguerlo dal nuovo cono, che si è formato durante l’attività parossistica del 2011-2012), sia sul fianco SSE del cono. Una breve ma intensa crisi sismica ha preceduto questa nuova eruzione, che dà luogo ad una vivace attività stromboliana che si esaurirà dopo poche ore, mentre la frattura a SSE continua a propagarsi verso il basso, da una quota di circa 3000 m fino a 2700 m. La parte più alta di questa nuova frattura produce fontane di lava e due piccole colate di lava che avanzano qualche centinaio di metri verso l’orlo occidentale della Valle del Bove; dopo circa 4 ore anche questa attività finisce. Tuttavia, dalla terminazione SSE della fessura eruttiva, il suolo continua a fratturarsi verso valle, e si registra un’intensa attività sismica – segni che annunciano che l’eruzione non è finita, ma deve ancora cominciare davvero. Una nuova fase eruttiva comincia nella notte fra il 14 e il 15 dicembre 1991, con l’apertura di una fessura eruttiva nella parete occidentale della Valle del Bove, a circa 2200 m di quota (ndr Sono questi i crateri che vi invitiamo a visitare). Da una serie di bocche si osserva un’intensa attività stromboliana e l’emissione di voluminose colate di lava, la più importante dalla parte bassa della frattura. La lava comincia a scendere rapidamente verso il fondo della Valle del Bove, nella sua parte meridionale, poi avanza verso est, in direzione del ripido pendio del Salto della Giumenta (quota 1300-1400 m circa), dove la Valle del Bove passa nell’adiacente Val Calanna. Il giorno 24 dicembre, la lava raggiunge il Salto della Giumenta e formando spettacolari cascate, si riversa verso la Val Calanna, la quale viene gradualmente colmata nei giorni successivi, e alla fine di dicembre i fronti lavici più avanzati hanno raggiunto una distanza di 6.5 km dalle bocche eruttive. Durante le prime settimane dell’eruzione, le bocche eruttive poste nella parte alta della fessura attiva mostrano un’intensa attività stromboliana, però a partire da metà gennaio 1992 l’attività esplosiva comincia a diminuire e a marzo continua soltanto l’emissione di lava accompagnato da degassamento.
Da Ingv sezione di Catania

Pagina Etnanatura. Crateri eruzione 1991.

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Servizio adozioni e ricerca animali

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adozioniSul nostro sito e’ nata una nuova sezione per la pubblicazione di annunci riguardanti proposte di adozione e di ricerca di animali scomparsi. Il servizio e’ gratuito.
Per inserire gli annunci bisogna registrarsi a questo indirizzo  e aspettare l’autorizzazione dell’amministratore di Etnanatura che sarà comunicata per email.
Ottenuta l’autorizzazione gli annunci possono essere pubblicati utilizzando l’apposito form di questa pagina.
Gli annunci pubblicati sono visibili a questo link.
Per ogni altra informazione potete scriverci alla nostra email: info@etnanatura.it.
Il software è in versione beta di prova quindi vi saremo grati se vorrete segnalarci delle anomalie e/o dei consigli.

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11 Gennaio 1693: il terremoto.

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10358702_361538174027004_1589288567829410501_nIl 9 gennaio del 1693 alle ore 3,45 un forte terremoto scosse la città di Catania danneggiando alcune case. Gli abitanti scapparono nottetempo rifugiandosi nelle piazze e nelle campagne vicine. Solo all’alba appena la situazione sembrò più calma al grido Sant’Agata salvaci tu, i catanesi ritornarono alle loro case. La mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scammacca una fattucchiera locale con la pretesa di incontrarlo per comunicargli cose importanti. Don Arcaloro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire. La vecchia confidò al barone che quella notte gli era apparsa in sogno S.Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua amata città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi, aveva rifiutato di concedere la grazia; ed aggiunse la terribile profezia “Don Arcaloru, Don Arcaloru, /dumani, a vintin’ura, /a Catania s’abballa senza sonu!”, e cioè “Don Arcaloro, don Arcaloro, domani, alle 14, a Catania si ballerà senza musica!”. Il Barone capì subito di quale ballo la vecchia parlasse; e si rifugiò in aperta campagna, dove attese l’ora fatale: e puntualmente all’ora indicata dalla strega il terremoto si verificò. E così l’11 gennaio 1693 alle ore 14 circa una forte scossa tellurica fece tremare la terra e rase al suolo Catania e sessanta comuni della Sicilia orientale fra i quali Noto, Lentini, Mineo e Ragusa. Il Mongitore narra: « L’orribilissimo terremoto dell’anno 1693 è stato, senza alcun dubbio, il maggiore il più pernicioso che tra tanti avesse danneggiato la Sicilia, e sarà sempre l’infaustissima sua memoria luttuosa negli annali dell’isola, tanto per la sua durazione, quanto per la rovina portata dappertutto. Il giorno di venerdì 9 gennaio nell’ora quarta e mezza della notte tutta la Sicilia tremò dibattuta dalla terribile terremoto. Nel Val di Noto e nel Val Demone fu più gagliardo: nel Val di Mazara più dimesso. Ma la domenica 11 dello stesso mese, circa l’ore 21, fu sconquassata tutta la Sicilia con violentissimo terremoto, con la strage e danno non accaduti maggiori ne’ secoli scorsi. ». Un testimone oculare racconta dell’evento dell’11 a Catania: “Vide che alle due mezza improvvisamente rovinò tutta la città con la morte di più di 160 persone e che durante il terremoto si era ritratto il mare di due tiri di schioppo e per la risacca conseguente aveva trascinato con sette tutte le imbarcazioni che erano ormeggiate in quell’insenatura. State certi che non c’è penna che possa riferire una tale sciagura.”.Alla catastrofe (7,5 MCS) seguì un tremendo maremoto . I soccorsi si resero difficili. Crollarono 20 tra monasteri e conventi; oltre 50 chiese, la Loggia, il Seminario dei Chierici, l’Università, l’Ospedale S.Marco. Crollò pure il campanile del trecento cadendo sul tetto del Duomo che franando uccise centinaia di fedeli. La Chiesa di S.Nicolò l’Arena rifatta nel 1687 dopo l’eruzione del 1669 venne totalmente distrutta. Scompariva la via cittadina principale detta Strada della Luminaria chiamata così perché era usanza porre, specie nelle serate di festa, fuori dalla porte, balconi e finestre dei lumi ad olio , a cera, o a sego di vari colori assumendo un fantastico aspetto di luminaria. E così gli abitanti sopravvissuti alla terribile sciagura, 11000, decisero di abbandonare la città. Il canonico Giuseppe Cilestri, tenendo tra le mani le reliquie di Sant’Agata andando in giro per le rovine li convinse a non fuggire. Ma la città fu ben presto sommersa da bande di briganti che frugavano tra le macerie in cerca di masserizie imponendo angherie e sopraffazioni. I catanesi si rivolsero alle autorità superiori e accolti dal vicerè Francesco Paceco duca di Uzeda ottennero il controllo della città da parte del vicario generale duca di Camastra, Giuseppe Lanza. Questi provvide innanzitutto a sterminare le bande dei briganti , a seppellire i morti e a ristorare i superstiti ma soprattutto a ricostruire la città che vediamo oggi ma … questa è un’altra storia che affronteremo prossimamente.

Davide A. S. Gullotta da “Ti cuntu

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Grotta Nicodemo

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20101031 117Grotta Nicodemo. Si tratta di una piccola cavità in rocce vulcaniche antiche la cui genesi non è evidente; potrebbero essersi formata anche per l’azione erosiva delle acque del torrente che passa davanti ad essa. Ai lati dell’ingresso si trovano due muri a secco a parziale sostegno della volta; quello dal lato ovest è il più grosso con una lunghezza di 4 m ed uno spessore di poco meno di 1 m. La cavità è in leggera salita; solo dal lato monte, ai piedi della parete di fondo, il pavimento si presenta di lava a superficie unita, altrove esso è molto rimaneggiato, con terra mista a pietre e detriti vegetali. Le pareti e la volta sono costituite da lava a superficie terrosa ed irregolare; solo al centro della cavità si può stare in piedi. Sul fondo della grotta, dal lato ovest, una strettoia permette di accedere ad un piccolo ambiente dove non arriva luce; qui il soffitto è molto basso e costringe a procedere carponi, il pavimento è di soffice terriccio ed in esso si osservano buche scavate da animali. Sono presenti in tutta la grotta molte ragnatele. Come per tutte le grotte prossime ai centri abitati anche per la grotta Nicodemo non mancano leggende legate a fantastiche “truvature” (tesori) e alle mille peripezie, finora infruttuose, che deve superare chi voglia impossessarsi delle mitiche ricchezze. Un contadino mi raccontava anche di un tunnel che dalla grotta Nicodemo s’inoltrava per centinaia di metri all’interno della montagna; anche in questo caso temiamo non vi sia niente di vero ma solo l’amplificarsi di racconti antichi nati dal mistero che le grotte hanno sempre indotto nell’animo umano. In fondo la grotta, a pensarci bene, è una specie di utero misterioso e buio procreatore di fantasie e favole.

Le informazioni geologiche sono dovute al sito Mungibeddu.it.

Pagina Etnanatura: Grotta Nicodemo.

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La timpa di Acireale

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Santa_Maria_la_Scala_25-02-2013 08-56-27Quello che vi proponiamo è un percorso nel tempo e nello spazio che si sviluppa lungo la timpa di Acireale. Andremo molto a ritroso nel tempo visto che geologicamente la timpa si è formata oltre 200.000 anni fa. Il percorso nello spazio, da sud a nord, da Capo Mulini a Stazzo è più breve ma ci permetterà di riconoscere uno dei posti più affascinanti dell’Etna malgrado in alcuni punti abbia subito lo stupro volgare e violento dei palazzinari.

25-02-2013 08-28-53

Geologia. Fase delle Timpe: a partire da almeno 220.000 anni fino a circa 110.000 anni fa l’attività eruttiva si concentra lungo la costa Ionica in corrispondenza del sistema di faglie dirette denominato delle Timpe che rappresenta la prosecuzione settentrionale della Scarpata Ibleo-Maltese nella regione etnea. Le faglie delle Timpe costituiscono delle imponenti scarpate morfologiche che formano il tratto di costa da Capo Mulini fino ad Acireale, sviluppandosi in direzione NNO fino alla zona di Moscarello-S. Alfio. Durante questa fase si verificarono numerose eruzioni fissurali che si localizzavano prevalentemente lungo questa ristretta fascia allungata lungo la costa Ionica. La continua sovrapposizione delle colate laviche in quest’area ha portato nel tempo alla formazione di una prima struttura vulcanica di tipo scudo estesa per almeno 22 km in direzione NNO. La struttura interna di questo vulcano a scudo è oggi esposta lungo le scarpate di faglia delle Timpe fra Acireale e Moscarello. Durante questo lungo periodo eruttivo si verificavano anche sporadiche eruzioni fissurali lungo la Valle del Fiume Simeto fino alla costa. Testimoni di queste eruzioni sono il grosso cono di scorie che costituisce la collina di Paternò e diverse sottili colate laviche fortemente erose come quelle affioranti nella periferia nord di Catania in località leucatia-fasano. Fra circa 129.000 anni e 126.000 anni l’attività eruttiva di tipo fissurale si sposta verso ovest interessando per la prima volta l’area centrale della regione etnea fra la Val Calanna e la Timpa di Moscarello. Complessivamente l’attività vulcanica della fase Timpe termina circa 110.000 anni fa. (1)

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Fauna e flora. A popolare la riserva naturale della Timpa sono numerose specie di animali, che, grazie anche al difficile accesso da parte dell’uomo, trovano un habitat ideale. Nell’area protetta vivono infatti conigli selvatici, ricci, volpi che coabitano insieme a rettili come i colubri leopardini e le lucertole campestri. A causa degli incendi estivi  alcune specie di rettili sembrano scomparse: è il caso della tartaruga terrestre. Non mancano caratteristiche specie di volatili. Di giorno è possibile osservare in volo il falco pellegrino, il gheppio e la poiana, mentre di notte comuni rapaci sono l’assiolo, il barbagianni e la civetta.. Lungo le coste è notevole la presenza di gabbiani, meno frequente in autunno quella del cormorano. Con l’arrivo delle calde temperature giungono dall’Africa la rondine e l’upupa che depongono qui le loro uova. Molte specie come lo scricciolo e il merlo, invece, si incontrano tutto l’anno, soprattutto nelle zone in cui è presente la macchia mediterranea e nei limoneti. Ricchi di vita sono pure i fondali del mare della Timpa, anch’essi di origine vulcanica. I fondali sono lavici sino a circa -30 metri, poi diventano sabbiosi e, oltre i -50-60 metri, prevalentemente argillosi. A volte sono presenti delle piccole secche di blocchi lavici arrotondati. Nelle cavità dei fondali vulcanici trovano rifugio Polpi e Murene. Nella zona più illuminata dai raggi solari sono presenti diverse specie di Cystoseria e di Sargasso. I fondali sono molto ricchi di alghe calcaree libere (Melobesie). Esistono circa 300 tipi di alghe appartenenti alle Rhodophyta (alghe rosse), Clorophyta (alghe verdi) e Phaeophyta (alghe brune). Tra i pesci non è difficile incontrare giovani Monacelle, branchi di argentei Bianchetti, Ope e Salpe. I fondali della Timpa sono inoltre famosi per la ricchezza di molluschi come gli Occhi di bue e i Ricci di mare. Tra i crostacei sono comuni varie specie di granchi e paguri e più in profondità troviamo delle aragoste. Un meraviglioso spettacolo offrono le pareti superficiali a strapiombo colonizzate da centinaia di coralli gialli e rosa (2). La flora è principalmente caratterizzata da arbusti o piccoli alberi sempreverdi e sclerofilli (a foglie coriacee). la vegetazione è solitamente resa densa e compatta dall’intreccio di numerose piante rampicanti. la densa vegetazione limita la filtrazione di luce al suolo, riducendo grandemente il numero di piante erbacee presenti.  La zona di riserva integrale è caratterizzata da una lunga parete rocciosa, ricoperta da vegetazione spontanea in buona parte incontaminata, mentre la zona di preriserva, un tempo coltivata a mandorlo olivo, carrubo e ficodindia, è oggi quasi esclusivamente occupata dai limoneti, coltivati sulle terrazze costruite con i muretti a secco in pietra lavica.la zona della preriserva è caratterizzata da vegetazione arbustiva sempreverde come l’euphorbia dendroides. Altre specie arbustive presenti sono l’anagyris fetida, l’artemisa arborescens, il rhamnus alaternus. le specie arboree sono il carrubo ed entità non autoctone, propagatesi ad opera dell’uomo. Lungo la fascia litoranea che interessa la riserva, si trovano specie erbacee ad alta specializzazione che ben resistono a un ambiente con notevole siccità del suolo, dovuta alla salsedine, fra le quali il finocchio di mare. Nella zona nord si riscontano resti di quello che fu il bosco di Aci, una vasta area caratterizzata da  vegetazione arborea (3).

Geografia. Iniziamo la nostra passeggiata virtuale da Capo Mulini nella propaggine sud della timpa. Vi avvertiamo che se il percorso proposto sarà continuo nello spazio (da sud a nord), non altrettanto possiamo garantirvi per la storia. Ritroveremo tracce della nostra storia dai romani, ai normanni per arrivare agli inizi del secolo scorso.

Capo Mulini

Capo Mulini

Capo Mulini. Almeno fino agli anni 50 del nostro secolo, Capo Mulini (vedi) si prefigurava alla maniera di una piccola borgata marina, composta da poche decine di abitazioni di forma settecentesca, disposte intorno ad un piccolo edificio di culto. In effetti ancora oggi il paese si distribuisce lungo due arterie stradali principali, perpendicolari alla costa, sebbene pochi siano i resti risalenti al XVII/XVIII, per la maggior parte soppiantati da costruzioni moderne. Un tempo si addossavano l’un l’altro piccoli edifici, all’interno dei quali si conciava la pelle, probabilmente con l’ausilio di mulini, che un tempo donarono il toponimo al borgo e dei quali oggi non rimane in pratica nessuna traccia. Alcuni ruderi interessanti è possibile osservarli nei pressi del moderno edificio di culto, per l’esattezza ad oriente di quest’ultimo. Trattasi, probabilmente, dei resti di una precedente chiesa, diruta e quasi del tutto obliterata da un cataclisma non ben individuato, forse un terremoto o un maremoto corrispondente al terribile terremoto, che colpì Messina nel 1908, il quale causò ripercussioni lungo tutta la costa ionica, almeno fino a Catania. Nei presi di siffatti ruderi giacciono, inoltre, i resti basamentali di un tempio romano del I/II secolo d.C. Studiati a fondo dal Libertini, durante la metà degli anni 50, purtroppo ai giorni nostri non sono visitabili, perché giacenti in territorio privato e non vincolati. I resti constano di un basamento edificato per una parte con malta cementizia e pietrame lavico non sbozzato; una seconda porzione invece sembra presentare, almeno all’esterno, grossi blocchi di basalto incastrati l’un l’altro e legati insieme dalla medesima malta. A settentrione del basamento il Libertini vedeva una sorta di sacello o una camera ipogeica, oggi ancora presente ma del tutto interrata. Un’altra struttura interessante sembra preservarsi nei pressi del porto. Essa per forma e consistenza pare essere una fortezza costiera risalente al XVI/XVII secolo, similmente alla vicina “Fortezza del Tocco”, sita nei pressi di S. Maria la Scala. In effetti la tecnica edilizia del bastione murario, ad emplecton, cioè a rivestimento esterno con grossi conci di pietra lavica e anima interna di pietrame minuto e malta pare proprio antica. Inoltre il taglio a cuspide del bastione murario perpendicolare alla costa lascia veramente credere all’esistenza, in questo luogo, di una fortezza costiera, edificata a protezione della costa, contro gli assalti dei pirati turchi. Confermerebbe l’ipotesi anche il fatto che solo Capo Mulini non presenterebbe strutture fortificate del genere, rispetto a tutti gli altri abitati costieri, i quali, al contrario, ancora ai giorni nostri conservano i ruderi di fortificazioni costiere risalenti al XVI/XVII secolo. (10)

Tempio romano Capomulini

Tempio romano Capomulini

Il tempietto di Capo Mulini. Pochi sanno che a CopoMulini si trovano i resti basamentali di un tempio romano del I/II secolo d.C (vedi). Studiati a fondo dal Libertini, durante la metà degli anni 50, purtroppo ai giorni nostri non sono visitabili, perché giacenti in territorio privato e non vincolati. I resti constano di un basamento edificato per una parte con malta cementizia e pietrame lavico non sbozzato; una seconda porzione invece sembra presentare, almeno all’esterno, grossi blocchi di basalto incastrati l’un l’altro e legati insieme dalla medesima malta. A settentrione del basamento il Libertini vedeva una sorta di sacello o una camera ipogeica, oggi ancora presente ma del tutto interrata. Alcuni pietre del tempio sembra che siano state prelevate per costruire in epoca sveva le mura di difesa ancora visibili nel porto della contrada.

Torri Alessandrano e sant'Anna

Torri Alessandrano e sant’Anna

Torri Alessandrano e sant’Anna. Per proteggere il porto dalle scorribande dei pirati furono edificate le due torri Alessandrano e Sant’Anna (vedi). La Torre Sant’Anna, fu iniziata nel 1582 in corrispondenza del Capo Mulini e finita in circa un ventennio. Vi alloggiava un corpo di guardia con il compito di allertare all’avvicinarsi di navi corsare. Nel 1868 la torre di Sant’Anna venne convertita in faro. Oggi si trova in una proprietà privata.

Gazzena

Gazzena

Gazzena. La contrada della Gazzena (vedi) è certamente una delle aree più interessanti dal punto di vista naturalistico e paesaggistico. Il nostro sentiero si dirige attraverso una tipica stradella di campagna (rasula) verso un magazzino abbandonato che si erge sull’altura, accanto al quale si sviluppa un sentiero verso nord che in breve tempo condurrà su un’altra rasula, lunghissima e ben conservata, con a lato un caratteristico canale di irrigazione (saia). Percorrendola fino in fondo in direzione est, troveremo un edificio in rovina che accoglie un pozzo

Pozzo Gazzena

Pozzo Gazzena

ed i resti di un macchinario a vapore che serviva al sollevamento dell’acqua destinata ad irrigare l’agrumeto e gli orti situati nel pianoro sottostante: essendo oggi tutta l’area coltivabile in completo abbandono, sarà possibile osservare le varie fasi della ricostituzione della originaria macchia mediterranea. Superato il pozzo ci si affaccia su un primo gradino della timpa della Gazzena: qui il terreno presenta due scarpate di faglia parallele che creano altrettanti ripiani degradanti. Restando nel ripiano alto e percorrendo il margine verso nord per quasi 100 metri, si raggiunge un casolare abbandonato al cui fianco sorge un popolamento di Sommacco, pianta un tempo utilizzata per la concia delle pelli. Da qui inizia la discesa per un ripido sentiero tortuoso dove, su una lastra lavica, si osservano simboli incisi e l’iscrizione: “Arcangelo Calanna beneficò questa terra l’anno del Signore 1868”. Attraversato il pianoro ci si può affacciare sull’orlo della seconda faglia e si apre il dirupo della timpa marina: macigni di lava, anfratti e insenature, vegetazione. Più sotto, il mare. Parallelamente al bordo della scarpata si trova un viottolo che costeggia l’antico muro a secco con le caratteristiche pietre “paralupo”. Alla fine del tracciato si giunge alla spianata, in leggera salita, che si dirige verso una costruzione (la Casazza) recentemente ristrutturata, circondata da una ricca boscaglia a Roverella. Questa costruzione può essere raggiunta, in alternativa, da una rasula seminascosta dalla vegetazione che si sviluppa sul bordo del sopraccennato primo gradino ad una quota di circa 60 m sul livello del mare. La via del ritorno sarà un percorso in parte diverso da quello dell’andata: ritornando verso il pianoro si scorge sulla destra un largo sentiero carrozzabile che risale il pendio e conduce ad una maestosa dimora patrizia (Villa Calanna) che oggi è in stato di completo abbandono, ma rappresenta comunque un gioiello di architettura rurale. Un sentiero che si sviluppa verso sud-est ricondurrà al magazzino abbandonato dal quale si è intrapresa l’escursione. (4)

Villa Calanna

Villa Calanna

Villa Calanna. Villa Calanna (vedi) La Villa fu costruita a più riprese nel corso del XIX secolo, comprende oltre alla residenza signorile, palmenti, frantoio, stalle e imponenti cantine. La residenza (edificata tra il 1856 e il 1860), ha carattere signorile, le sue stanze sono pavimentate a cotto e controsoffittate con volte ad incannucciato elegantemente dipinte, le aperture a porta-finestra hanno cornici in pietra calcarea. (5)

Acque grandi

Acque grandi

Acque Grandi. Il sentiero delle Acquegrandi (vedi) o Acquaranni attraversa uno tra i più integri tratti della Timpa di Acireale. Il suo imbocco si trova affiancato alla chiesetta della Madonna dell’Aiuto (riedificata tra il 1769 ed il 1773) che si apre sulla via omonima. Quest’ultima è una stretta stradella rurale raggiungibile dalla frazione di Santa Caterina o da Santa Maria delle Grazie, delimitata da alti muri in pietra lavica. Sulla facciata della chiesetta spicca la scritta Auxilium Cristianorume sul suo fianco settentrionale c’è una stradella dal fondo asfaltato. È questo l’inizio del sentiero che porta alle Acquegrandi fra alti muraglioni a secco coperti da Bagolaro, Eucalipto, Alaterno, Ulivo domestico ed Edera arborescente. Superato un cancello metallico aperto la stradella diventa un viottolo. Dopo l’incontro con un monumentale esemplare di Roverella, si giunge su un falsopiano che si affaccia quasi a picco sulla scarpata sottostante e che offre un’estesa visuale sul mare: a destra la spiaggia diAcquegrandi ed a sinistra i declivi della Timpa di Don Masi, dove sono presenti la Roverella, l’Olivastro e popolamenti di Cannuccia del Reno (Arundo pliniana). È un eccellente punto di osservazione per l’avifauna. Nei pressi del pianoro, doveva localizzarsi uno dei punti di avvistamento distribuiti sul litorale ai tempi delle incursioni piratesche. Troviamo inoltre un cippo commemorativo dedicato al giovane Matteo Mustica, sub catanese deceduto per embolia nel sottostante specchio d’acqua. Ci si incamminerà verso il mare per uno scosceso sentiero a gradini in pietra che attraversa la scarpata con punti di dislivello accentuato e si immerge nel paesaggio consentendo di osservare aspetti tipici di vegetazione (Olmo, Bagolaro, Alaterno, Euforbia, Fico d’India, Asparago pungente, Garofanino delle rocce), nonchè spaccati geologici di notevole interesse. Giunti sulla spiaggia, ampia ed estesa per alcune centinaia di metri, formata essenzialmente da pietre arrotondate dalla azione marina (coculi), è probabile rinvenire la sorgente a fior d’acqua che dà il nome al luogo: è di portata variabile, una volta copiosa (da cui il nome ranni = grande). Spostandoci verso nord, sulla battigia si osservano grandi macigni alveolati per corrosione dei sali marini e diverse specie vegetali costiere (Violaciocca, Cappero, Spinasanta, Finocchio di mare). Dopo circa 200 metri (ma è assai difficoltoso giungervi via terra) troveremo un significativo giacimento fossilifero. (6)

Santa Caterina

Santa Caterina

 

Santa Caterina e Acqua Ferro. Santa Caterina (vedi https://www.etnanatura.it/sentieri/sentieri.php?nome=Santa_Caterina) è un borgo acese che si sviluppa tra tipiche viuzze e giardini di limoni. Sul lato settentrionale del Belvedere di Santa Caterina si intravede una piccola strada (via Acqua del Ferro) che attraversa un gruppetto di ville e poi scende verso la sottostante costa, dove si trova una sorgente d’acqua dolce denominata Acqua ‘o ferru. Il percorso si sviluppa attraverso una ripida e poco agevole scalinata composta da 392 scalini, ai lati della quale è possibile osservare alcuni alberi di Carrubo e arbusti ed erbe tipiche dell’ambiente mediterraneo. Fatti i primi 277 gradini (115 in salita) potremo riposarci su un ripiano ombroso (per la presenza di un rigoglioso Caprifico) sul quale c’è una piastra marmorea che reca la scritta: Dedicata a Pina – 1989. Dinnanzi avremo un gruppo di rocce laviche nel caratteristico aspetto colonnare. Continuando la discesa giungeremo in riva al mare. Qui ritroviamo una piccola sorgente Acqu’e ferru dal caratteristico colore rossiccio, causato dalla presenza di ossidi di ferro, che nella fantasia popolare, sulla base dei versi ovidiani, viene attribuito al sangue di Aci. (7)

Pietra Monaca

Pietra Monaca

Pietra Monaca. La località Pietra Monaca (vedi) è un altro dei luoghi della Timpa in cui affiora una sorgente d’acqua dolce. Si trova fra le sorgenti dell’Acqua del Ferro e quelle di Miuccio, in corrispondenza del popoloso quartiere acese del Carmine. Proprio da qui partivano le lavandaie con il voluminoso fagotto di panni (truscia) da lavare, caricato, in bilico, sul capo. Esse imboccavano alcune traverse della via e si portavano su di un ponte che consentiva di superare la linea ferrata Messina-Catania, allora ad un unico binario; da qui si immettevano dapprima su una stradella in leggera pendenza, che era fiancheggiata da agrumeti, e poi scendevano alla marina mediante un ripidissimo sentiero che le portava alla meta. Sia la stradella che il sentiero, originariamente denominati Passu di jusu, presero il nome di via Pietra Monaca dall’esistenza di un macigno che ricordava le sembianze di una monaca coricata. Oggi il percorso ha cambiato sembianze. Nella prima metà degli anni ’60 del XX secolo la costruzione della nuova strada statale 114 interruppe il collegamento fra Acireale e la via Pietra Monaca, poi risolto mediante la costruzione di un sottopassaggio. Negli anni ’70 il raddoppio del binario della linea Messina-Catania, portò alla dismissione della vecchia ferrovia ed alla eliminazione dell’accesso al sottopassaggio appena costruito. Nel tentativo di salvare il ricongiungimento fra Acireale e la via Pietra Monaca fu realizzato un rocambolesco percorso che costeggia il terrapieno della nuova sede ferroviaria: si presenta oggi quasi sempre impraticabile. Chi oggi volesse giungere alle sorgenti della Pietra Monaca o semplicemente ammirare dall’alto il costone su cui si sviluppava la parte estrema del percorso sopraccennato potrebbe usare l’alternativa di via Pianetto (che si apre nei pressi dell’hotel Aloha D’oro). Questa stretta strada conduce dapprima su uno spiazzo panoramico che si affaccia sulla Timpa. Qui avremo un’ampia visuale della costa e del mare sottostante, insieme però all’orribile visione dello scheletro cementizio di una struttura alberghiera iniziata negli anni ’70 e mai completata. Nelle vicinanze troviamo alcune case rurali ed un edificio privato, la “Villa Lina”. Da qui cominciano due sentieri. Andando verso nord è possibile percorrere un breve viottolo senza sbocco, nello splendore della vegetazione mediterranea. Altrimenti è possibile seguire il ripidissimo sentiero verso il mare, oggi difficilmente praticabile per il degrado del tracciato, un tempo costituito per lunghi tratti da scalette in pietra lavica e camminamenti. Giunti sulla battigia si riconoscerà affiorare tra gli scogli, a pochi metri dal mare, quello che probabilmente è l’unico esemplare spontaneo di Tamerice presente lungo il litorale acese. (8)

Chiazzette

Chiazzette

Chiazzette. L’itinerario delle Chiazzette (vedi) è il più accessibile per chi desidera visitare la Riserva ed offre splendidi panorami sulla costa ionica. Oggi provenendo dalla via Romeo, bisogna attraversare il ponte sulla Nazionale. La stradella (oggi denominata via Tocco), composta da sette tornanti, si snoda dalla città di Acireale giù fino al borgo marinaro di Santa Maria la Scala consentendo di superare comodamente il dislivello di 150 metri. La stradella fu riassettata nel secolo XVII su di un preesistente tracciato, realizzando particolarissimi muri di sostegno ad arco e rampe larghe fino a sei metri; per oltre due secoli fu la principale via di collegamento fra Acireale e il sottostante borgo ricco di sorgenti d’acqua dolce e sede di un porticciolo. All’ingresso (sulla Panoramica) c’è una breve scalinata affiancata da un corto scivolo. Corredano la stradella acciottolata alcuni esemplari di Robinia pseudoacacia, relitti dell’antica alberatura, a doppio filare, originariamente costituita da circa 400 alberi. La prima “piazzetta” è dominata da un monumentale esemplare di Platano la cui età è sicuramente da stimare oltre i 150 anni. Superata la curva ci si incammina sulla prima rampa delle Chiazzette, sul cui sfondo si staglia la Fortezza del Tocco: il bastione, edificato a fini difensivi nella prima metà del XVII secolo, è oggi sede del Centro Visite dell’area protetta. Da qui è possibile ammirare un ampio tratto di costa. Lungo la quarta rampa si trova la appella dedicata al SS. Crocifisso della Buona Nuova, risalente alla prima metà dell’ottocento. Sulla settima ed ultima rampa vi sono due alternative: andando dritto si raggiunge la piazza del borgo marinaro, mentre imboccando il sentiero sulla destra, denominato via Miuccio, si giunge preso l’omonima spiaggia. Il percorso che conduce nella piazza principale del paese, dove si trova la Chiesa Madre, è quello originario: costeggia a valle l’abitato e, a monte, i contrafforti della Timpa, lungo cui si aprono gli ingressi di alcune abitazioni. La seconda alternativa scende a zig zag verso la costa con 18 stretti e corti tornanti privi di parapetto e lungo i quali incontriamo vari alberelli di Bagolaro. Il percorso giunge in un ampio piazzale detto del Miuccio, dove si trova il Mulino Testa dell’Acqua. La sorgente che alimentava il mulino, in tempi recentissimi, è stata imbrigliata in una presa d’acqua, e le strutture metalliche stridono con il paesaggio circostante. Superatele si accede alla particolare spiaggia di “cocole” del Miuccio. Lungo tutto il percorso delle Chiazzette si osserveranno alcune piante tipiche della Riserva: oltre al Cappero e al Bagolaro, troviamo l’Euforbia arborea, l’Alaterno, l’Ailanto (specie esotica invasiva), il Terebinto e il Fico d’india. Ma singolare è il rigoglioso popolamento spontaneo di un’altra specie esotica: il Gelso da carta o Broussonezia, importata dal Giappone nel XVIII secolo come albero da ombra, mentre, nel paese d’origine, essa viene coltivata a scopo merceologico, in quanto dalla sua corteccia si ricava un particolare tipo di carta assai resistente impiegata per la stampa delle banconote. (9)

Fortezza del Tocco

Fortezza del Tocco

Fortezza del Tocco. All’inizio del sentiero delle Chiazzette si ritrova la Fortezza del tocco (vedi). Dopo la battaglia di Lepanto si intensificarono le scorrerie turche sulle coste italiane. Acireale venne interessata nel 1582 dal tentativo di sbarco del pirata Luccialì con al seguito sette galee turche nei pressi di Santa Tecla. Il tentativo di sbarco, che venne contrastato e respinto dalla mobilitazione della popolazione, spinse comunque la città a dotarsi di un sistema di difesa dalle scorrerie. Così alla fine del XVI secolo vennero intraprese alcune importanti opere di fortificazione da parte degli spagnoli nel litorale di Acireale, fra cui la Torre Alessandrano e la quadrangolare Torre di Sant’Anna nel borgo di Capo Mulini (1585), la Garitta di S. Tecla e la Fortezza del Tocco (Fortezza seu Bastione) sulla Timpa di Santa Maria La Scala (1592-1616). Le opere si andavano ad innestare in quello che fu il sistema di fortificazioni federiciane, d’epoca sveva, in quello che divenne quindi il sistema difensivo delle Torri costiere della Sicilia. Santa Tecla, la garitta dello “Scalo Pennisi” (XVI secolo). La Fortezza del Tocco venne progettata dall’ingegnere Camillo Camilliani, nella Timpa di Acireale e realizzata dall’ingegnere acese Vincenzo Geremia – detto porcellana. A Geremia si deve, nel 1624, l’aggiunta di un cannoncino portatile. La Fortezza. Nel 1626 vennero eseguiti altri lavori di ampliamento, da alcuni condannati per lavori forzati. Il forte, da cui si gode un ampio panorama sulla costa era a pianta irregolare ed ospitava un grande cannone che, sparando un colpo ad ogni avvistamento di navi pirata, avvertiva la popolazione del pericolo. Nel 1675 la torre venne utilizzata come piazzaforte militare per il cannoneggiamento della flotta francese, che stava cercando di aggirare il blocco composto dalla città e dall’esercito spagnolo durante la guerra franco-spagnola. Nel XIX secolo finite le esigenze difensive il forte fu dismesso ed abbandonato. Il cannoncino portatile sarà tolto nel 1834 e spostato alla Pinacoteca Zelantea, dove è oggi visitabile.

Santa Maria la Scala

Santa Maria la Scala

 

Santa Maria la Scala. Il borgo di Santa Maria la Scala (vedi) si trova sulla costa ionica ai piedi della Timpa,una gigantesca falesia riccamente stratificata, a circa 3 chilometri di strada rotabile da Acireale, di cui costituisce il più prossimo sbocco a mare. Gli abitanti sono localmente conosciuti con il nome di scaloti. La chiesa parrocchiale è del XVII secolo. L’abitato, sovrastato dalla Timpa su cui, a 140 m s.l.m., è posta Acireale, si raccoglie attorno al porticciolo detto Scalo Grande, allungandosi sull’angusto lungomare verso sud dove sorgono alcune interessanti costruzioni per la villeggiatura di fine Ottocento della borghesia acese. All’estremità meridionale della frazione vi è un mulino,detto di Miuccio documentato a partire dal sec.XVI, già ad acqua, alimentato dalla sorgente di Testa dell’acqua che sgorga a pochi metri dal mare dalle viscere della Timpa che è di notevole rilevanza naturalistica. A nord dell’abitato, accessibile via mare, si trova la Grotta delle palombe , un complesso di basalti colonnari parzialmente frantumato dalle mareggiate.Nel 1972 così si è inabissato il caratteristico pugno che si ergeva nello specchio di mare chiuso a sud dalla pietra delle sarpe. Secondo la fantasia popolare era il rifugio amoroso del pastore Aci e della ninfa Galatea.

Miuccio

Miuccio

 

Miuccio. Il borgo di Santa Maria la Scala è ricco di sorgive che sgorgano al mare. Uno dei ruscelletti alimenta il mulino di Miuccio (vedi) che deve il nome alla famiglia proprietaria dell’immobile. Il sito è di un fascino incredibile anche se deturpato dallo scheletro di un albergo mai costruito. Si spera che, come promesso da molti anni, prossimamente si possa procedere alla demolizione di questo eco mostro.

Grotta delle palombe

Grotta delle palombe

Grotta delle Palombe. A nord dell’abitato di Santa Maria la Scala, accessibile via mare, si trova la Grotta delle palombe (vedi) , un complesso di basalti colonnari parzialmente frantumato dalle mareggiate.Nel 1972 così si è inabissato il caratteristico pugno che si ergeva nello specchio di mare chiuso a sud dalla pietra delle sarpe. Secondo la fantasia popolare era il rifugio amoroso del pastore Aci e della ninfa Galatea. Secondo un’altra leggenda la grotta fu di una ninfa, Ionia, che aveva cura dei colombi che ogni inverno si rifugiavano in questa grotta. Purtroppo altre ninfe invidiose ne ostruirono l’entrata facendo morire i colombi e suscitando la disperazione di Ionia che con un grido fece crollare la grotta rimanendo seppellita insieme ai suoi amici.

Grotta santa Maria della neve

Grotta santa Maria della neve

Grotta santa Maria della neve. Sulla strada provinciale che scende verso il mare, a breve distanza dalla Villa Belvedere, si erge una minuscola chiesetta dal nome suggestivo che rievoca tempi e fatti avvolti nella leggenda anche se storicamente collocati a metà del ’700. L’antichissima grotta lavica (vedi), parte integrante dell’attuale chiesetta, che curiose leggende dipingevano come ricettacolo di ladri e assassini o addirittura dimora di demoni ed orride bestie, fu in verità adibita da qualche pastore della zona a ricovero per le capre, o scelta come rifugio provvisorio da qualche “discursore di campagna” nell’attesa di assalire malcapitati viandanti che solitari si avventuravano per quel sentiero. Nel 1752 un pio sacerdote, don Mariano Valerio, per adempiere ad un voto pensò di tramutarla in chiesa con l’intento di esporvi un presepe e ricordare così la nascita di Gesù. Per l’occasione, scrisse pure una collana di sonetti in dialetto siciliano da recitarsi davanti al presepe della Grotta ogni mese. Morto il Valerio, divenne Rettore della chiesa il can. Pasquale Pennini che nel 1820 ampliò la grotta costruendo un pronao con tre colonne e abbellì il prospetto in pietra bianca su cui spiccano i componenti della Sacra Famiglia, ben visibile dal mare di S. Maria La Scala. Qualche anno prima che la chiesetta subisse questi restauri, fu dato l’incarico di rinnovare il presepe ad un bravo artigiano acese, Mariano Cormaci, il quale si era messo in luce avendone costruito uno bellissimo nella chiesa madre di S. Venerina. Il Cormaci,attivo tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800, verso il 1812 plasmò nella cera, insieme allo Zammit, conosciuto come “ u nuticianu” perché proveniente da Noto, e al romano Santi Gagliani, le teste dei pastori; le mani, invece, furono intagliate nel legno ed inseriti in manichini rivestiti con varie stoffe, a seconda del ruolo dei personaggi che risultarono quasi a grandezza naturale. Le stoffe dei vestiti, ad eccezione delle sete e dei damaschi con ricami in oro dei Re Magi, rovinate purtroppo dal tempo, sono state rinnovate, mentre le barbe ed i capelli dei pastori sono ancora gli stessi donati dai fedeli come ex voto. Gli animali presenti sulla scena, pecore e conigli, sono stati modellati in gesso. Per questi lavori eseguiti con tecniche raffinate e con risultati artistici veramente sorprendenti, il Cormaci ricevette un compenso annuo di onze due e tarì 15, poca cosa per un lavoro così ben fatto. Si disse – ma è solo una diceria – che per modellare quelle teste l’artista avesse usato una tecnica segreta, poiché i successivi restauri non riuscirono ad imitare la tecnica conosciuta solo da sua nipote: in seguito alcuni volti furono rinnovati in gesso o in cartapesta con risultati meno apprezzabili, tanto che nei restauri del 1984 sono stati accantonati. Le figure sono di un realismo impressionante e formano un’interessante tipologia popolare e un ricco campionario di costumi dell’epoca. Lo spettatore, colpito dalla dolcezza dell’evento narrato a cui partecipa la natura tutta, è attratto da “Jnnaru”, coperto di stracci, contento di stare a scaldarsi davanti al braciere. Tra i personaggi tipici ricordiamo anche il Suonatore di cornamusa, lo Spaventato della grotta, i numerosi contadini – belli, dolci, estatici – che recano in dono ceste di arance, fiscelle di ricotta ed altre umili cose che poveri pastori “alla campìa” potevano offrire a Gesù appena nato. Tutti fanno da corona alla Sacra Famiglia: a fianco a Maria che osserva estasiata la sua Creatura con un sguardo materno pieno di dolcezza c’è S. Giuseppe, pensoso, appoggiato al suo bastone; e tutti sembrano cantare, per celebrare la sacralità della vita, il terzo “mistero gaudioso” nel colorito dialetto:

 

Parturistuvu Gran Signura

‘nta ‘na povera mangiatura:

e nasciu Gesù Bammineddu,

‘mmenzu ‘nvoi e ‘n’asineddu.

Sul finire dell’800, la chiesetta che intanto aveva preso pure il nome di S. Maria della Neve, restò chiusa per qualche anno, ma a partire dal 1900, grazie all’interesse della nobildonna M. Serafina Pennisi, erede dei Valerio, fu riaperta al pubblico per le festività natalizie con la celebrazione di una messa presieduta dal vescovo mons. Genuardi. Nel 1984 la Sovrintendenza per i beni culturali di Catania ha restaurato ogni componente del Presepe facendo sì che fosse cancellata l’usura del tempo e la violenza di discutibili restauri precedenti. All’ingresso, sulla stretta parete del pronao fa bella mostra di sé la splendida pala d’altare di Vito D’Anna raffigurante la “Natività”, forse dipinta nel 1740, dal pittore palermitano poco più che ventenne negli anni in cui frequentava la bottega del nostro Paolo Vasta, i cui influssi sono evidenti. Delicato il volto della Madonna, ricche le vesti della giovane donna che invita il figlioletto a rendere omaggio al Bambino Gesù mentre sullo sfondo, nella penombra, S. Giuseppe manifesta la sua ieratica, discreta presenza a così grande mistero. (11)

Timpa Falconiera

Timpa Falconiera

Timpa Falconiera. La Timpa di Santa Tecla o Falconiera (vedi) va dalla località Grotte di Acireale alla contrada Mortara, nei pressi di Santa Maria Ammalati. La sua base, contrariamente alle altre porzioni della Timpa, non è a diretto contatto con il mare, ma al di sotto di essa si estende una spianata (Pedi ‘i Timpa) in cui si sviluppa un’area coltivata a limoni e vi è insediato il borgo marinaro di Santa Tecla. La vegetazione naturale si è qui ben conservata nei terreni a ripida pendenza solcati da naturali canaloni (lavanara) formati dal deflusso delle acque, mentre le superfici più accessibili furono messe a coltura con lavori di dissodamento (scatinu) e di sistemazione con terrazzamenti (custeri) in pietra lavica. La linea ferroviaria dismessa offre l’opportunità di attraversare longitudinalmente la Timpa di Santa Tecla consentendo una vera e propria immersione in questa parte della Riserva. Il vecchio tracciato ferroviario è una tratta della ferrovia statale a binario unico costruita nella seconda metà del secolo XIX e disattivata negli anni sessanta in seguito alla realizzazione del nuovo tracciato a doppio binario in galleria a monte della medesima. Il tratto in disuso prende avvio da località Grotte e termina presso la contrada Mortara, accanto alla nuova strada ferrata. Tutto il percorso, lungo circa 3 Km (cioè per l’intera estensione della Timpa di Santa Tecla) si presenta perfettamente pianeggiante e procede in parte incassato fra gli alti muraglioni paraterra in pietra lavica, in parte lungo quattro tunnel e, per lunghi tratti, consente ampie vedute sulla sottostante spianata. Si potranno osservare, a distanza ravvicinata, le particolari rocce che compongono la Timpa, le “opere d’arte” della antica ingegneria ferroviaria e soprattutto la vegetazione che cresce lungo i suoi fianchi, costituita da essenze della macchia, non che da tratti di vegetazione boschiva, composta da Querce e Bagolaro. Da qui si potranno ammirare, sul lato mare, bei panorami verso la borgata di Santa Maria La Scala e, a monte, ville e imponenti opere di terrazzamento abbandonate. Avanzando per qualche centinaio di metri ci si inoltrerà fra alte pareti paraterra, imbattendosi nei resti di una galleria di scorrimento lavico. Questa grotta venne tranciata in due parti durante lo scavo della linea ferrata: nel troncone rivolto a marina si notano chiaramente le sezioni di due caratteristici rotoli laminari, mentre il troncone a monte è protetto da manufatti in muratura, in quanto esso fu modificato come luogo di riparo per gli addetti alla manutenzione ferroviaria. Procedendo ancora verso nord ci si parerà davanti l’ingresso di un primo tunnel ferroviario (in effetti il secondo del sistema, in quanto il primo è stato escluso dal nostro percorso), lungo circa 250 metri, che riceve luce dalle due estremità e da un’ampia finestra che si apre sul lato di levante. Andando ancora avanti vi sono altre due tunnel, il primo dei quali è rettilineo e breve (circa 150 metri), pertanto risulta decisamente illuminato dalla luce solare; nel suo interno troviamo varie nicchie laterali, ricavate per accogliere gli operai che lavoravano sulla linea ferrata al passaggio dei treni. Il secondo è lungo 468 metri, come si legge su una targa applicata nell’ingresso sud: per attraversarlo è necessario munirsi di una torcia. Sulla chiave dell’arco del suo ingresso nord si trova incisa la data “1912”: risale all’epoca in cui furono effettuati lavori di consolidamento a protezione del tunnel. Appena fuori dalla galleria lo sguardo si apre sul sottostante paesaggio, in cui emergono le borgate di Santa Tecla, Stazzo e Pozzillo. Sul lato a monte sarà invece possibile ammirare la boscaglia a Roverella tra cui spicca, proprio accanto un lavanara, un bellissimo esemplare di Lentisco. Da qui inizia un lungo tratto scoperto (circa 1200 m), in cui il lato a monte si rivolge verso aree collinari terrazzate e quello a mare sovrasta il già menzionato Pedi ‘i Timpa, con tutto il paesaggio multicolore delle colture e della costa ionica che si perde all’orizzonte. Al di là dell’insensato cancello si trova la parte settentrionale della Timpa di Santa Tecla, cioè la contrada Mortara, caratterizzata da estesi poderi coltivati a limone, straordinariamente abbarbicarti su precari terrazzamenti. Percorsi circa 200 metri si giunge ad un bivio: si imbocchi il ramo di destra, poiché quello di sinistra cambia denominazione (via D’Amico) e conduce presso la frazione di Scillichenti. Scendendo fra alte spallette dopo un po’ la strada si allarga e compie un’ampia curva ad U che sovrasta un ponte sulla nuova ferrovia. Da qui si gode di un ampio panorama sulla piana di Santa Tecla e sulle ubertose coltivazioni di agrumi che si abbarbicano sopra questa parte della Timpa. Andando ancora avanti sembra che la via Mortara finisca in un gruppo di caseggiati rurali, mentre in effetti continua con un percorso a T: il ramo verso est diventa una carrareccia difficilmente praticabile, mentre il ramo ad ovest si chiude a fondo cieco. In quest’ultimo è ubicato l’accesso ad un fondo privato chiuso da un cancello corredato da una caratteristica edicola votiva sovrastata da un cipresso. Affiancato a questo cancello ne troviamo un secondo che, se fosse aperto, introdurrebbe da nord alla sede del vecchio tracciato ferroviario. Il ramo verso est, una carrareccia dal fondo molto accidentato e scosceso, si ricongiunge nuovamente sulla strada asfaltata che conduce alla provinciale per Riposto, nei pressi del borgo di Santa Tecla. (12)

Grotta Falconiera

Grotta Falconiera

Grotta Falconiera. Lungo l’omoni a timpa la grotta Falconiera (vedi) è una grotta lavica visibile su entrambi i lati del percorso presumibilmente “tagliata” quando si è sviluppato il tracciato della ferrovia. In essa si riscontrano notevoli rotoli lavici.

Grotta Scannato

Grotta Scannato

Grotta Scannato. La grotta Scannatu (vedi) è formata da un’ampia galleria di scorrimento. L’ingresso, volto a nordovest, misura una decina di metri di larghezza e oltre sei metri di altezza ed è parzialmente occluso da manufatti in pietra e malta. Presso l’entrata della grotta si nota, a ridosso della parete sud, un calcinaio in pietra lavica. Il primo tratto della cavità è ampio circa quindici metri, alto circa sette metri, ha sezione ogivale e si estende per circa quarantacinque metri. Lungo la parete sud si nota un grosso rotolo di lava del diametro di un metro e mezzo. La grotta continua in direzione nordest, ad un livello di un metro più alto, con una galleria dalla volta bassa che presenta diverse ramificazioni. Quelle più ampie si aprono verso nord e vi si notano piccoli rotoli di lava addossati alle pareti e rare stalattiti da rifusione. Il pavimento si presenta notevolmente rimaneggiato nel primo tratto della cavità; nel secondo tratto è di lava a superficie unita, parzialmente coperta da uno strato di fango. Si notano alcune radici pendenti dalla volta. (13)

Santa Tecla

Santa Tecla

Santa Tecla. Posta a nord-est di Acireale ed adagiata ai piedi della Timpa falconiera, Santa Tecla (vedi) è oggi un centro balneare e residenziale. Le prime notizie storiche di Santa Tecla risalgono al XIII secolo e quindi la nascita del borgo ha preceduto quella tradizionale di Aquilia (oggi Acireale) datata nel XIV secolo approssimativamente. A partire dal XVI secolo a causa di alcune scorrerie di corsari turchi venne dotata di una garitta di guardia, che tuttavia non riuscì a difendere la frazione dal pirata Luccialì, che proprio lì sbarcò il 3 maggio 1582 al comando di sette galee e ben trecento pirati.

Torre del Greco

Torre del Greco

Torre del Greco. A partire dal XVI secolo, a causa di alcune scorrerie di corsari turchi, la frazione di Santa Tecla venne dotata di una garitta di guardia (vedi), che tuttavia non riuscì a difendere la frazione dal pirata Luccialì, che proprio lì sbarcò il 3 maggio 1582 al comando di sette galee e ben trecento pirati. Ai limiti del fiabesco la vita di questo pirata di origini calabresi. Uluch Alì nacque in Calabria, probabilmente col nome di Giovanni Dionigi Galeni, nel 1519. Stava per entrare in convento e divenire monaco, quando fu catturato dal corsaro algerino Khayr al-Dīn Barbarossa nel 1536 a Le Castella, presso Isola di Capo Rizzuto in Calabria. Fatto prigioniero e messo al remo, rinnegò la religione cristiana dopo alcuni anni, per poter uccidere un turco che lo aveva schiaffeggiato e non essere di conseguenza ucciso in base alla legge islamica[5]. Diventato musulmano, sposò la figlia di un altro calabrese convertito, Jaʿfar Pascià e iniziò la propria carriera di corsaro, con grande successo. Divenne dapprima comandante della flotta di Alessandria, poi pascià d’Algeri, e infine bey (governatore) di Tripoli. Da corsaro imperversò in tutto il Mar Mediterraneo. Opera sua furono le catture nei pressi di Favignana della galera di Pietro Mendoza (1555 ca.), a Marettimo quella di Vincenzo Cicala e Luigi Osorio (1561). Il suo nome è legato a numerose incursioni sulle coste italiane, soprattutto quelle del Regno di Napoli, allora dominio spagnolo. Secondo alcune voci dell’epoca, tramò anche con vari cospiratori calabresi per staccare la Calabria dai regni spagnoli e unirla ai domini turchi. Partecipò alla battaglia di Gerba nel 1560 e successivamente cercò di catturare il duca Emanuele Filiberto di Savoia presso Nizza. Nel 1564 partecipò ai ripetuti assalti e ai saccheggi del paese di Civezza, nell’attuale provincia di Imperia. L’eroica resistenza della popolazione del piccolo paesino passò alla storia. Subentrò a Dragut a capo della flotta ottomana, quando questi morì durante l’assedio di Malta del 1565. Fu quindi autore di rilevanti imprese belliche, fra le quali l’assalto e il successivo assedio nell’agosto 1571 della città dalmata di Curzola. Considerato il miglior ammiraglio della flotta ottomana, nell’ottobre del 1571 combatté a Lepanto contro Gianandrea Doria. Riuscì ad insidiare Don Giovanni d’Austria ed a riportare in salvo una trentina di navi turche recando ad Istanbul, come trofeo, lo stendardo dei Cavalieri di Malta dopo una precipitosa fuga durante l’infuriare della battaglia. Dopo questa battaglia ottenne dal Sultano ottomano Selim II il titolo di ammiraglio della flotta turca e l’appellativo di Kılıç Alì (Alì la Spada). Forte della nuova carica ricostruì in un anno la flotta distrutta a Lepanto e nel 1572 riuscì a sfidare ancora le flotte cristiane, anche se con scarso successo. Nel 1574 riconquistò all’impero ottomano Tunisi, che era stata espugnata l’anno prima dalla flotta cristiana. Morì nel luglio del 1587 nel suo palazzo sulla collina di Top-Hana vicino Istanbul e lasciò ai suoi numerosi schiavi e servitori case e beni di proprietà, concentrati in un villaggio da lui fondato e chiamato “Nuova Calabria”. Secondo alcuni resoconti, in punto di morte sarebbe tornato alla fede cristiana, ma gli storici turchi negano con decisione questa eventualità, visto che già in vita gli erano stati offerti feudi e ricchezze in terre cristiane che egli aveva sempre rifiutato preferendo la libertà di costumi di cui godevano a quel tempo i cristiani convertiti all’Islam. Altra leggenda che circola sul suo nome racconta di un viaggio clandestino sulla costa calabrese al solo scopo di riabbracciare la madre che, stando alle cronache coeve, lo avrebbe invece maledetto proprio per la sua abiura. Ricerche recenti, però, ascrivono questa leggenda alla propaganda spagnola ed ecclesiastica.

Pagine Etnanatura:

Foto Etnanatura e Michele Torrisi

Sitografia:

Dove non specificato le notizie sono dovute a Wikipedia

1) INGV Catania. http://www.ct.ingv.it/it/component/content/article/29-uf-vulcanologia-e-geochimica/etna/161-evoluzione-geologica-del-monte-etna.html?showall=&start=2

2) http://digilander.libero.it/latimpa/it/fauna/ fauna.html

3) http://digilander.libero.it/latimpa/it/flora/flora.html

4) http://riservalatimpa.blogspot.it/2011/06/sentiero-della-gazzena.html

5) http://www.startnews.it/notizie/START_WRITE_NEWS_10.ASP?KEY=4553

6) http://riservalatimpa.blogspot.it/2011/06/sentiero-delle-acquegrandi.html

7) http://riservalatimpa.blogspot.it/2011/06/santa-caterina-e-lacqua-del-ferro.html

8) http://riservalatimpa.blogspot.it/2011/06/pietra-monaca.html

9) http://riservalatimpa.blogspot.it/2011/06/le-chiazzette.html

10) http://www.ipaesaggi.eu/itinerari/88-capomulini.html

11) Testo tratto dall’opuscolo “Angeli e Campane”

12) http://riservalatimpa.blogspot.it/2011/06/la-timpa-di-santa-tecla.html

13) http://www.mungibeddu.it/mungibeddu/schede/060.html

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La cometa dei Magi

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Screenshot - 02_01_2015  09_05_21La cometa C/2014 Q2 è stata scoperta da Terry Lovejoy il 17 Agosto 2014. È una cometa a lungo periodo, circa 11.500 anni, che diventerà visibile per gran parte della notte dall’emisfero nord nei prossimi giorni. Attualmente la cometa si trova tra le costellazioni della Lepre e dell’Eridano, nei pressi di Orione, e si sta avvicinando alla Terra. La minima distanza di C/2014 Q2 dalla Terra, pari a circa 70 milioni di km, verrà raggiunta il 7 Gennaio. Le due settimane successive dovrebbero essere quelle di migliore visibilità, in coincidenza con l’avvicinarsi della cometa al Sole. La cometa raggiungerà il perielio, ovvero la minima distanza dal Sole, il 30 Gennaio, in quel momento disterà dalla nostra stella circa 193 milioni di km. Come spesso accade per le comete la massima luminosità non è facilmente prevedibile, secondo alcune stime C/2014 Q2 potrebbe risultare visibile a occhio nudo da località con basso inquinamento luminoso, di certo sarà comunque visibile con un binocolo o con un piccolo telescopio. Alla fine di Gennaio la luminosità della cometa comincerà a diminuire. Anche se sarà ancora visibile per molti mesi, passerà nei pressi della Stella Polare nel mese di Maggio.

Nella ricostruzione grafica, da sinistra verso destra, la posizione della cometa nei giorni 4, 9 e 14 Gennaio.

Informazioni scientifiche a cura dell’Osservatorio Astrofisico di Catania.

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Pubblicato in News

Torre del Greco

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19-03-2013 14-28-36A partire dal XVI secolo, a causa di alcune scorrerie di corsari turchi, la frazione di Santa Tecla venne dotata di una garitta di guardia, che tuttavia non riuscì a difendere la frazione dal pirata Luccialì, che proprio lì sbarcò il 3 maggio 1582 al comando di sette galee e ben trecento pirati. Ai limiti del fiabesco la vita di questo pirata di origini calabresi. Uluch Alì nacque in Calabria, probabilmente col nome di Giovanni Dionigi Galeni, nel 1519. Stava per entrare in convento e divenire monaco, quando fu catturato dal corsaro algerino Khayr al-Dīn Barbarossa nel 1536 a Le Castella, presso Isola di Capo Rizzuto in Calabria. Fatto prigioniero e messo al remo, rinnegò la religione cristiana dopo alcuni anni, per poter uccidere un turco che lo aveva schiaffeggiato e non essere di conseguenza ucciso in base alla legge islamica[5]. Diventato musulmano, sposò la figlia di un altro calabrese convertito, Jaʿfar Pascià e iniziò la propria carriera di corsaro, con grande successo. Divenne dapprima comandante della flotta di Alessandria, poi pascià d’Algeri, e infine bey (governatore) di Tripoli. Da corsaro imperversò in tutto il Mar Mediterraneo. Opera sua furono le catture nei pressi di Favignana della galera di Pietro Mendoza (1555 ca.), a Marettimo quella di Vincenzo Cicala e Luigi Osorio (1561). Il suo nome è legato a numerose incursioni sulle coste italiane, soprattutto quelle del Regno di Napoli, allora dominio spagnolo. Secondo alcune voci dell’epoca, tramò anche con vari cospiratori calabresi per staccare la Calabria dai regni spagnoli e unirla ai domini turchi. Partecipò alla battaglia di Gerba nel 1560 e successivamente cercò di catturare il duca Emanuele Filiberto di Savoia presso Nizza. Nel 1564 partecipò ai ripetuti assalti e ai saccheggi del paese di Civezza, nell’attuale provincia di Imperia. L’eroica resistenza della popolazione del piccolo paesino passò alla storia. Subentrò a Dragut a capo della flotta ottomana, quando questi morì durante l’assedio di Malta del 1565. Fu quindi autore di rilevanti imprese belliche, fra le quali l’assalto e il successivo assedio nell’agosto 1571 della città dalmata di Curzola. Considerato il miglior ammiraglio della flotta ottomana, nell’ottobre del 1571 combatté a Lepanto contro Gianandrea Doria. Riuscì ad insidiare Don Giovanni d’Austria ed a riportare in salvo una trentina di navi turche recando ad Istanbul, come trofeo, lo stendardo dei Cavalieri di Malta dopo una precipitosa fuga durante l’infuriare della battaglia. Dopo questa battaglia ottenne dal Sultano ottomano Selim II il titolo di ammiraglio della flotta turca e l’appellativo di Kılıç Alì (Alì la Spada). Forte della nuova carica ricostruì in un anno la flotta distrutta a Lepanto e nel 1572 riuscì a sfidare ancora le flotte cristiane, anche se con scarso successo. Nel 1574 riconquistò all’impero ottomano Tunisi, che era stata espugnata l’anno prima dalla flotta cristiana. Morì nel luglio del 1587 nel suo palazzo sulla collina di Top-Hana vicino Istanbul e lasciò ai suoi numerosi schiavi e servitori case e beni di proprietà, concentrati in un villaggio da lui fondato e chiamato “Nuova Calabria”. Secondo alcuni resoconti, in punto di morte sarebbe tornato alla fede cristiana, ma gli storici turchi negano con decisione questa eventualità, visto che già in vita gli erano stati offerti feudi e ricchezze in terre cristiane che egli aveva sempre rifiutato preferendo la libertà di costumi di cui godevano a quel tempo i cristiani convertiti all’Islam. Altra leggenda che circola sul suo nome racconta di un viaggio clandestino sulla costa calabrese al solo scopo di riabbracciare la madre che, stando alle cronache coeve, lo avrebbe invece maledetto proprio per la sua abiura. Ricerche recenti, però, ascrivono questa leggenda alla propaganda spagnola ed ecclesiastica.
Da Wikipedia

Pagina Etnanatura: Torre del Greco.

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