I laghetti di Cesarò

Share Button

Parco_dei_NebrodiI laghi di Maluazzo e di Biviere si trovano sul versante meridionale dei Nebrodi, nei pressi di monte Soro, e ricadono entrambi all’interno del parco dei Nebrodi. Entrambi sono circondanti da una lussureggiante vegetazione costituita per gran parte da una folta faggeta. Ricchi di piante endemiche quali la bellissima Glyceria fluitans, la Typha latifolia, il Trifolium repens, la Mentha pulegium ed altre piante acquatiche. E’ facile notare delle particolari ondulazioni delle acque formate dal nuoto flessuoso delle bisce d’acqua (Natrix natrix) mentre, nelle giornate di sole, la testuggine palustre siciliana (l’Emys Trinacris) si riscalda sulle rive generose di cibo. La popolazione avicola è ricca di Poiane (Buteo buteo), Gheppi (Falco tinnunculus), Falchi Pellegrini (Falco peregrinus), lo Sparviero (Accipiter nisuss) e la rarissima Cincia bigia di Sicilia (Parus palustris siculus), che costituiscono avifauna stanziale.

Foto di Santo Bella

Sito Etnanatura: I laghetti di Cesarò

Share Button

San Giovanni de Freri

Share Button

16-04-2014 07-12-06L’arco di San Giovanni, risalente al XV sec. d.C., rimane una testimonianza del portale della chiesa di San Giovanni de’ Freri, si trova ad angolo tra la via Mancini e la via Cestai. Si presenta con dei chiari motivi floreali inseriti lungo tutto il perimetro di pietra lavica dell’arco a sesto acuto. I tratti sembrano richiamare il classico stile dell’architettura privata siciliana trecentesca del “chiaramontano” nome proveniente appunto da una potente famiglia siciliana del 300. Venne inglobato nel muro del palazzo intorno al 1890.

Sito Etnanatura: San Giovanni de’ Freri.

Share Button

Cascate del Catafurco

Share Button

25-02-2014 18-15-15Il percorso verso le cascate del Catafurco attraversa campagne coltivate e zone aperte destinate al pascolo, Villaggio Molise, tipico esempio di aggregazione rurale, di grande valore etno-antropologico, di cui oggi possiamo ammirare solo dei ruderi e delle casupole realizzate in pietra senza l’uso di malta. La cascata del Catafurco è una cascata naturale che si forma in corrispondenza di un dislivello di circa 30 m lungo il corso del torrente San Basilio. Alla base della cascata le acque si raccolgono in una cavità naturale, scavata nella roccia, chiamata Marmitta dei Giganti, dove, nella bella stagione, è possibile bagnarsi.

Foto di Michele Torrisi e Concetto Mazzaglia

Sito Etnanatura: Cascate del Catafurco.

Share Button

Giornata della Terra

Share Button

800px-Earth_flag_PDEtnanatura partecipa alla Giornata della Terra indetta dalle Nazioni Unite per affermare la necessità della salvaguardia dell’ambiente. Nata il 22 aprile del 1970 come movimento universitario, la Giornata della Terra vuole ricordarci l’importanza di promuovere uno sviluppo eco sostenibile salvaguardando la biodiversità e il territorio.

Share Button

Torre del Grifo

Share Button

L’undici di Maggio 1537 giorno di Venerdì fu fatta in Mongibello un’altra cruenta nel luogo dimandato le Fontanelle sotto il Monte, che dicono la schiena dell’Asino presso il Zaccano del Rizzo; vicino a quella si apersero più buchi; i quali tutti somministravan fuoco. Dall’una parte l’incendio trascorse infino a Santo Antonio, dall’altra infino alla torre di grifo.

Il Mongibello (1636 pag. 123) descritto da Don Pietro Carrera.

Continua a leggere

Share Button

Palazzo Platamone

Share Button

09-03-2014 13-26-07Il palazzo Platamone alla marina era ubicato tra il porto Saraceno ed il porto Pontone che rappresentavano i due più importanti approdi della Catania medievale. Apparteneva alla illustre e ricca famiglia dei Platamuni che si distinse nel campo commerciale ma che ebbe anche importanti esponenti che primeggiarono nell’ambiente politico ed ecclesiastico. Tra essi Battista Platamuni Viceré di Sicilia nel 1436 e segretario del re Alfonso il Magnanimo dal quale ricevette l’investitura del fondo di Aci; Giuseppe, dell’ordine dei domenicani, che nel 1530 tenne il discorso ufficiale nella cattedrale di Bologna per l’incoronazione dell’Imperatore Carlo V alla presenza del Pontefice Clemente VII; Antonio Vescovo di Malta; la venerabile suor Agata alla cui preghiera si raccomandava da Madrid il medesimo re Filippo II. A questo casato la ricchezza proveniva comunque dal commercio dei prodotti agricoli, del bestiame e dei tessuti esportati da Catania via mare nonché dall’attività svolta da alcuni esponenti della famiglia che esercitavano la professione di affermati banchieri. Il loro palazzo sorgeva nell’area sulla quale successivamente fu eretto il monastero di San Placido, che spesso ospitò la Regina Bianca, moglie di re Martino il Giovane. La medesima regina di Navarra per agevolare i traffici commerciali dei Platamuni aveva concesso l’apertura di una posterna nelle mura di cinta del baluardo adiacente alla casa di Don Antonio Platamuni. Questo privilegio fu goduto successivamente dai principi di Biscari. Le case dei Platamone si trovano inserite nel monastero perché già nel XV secolo la famiglia le aveva donate ai religiosi. Secondo la tradizione la dimora era stata edificata sui ruderi del tempio dedicato a Bacco. Le scosse sismiche del 9 e dell’11 gennaio del 1693 distrussero le fabbriche del monastero ed al sisma sopravvissero solo due monache; quanto rimasto in piedi venne, poi, abbattuto durante la ricostruzione della città. Nel periodo post-terremoto, così come era accaduto per altri monasteri femminili di Catania, al monastero di San Placido venne assegnato un intero isolato della nuova città, il sito era più ampio di quello prima del terremoto e solo in parte si sovrapponeva all’area preesistente. Oltre 100 anni durarono i lavori di ricostruzione del monastero e furono spese migliaia di onze. A questa ricostruzione parteciparono alcuni fra i protagonisti della rinascita della città: Alonzo Di Benedetto, l’architetto Giuseppe Palazzotto, Francesco Battaglia e Giovan Battista Vaccarini, mentre per il nuovo prospetto della Chiesa, iniziato nel 1768, le monache si affidarono all’architetto Stefano Ittar. Il convento è costituito da tre elevazioni, due delle quali risultano realizzate in maniera esaustiva, mentre l’ultima è quasi completamente scoperta, costituita dalla semplice parete di prospetto sia per rapportare l’altezza dell’edificio monastico a quello della chiesa sia per “difendere” la clausura delle monache. All’interno del cortile, sul fondo, si possono notare i resti di Palazzo Platamone risalente al XV secolo. Si può ammirare un profondo archivolto, sormontato da un balcone con parapetto decorato con un motivo a chevron, cioè con fasce bicolori – pietra calcarea e schiuma lavica. L’archivolto è formato da numerose mensole sempre in pietra calcarea legate fra di loro con una serie di piccoli archi ogivali decorati con motivi vari. Al centro lo stemma della famiglia, dove vi è raffigurato un monte sovrastato da tre conchiglie e a loro volta sormontate da un giglio. Questa loggia costituisce la sola testimonianza che ci resta della città tardo-medievale.

Da http://www.comune.catania.it/la_citt%C3%A0/culture/monumenti-e-siti-archeologici/palazzo-platamone-convento-san-placido/storia/

Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Palazzo Platamone.

Share Button

Il castello della Solicchiata

Share Button

30-03-2014 10-13-14Il castello della Solicchiata, di proprietà del barone Antonino Spitaleri, sorge appena pochi chilometri fuori dall’abitato della città di Adrano. Fu eretto intorno al 1875 per volere del barone Spitaleri che intendeva costruire nella contrada Solicchiata un edificio adibito ad uso rurale. Divenne un’importante industria per la produzione del vino, il così detto “Vino della Solicchiata”. L’architettura si rifà allo stile medioevale, il castello è costruito in pietra lavica, circondato da un fossato ed accessibile quindi tramite un ponte levatoio.
Il vino “Castello Solicchiata” è da ricordare come il primo taglio bordolese d’Italia vinificato col metodo francese. Nel 1855 il Barone Felice Spitaleri di Muglia mise a dimora sull’Etna tra gli 800 e i 1.000 metri d’altezza, nel feudo Solicchiata, in ampie terrazze vulcaniche, i vitigni bordolesi Cabernet franc Merlot e Cabernet sauvignon gli stessi che ancora oggi producono questo importante vino. Il Castello Solicchiata ricevette il primo premio all’Esposizione di Londra nel 1888, il Grande Diploma d’Onore e Medaglia d’Oro a Palermo nel 1889, Vienna 1890, Berlino 1892, Bruxelles 1893, Milano 1894 e fu la prima fornitura ufficiale della Real Casa d’Italia. Il Barone Spitaleri ebbe il privilegio di potere innalzare lo stemma reale sul detto castello per il progresso enologico del Regno d’Italia. Il Barone Spitaleri produsse pure i primi Pinot nero d’Italia, la cui base fornì la formula del primo Etna rosso da lui stesso inventato e la produzione nei migliori terroirs dell’Etna del Boschetto Rosso (Pinot nero) e del Sant’Elia (Pinot nero) premiati a Londra nel 1888, Bruxelles 1893, Zurigo 1894. Fu tra i primi produttori di champagne d’Italia, con lo Champagne Etna, ed in assoluto il primo produttore di cognac italiano, con il Cognac Etna.

Info tratte da Wikipedia e dal sito web http://www.castellosolicchiata.it/
Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Castello della Solicchiata.

Share Button

Una notte di stelle cadenti

Share Button

liraLe Liridi sono uno sciame meteorico attivo dal 15 aprile al 28 aprile di ogni anno. È il primo sciame di cui si hanno osservazioni storiche, fu osservato per la prima volta dai Cinesi alcuni secoli A.C. Lo sciame è stato originato dalla cometa C/1861 G1 (cometa Thatcher), che ha un periodo di oltre 400 anni. Tempo permettendo si può tentare un’osservazione delle stelle cadenti nella notte fra il 22 e il 23 aprile puntando il cielo a mezzanotte verso est vicino la costellazione della Lira facilmente individuabile per la presenza di Vega, una fra le stelle più luminose del nostro cielo. Ovviamente allontanatevi dalle luci della città (potrebbe essere l’occasione per una romantica passeggiata notturna fra i boschi dell’Etna).

Share Button
Pubblicato in News

Acquedotto Romano

Share Button

27-02-2014 20-47-29L’acquedotto romano di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo etneo. Nonostante la struttura fosse imponente e piuttosto articolata e sebbene fino al XIX secolo non manchino attestazioni del suo utilizzo in alcune sue parti, della presenza di tale sistema idrico non si ha menzione nelle fonti classiche. La prima citazione la compie il Fazello nella seconda metà del XVI secolo che lo definisce ricco di acque e monumentale come quelli di Roma, mentre è in Bolano la prima descrizione dell’acquedotto in rapporto alla città: esso si diramava in tre direzioni, corrispondenti ad altrettanti quartieri civici. Nel Seicento Pietro Carrera e nel secolo successivo Vito Maria Amico e Ignazio Paternò Castello descrivono ampiamente il monumentale sistema idrico, tuttavia le prime immagini che lo ritraggono si devono a Jean Houel che nel suo Voyage pittoresque des isles de Sicile, de Malta et de Lipari illustra alcuni tratti dell’acquedotto, nonché la così detta botte dell’acqua di Santa Maria di Licodia, una grande cisterna chiusa con volta a botte e separata in due ambienti da un alto divisorio, identificata quale la cisterna di raccolta delle sorgive destinate alla distribuzione idrica. Nel XIX secolo la struttura, caduta ormai nel disinteresse, subisce nuovi danneggiamenti ad opera umana (già lo storico Francesco Ferrara ricorda come per la realizzazione delle mura di Catania e per la passeggiata della Marina vennero demoliti gli archi della contrada Sardo e ancora Vincenzo Cordaro Clarenza nel 1833) nonostante nel contempo inizino ad esserci i primi interessi tecnico-scientifici sul monumento, tra cui il Duca di Carcaci ne ipotizza una portata di 46 zappe. L’ingegnere Luciano Nicolosi pubblica la prima monografia sul monumento in cui ne descrive l’aspetto tecnico analizzando tracciato, dimensioni del canale, materiale usato (per l’esterno, come per l’interno del canale) e ipotizza a circa 30.000 cubi di acqua al giorno la portata dell’acquedotto. Nel 1964 l’archeologa Sebastiana Lagona ha per la prima volta usato criteri scientifici moderni nell’analisi dell’edificio e nel 1997 viene pubblicato, a cura della dott.ssa Gioconda Lamagna uno studio accurato del tratto paternese del grande complesso. Infine il 10 maggio 2003, nell’auditorium “Don L. Milani” di Paternò, in occasione della V Settimana della Cultura si è tenuto un convegno con l’acquedotto catanese come tema principale, a cura dell’organizzazione SiciliAntica, con il patrocinio del Comune di Paternò e la collaborazione del Centro Universitario di Topografia antica (CE.U.T.A. dell’Università di Catania) e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Catania. Per l’approvvigionamento idrico la città di Katane, nome di fondazione del capoluogo etneo, faceva largo uso delle emergenze che ne bagnavano il suolo. Essendo fondata su un terreno di natura argillosa non erano infrequenti le nascite di sorgive presso le colline che circondavano l’abitato (Monte Po, il Poggio Cibali, Monte San Paolillo, lo stesso Colle di Montevergine sono tuttora ricche alla base di sorgenti spontanee), spesso caratterizzate da sacche o polle d’acqua destinate a estinguersi con la stagione secca; non mancavano nemmeno risorse idriche costanti, come i fiumi – l’Amenano che bagnava la città, il Longane che la lambiva a nord, lo Judicello, ramo a sud dello stesso Amenano – o la Gurna di Aniceto, noto come lago di Nicito. Tuttavia, sin dal 693 a.C., il territorio catanese venne sconvolto dalle eruzioni dell’Etna che contribuirono a rendere instabile la presenza di risorse idriche: il fiume Amenano diventa debole e fiacco e lo stesso lago di Nicito si svuotava lasciando terreni (…) adatti alla coltura. Ovidio racconta che il fiume catanese scorre trascinando sicule sabbie, ora è secco come se le sue fonti si fossero inaridite. Le sorgenti prossime alla città dunque non bastarono più a soddisfare il fabbisogno di acqua e in età non ben identificata iniziò la costruzione del lungo acquedotto che avrebbe giunto le sorgenti di Santa Maria di Licodia con Catania. La presenza della grande struttura è certa solo dall’età augustea in poi, in quanto si rinvenne presso la sua parte iniziale una lapide incisa con i nomi dei curatores aquarum e databile al I secolo, oggi custodita al Museo civico catanese del Castello Ursino. Secondo le fonti in età augustea Catina (il nome latino dell’antica Katane) viene eletta al rango di colonia ed è probabile che questo cambio di status abbia anche permesso uno sviluppo della città etnea e relativa necessità di approvvigionamento idrico e da qui l’esigenza di un tale monumento. L’edificio subì diversi danneggiamenti, tra cui, secondo il Principe di Biscari anche l’eruzione del 253 e una lapide – rinvenuta dal medesimo nel 1771 presso il complesso monacale dei benedettini relativa ad un ninfeo che qui insisteva – ne ricorderebbe dunque un restauro eseguito. Mancando analisi congiunte su tutto il tracciato che possano gettare un po’ di luce sulla storia passata del monumento non siamo ad oggi in grado di delinearne l’uso nei secoli, si può solo ipotizzare che già in epoca islamica la struttura fosse dimenticata, se all’attento Idrisi ne sfugge la menzione. Bisogna attendere il XVI secolo per averne qualche notizia. Nel 1556 il viceré Juan de Vega ordinò lo smantellamento di un lungo tratto dell’ancora esistente ponte-acquedotto sito nei pressi della città, al fine di ricavarne materiale da costruzione da impiegare nella realizzazione delle mura di Catania, dimezzandone la quantità di archi (da 65 che se ne contavano ad appena 32), e nel 1621 dietro comando del Duca di Carpignano, soprintendente generale alle fortificazioni, nell’ambito di un generale restauro dell’assetto difensivo della città, fece spoliare il monumento insieme ad altri per la realizzazione di una strada pavimentata “con ordinate lastre”, cosa straordinaria per quei tempi, che un divenne luogo di passeggio e svago, dotato di panchine e alberi, in cui i catanesi amavano darsi convegno nel tardo pomeriggio. L’eruzione dell’Etna del 1669 contribuì infine a interrare le uniche arcate superstiti presso Catania, lasciandone appena qualche porzione svettante tra le lave, in quelle che agli inizi del Novecento erano le proprietà Borzì-Sulmona (oggi presso via Grassi). Ulteriori danni fecero il terremoto del Val di Noto del 1693 e l’incuria, nonché il cambio di destinazione d’uso e la cementificazione selvaggia. Durante la seconda guerra mondiale alcuni tratti sono sfruttati dalla popolazione locale per sfuggire ai bombardamenti alleati, mentre solo dal 1997 è in atto un continuo lavoro di comprensione e ricerca della struttura la cui finalità è la catalogazione, il restauro e la preservazione.Dell’edificio originario purtroppo non rimangono molte tracce, tuttavia sulla base di queste e sulle descrizioni passate possiamo avere un quadro generale del monumento.Il tracciato dell’acquedotto percorreva circa 24 km da Santa Maria di Licodia a 400 m.s.l.m. fino a Catania, presso il convento benedettino di San Nicola, coinvolgendo cinque territori comunali. A Licodia esistono quattro diverse sorgenti che venivano incanalate in un grande serbatoio (la Botte dell’acqua), di cui ci permane solo una documentazione da parte dell’Houel. Questa struttura, una grande camera a base quadrata divisa da una parete centrale e con copertura a botte, intercettava l’acqua mediante quattro bocche per poi direzionarla ad uno specus, un canale aperto a est, verso Catania. La conduttura misurava oltre mezzo metro in larghezza e un metro e mezzo in altezza ed era coperta con una volta semicircolare impermeabilizzata all’interno con un fine intonaco costituito da malta, pozzolana e frammenti di terracotta (Opus signinum o cocciopesto). Il materiale usato per il resto dell’acquedotto era quindi la pietra lavica principalmente – sia in roccia glabra per il riempimento che in cocci ben squadrati per la copertura – un composto di malta e pozzolana per fissare i blocchi e isolare il flusso idrico (chiamato in antico emplecton), mattoni in terracotta per gli archi. Il Principe di Biscari descrisse diverse lamine di piombo rinvenute all’interno delle condotte e conservate dall’Amico nel museo dei Benedettini con sede nel loro convento. Queste lamine per l’Amico dovevano ricoprire l’intera struttura, mentre il principe più argutamente ipotizza fossero dei restauri effettuati in antico per chiudere le fessure generate dall’usura; tale restauro potrebbe essere quello menzionato dalla lapide relativa al curatores Q. Maculnius. Dal serbatoio quindi si dipartiva il lungo tragitto del canale che prevedeva salti di quota, vallate, villaggi. Per mantenere costante la pendenza la struttura si presentava ora completamente interrata, ora su un semplice muro di sostegno, mentre dove la conduttura doveva affrontare dislivelli notevoli vennero realizzati ponti-acquedotto su arcate portanti, talora anche su due file sovrapposte. Le uniche analisi effettuate ad oggi sono relative al tratto che interessa quasi esclusivamente il territorio comunale di Paternò e risalgono al 1997. Tale tratto corrisponde a circa il 20% del tracciato originale estendendosi per quasi 5 km. Qui da una quota di terra 369,50 m.s.l.m. si giunge a circa 347,50 m.s.l.m., mentre il livello di scorrimento dell’acqua va da quota 368,00 m.s.l.m. a 349,75 m.s.l.m., determinando una pendenza dello 0,0043. Si è supposta quindi una portata di 0,325 m3/s, pari a 325 litri al secondo, non discordanti con le 46 zappe previste dal Duca di Carcaci o con i 30.000 m3 giornalieri supposti dal Nicolosi. Lungo il percorso non erano infrequenti i putei, pozzi di ispezione usati anche per la manutenzione e la pulizia, di cui ancora se notano numerosi, come pure persistevano diversi castella aquae (o castelli di distribuzione, ossia cisterne di filtraggio e diramazione dell’acqua) segnalati a Licodia, Valcorrente, Misterbianco, Catania. Il castello dell’acqua di Licodia è andato perduto a seguito di lavori di sbancamento, mentre nella località Sciarone Castello di Belpasso rimangono i resti più notevoli; a Misterbianco, contrada Erbe Bianche, doveva pure esservi un castello di distribuzione che invogliava l’acqua al complesso termale in via delle Terme e di cui non restano che esigue tracce; a Catania, a poca distanza dall’attuale Corso Indipendenza, il Biscari identifica una fabbrica quadrata coperta a volta, che mostra essere stata forse una conserva d’acqua e un’altra nella vigna dei Portuesi. Il sistema avrebbe dovuto quindi raggiungere un grande serbatoio non ancora identificato e sito probabilmente sul punto più alto dell’abitato, cioè in vetta al Colle Montevergine e da qui si diramavano i tratti di acquedotto civico destinato alle fontane e terme pubbliche, a residenze private etc. Secondo alcuni autori, tra cui il Ferrara e l’Holm, il grande serbatoio si dovrebbe riconoscere nel grande Ninfeo identificato dal Biscari presso il convento benedettino: non era infrequente infatti che una cisterna venisse monumentalizzata e configurata all’esterno come un grande ninfeo. Tale edificio venne riconosciuto grazie a una lapide incisa su cui era scritto <>. Leggende. Molte porzioni dell’acquedotto, soprattutto quelle a quota terra, si sono ben conservate prevalentemente per il riutilizzo come canale di irrigazione. L’uso di un canale di antica fattura ha fatto nascere diverse tradizioni popolari – non scritte, ma tramandate oralmente – come diverse storie legate alla figura di Sant’Agata. Una di queste racconta come un nobile romano si fosse invaghito della santuzza e per dimostrarle l’immensità del suo amore – non corrisposto, in quanto la fanciulla si era promessa a Dio – fece realizzare in una sola notte un acquedotto che da Licodia sarebbe giunto ai piedi della ragazza. Altre storie locali parlano di storie fantastiche e delicate leggende, fino all’identificazione del lungo canale romano con la saja dô Saracinu.

Da Wikipedia

Foto di Etnanatura, Salvo Nicotra e Francesco Marchese

Sito Etnanatura: Acquedotto Romano

Share Button

Ponte Saraceno

Share Button

23-03-2014 17-52-52«A mettere in comunicazione le varie masse della sponda sinistra del Simeto: Maniaci, Rotolo, Corvo, S. Venera, Bronte, e tre masse con gli abitanti della sponda destra: Bolo, Cesarò, Carbone, Placa Baiana, Troina, Messina, capitale allora del Valdemone e Palermo capitale dell’Isola, il Conte Ruggiero nel 1121 fece costruire il ponte, detto dagli Arabi Càntera, che diede poi il nome alla contrada e lo dedicò alla memoria della madre sua Adelasia, morta in Patti nel 1118. Vi si leggeva questa epigrafe greca, scolpita in pietra calcarea, posta sull’ala destra del ponte, a Nord: “Fu costruito questo ponte per la serenità del glorio­sissimo conte Ruggiero di Calabria e di Sicilia e dei Cristiani aiutatore per l’assoluzione della defunta madre di lui Adelasia regina. 6629, ind. 14 (1121)”. La stessa data un pò geroglifica si legge in un quadrello di pietra lavica nella centinatura del ponte, a mezzodì; e la stessa data leggevasi pure, mi dicevano gli anziani brontesi, nella parete della Chiesa di S. Giorgio, al camposanto, fabbricata da Ruggiero nel suo passaggio da Bronte, come affermano alcune scritture storico-legali, che si conservano nell’archivio comunale di Bronte. La Chiesa ora è stata distrutta a causa del nuovo cimitero e serve da ossario. Una leggenda narra che operai saraceni furono addetti alla fabbricazione del ponte; che un saraceno, piantatosi colle gambe sulle rive opposte del fiume, abbia indicato il sito, ove esso doveva sorgere. Nella fantasia popolare: saraceno era sinonimo di gigante. Il Dio Termine però dava spesso occasione a litigi; e odi feroci fervevano nei petti dei confinanti per l’eterna lotta del mio e del tuo. Di quest’odio un ricordo è rimasto nel detto tradizionale dei Brontesi: «Sono come Maniaci e Rapiti» per dire: sono due nemici acerrimi.»

Da B. Radice, Memorie storiche di Bronte

Foto di Concetto Mazzaglia e Salvo Nicotra

Pagine Etnanatura: Ponte Saraceno.

Share Button