Galleria drenante Aci Castello

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08-02-2015 19-08-04Ubicata in area marginale appena a monte di Aci Castello. Si tratta di una galleria drenante di circa 30 metri di lunghezza, larga 1 metro e alta 1,5 metri, scavata nei “pillow lava” e rivestita di blocchi di pietra lavica, tranne i primi due metri dove le pareti sono state intonacate. Il soffitto è fatto con grossi blocchi lavici inclinati e contrapposti a “V” capovolta. Nell’ultimo tratto si divide in due gallerie che planimetricamente disegnano una “U”. Nel tratto finale le pareti non sono state rivestite con i blocchi.

Pagina realizzata in collaborazione con “Cavità antropiche e naturali dell’area di Catania“.

Foto e testo di Filippo Musarra.

Pagina Etnanatura: Galleria drenante Aci Castello.

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Cuba Imbisci

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06-02-2015 19-22-57Nessun dato storico aiuta a collocare cronologicamente il piccolo edificio religioso di contrada Imbischi. La piccola chiesa di contrada Imbischi sorge limitrofa al corso del fiume Alcantara. Tutt’intorno si intravedono resti architettonici reimpiegati in muretti a secco o in edifici rurali. Questo riutilizzo testimonierebbe un’ampia frequentazione dei luoghi ove sorgeva la chiesetta che certamente non giaceva isolata, ma inserita in un contesto abitativo ormai scomparso. L’edificio è orientato ovest/est e possiede una pianta rettangolare. Ad oriente si trova un abside semicircolare con catino emisferico. Il fianco settentrionale è conservato fino all’innesto del soffitto, al contrario di quello meridionale, del quale rimangono solo pochissime assise appena affioranti dall’attuale piano di calpestio. Nessun prospetto si conserva ad occidente.Il piccolo edificio sacro si componeva, all’interno, di un’unica navata, la cui copertura doveva essere probabilmente a volta. All’esterno, le fiancate laterali erano contraffortate e di tali semi pilastri oggi sopravvivono solo quelli settentrionali in numero di tre. Ancora, la lunga parete settentrionale presenta due finestre a forte strombo esterno, internamente caratterizzate da archetti a testa di chiodo. Si tratta di un elemento che, insieme con i contrafforti esterni, accomuna la chiesetta di Imbischi con la Cuba di S. Domenica presso Castiglione. A livello dell’imposta, si possono osservare altre due finestre rettangolari. L’abside è composto da conci di pietra lavica squadrati. La Fronte dell’abside è formata da un ampio arco a tutto sesto composto da blocchi di pietra lavica squadrata non inframmezzata da laterizi e poggiante lateralmente su due pilastrini sormontati da mensole. Non esistono dati certi che permettano una precisa collocazione cronologica della struttura. Si trattava certamente di una chiesa al servizio di una comunità rurale che viveva nei pressi del fiume Alcantara. Attraverso confronti tipologici con alcune strutture consimili, come la vicina Cuba di Castiglione o la basilichetta di Priolo, si potrebbe azzardare una collocazione temporale compresa tra il V/VI e l’VIII sec. d.C. Agli inizi del XX sec. fu Paolo Orsi ad interessarsi di contrada Imbischi [P. Orsi 1907, pp. 496-97] , compiendo alcune esplorazioni preliminari attraverso l’assistente R. Carta, a seguito dei ritrovamenti che oggi compongono la collezione Vagliasindi, esposta al museo di Randazzo. Carta rinvenne numerose sepolture a tegola dislocate per la maggior parte in contrada S. Anastasia (odierna contrada Feudo?) e nella limitrofa contrada Imbischi osservò la basilichetta che venne prontamente fotografata dal fotografo Rizzo (utilizzando presumibilmente una folding a lastre o “ibrida”, cioè con dorso predisposto per lastre o pellicole). Dalla visione delle fotografie Orsi dichiarava le sue preplessità relative alla datazione della chiesa, dubitando se si trattasse di una struttura risalente al periodo bizantino o normanno.
Giuseppe Tropea da medioevosicilia.eu

Pagina Etnanatura: Cuba Imbisci.

Su Etnanatura vedi anche “Le cube“.

Foto di Salvo Nicotra

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Castello di Cassibile

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10-02-2015 19-59-19Poco o nulla si conosce delle origini del Castello della marchesa di Cassibile. Le prime fonti risalgono al XIV secolo. L’area in cui fu costruito il castello, quasi al margine dello sperone roccioso, è stata interamente occupata nel sec. XVIII da una costruzione, di cui resta solo una parte del pianterreno, su cui nel secolo successive fu costruita una villa in stile neoclassico. Queste due fabbriche hanno cancellato o inglobato quanto restava della fortificazione, cosi che niente di essa ci e pervenuto che possa essere riconoscibile, ad eccezione, forse, di una cisterna con collo circolare, la cui vera venne graziosamente inserita nella facciata della villa. Dei blocchi di arenaria squadrati, giacenti nelle vicinanze, potrebbero essere materiali di risulta della distruzione del castello.

Foto di Francesco Marchese

Sentiero Etnanatura: Castello Marchesa di Cassibile.

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M’illumino di meno

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milluminoAnche quest’anno Etnanatura, da sempre sensibile alle problematiche della salvaguardia ambientale, aderisce alla giornata “M’illumino di meno” della trasmissione telefonica Caterpillar, per promuovere un consumo intelligente dell’energia, contro ogni spreco ed abuso. Il 13 Febbraio siamo tutti invitati a spegnere simbolicamente le luci delle nostre case e delle nostre città.

http://caterpillar.blog.rai.it/milluminodimeno/

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Torre dell’Acquafredda

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06-02-2015 18-44-45Definire i lineamenti storici di un edificio di piccole dimensioni all’interno del complesso avvicendarsi degli avvenimenti, che nei secoli hanno caratterizzato e coinvolto l’intero territorio di Randazzo e la Valle dell’Alcantara, risulta alquanto complesso. Si sconosce con esattezza la data di edificazione della torre, presumibilmente innalzata intorno al XVI, secondo quanto è possibile evincere dalla contemporanea feudalizzazione di buona parte dei territori demaniali dell’abitato di Randazzo. La limitrofa contrada S. Anastasia figura già alla fine del XV sec. come possesso dei monasteri di S. Filippo il Grande o di Fragalà e del S. Giorgio di Gesso [D. Ventura 1991, pag. 240]; circa nello stesso periodo la contrada Acquafredda, oggi sita all’interno del territorio di Castiglione, rientra all’interno dei beni feudali della famiglia Lanza, la quale a partire dal XVI sec. detiene la baronia del vicino abitato di Mojo [D. Ventura 1991, pag. 250]. Conferma la progressiva infeudalizzazione di questa importante parte della valle dell’Alcantara un passo dell’opera di Filoteo degli Omodei, che nel 1557 ricorda: “ … E’ la Roccella un castelletto sopra fortissimo monte, del barone di casa Spatafora. E ricevendo questo fiume, lascia nel destro lato un’antica rocca chiamata la torre dell’Acqua fredda, di casa Lanza, dove si vedono alcune rovine…”[A.F. Omodei 1557, pag. 51]. L’ “antica rocca chiamata la torre dell’Acqua Fredda” sembrerebbe corrispondere all’attuale torre, sebbene nella descrizione il Filoteo ecceda negli aggettivi, definendola sia antica, sia rocca, lasciando dunque intendere che si possa trattare di un edificio più grande e di origini sicuramente precedenti al periodo in cui lo storico scriveva. Dei ruderi che l’autore sosteneva di osservare limitrofi all’edificio fortificato, oggi si è persa traccia, fatta eccezione per la vicina basilichetta altomedievale. Filoteo degli Omodei ricorda altri edifici turriti presenti nel territorio circostante : “… Quindi dalla man sinistra (sei miglia tra Randazzo e Castiglione), tra l’Appennino e il Mongibello, vi è un territorio detto della Fede, feudo nominato il Moggio, dove oggi è una torre fondata a tempi nostri da D. Pietro Lanza, baron del Moggio…”[A.F. Omodei 1557, pag. 52-53]. La torre di Pietro Lanza era l’edificio residenziale principale della nobile famiglia, edificato al centro dell’abitato di Mojo e del quale oggi non rimane praticamente nulla, sebbene fosse ancora esistente agli inizi del XX sec. Il paese di Mojo, comunque, ha origini ben più antiche: Edrisi, nel 1150, testimonia l’esistenza di uno castello o borgo fortificato (hisn), “somigliante ad un piccolo casale” e definendolo al-Mudd (Mojo)[M. Amari 1880/81, vol. I pag. 116]. Agli inizi del XIV sec. all’interno del testo arabo Masalik al-Absar [M. Amari 1880/81, vol. I pag. 263] tra le rocche di Sicilia si cita Mojo, che stranamente alla fine dello stesso secolo non esiste più né come località, né come feudo [G.L. Barberi 1888, pag. 127]. Solo nel 1602 risorge come nuovo abitato, avente licentia populandi. Presumibilmente altre torri dovevano trovarsi sparse lungo il territorio di Mojo, tutte edificate in tempi vicini, già a partire dalla fine del XVI sec. Lo scopo di questi edifici doveva essere duplice: certamente di primaria importanza era il controllo continuo dei beni feudali; in secondo luogo tali edifici dovevano essere anche una dimostrazione di forza del potere baronale nei confronti degli abitanti del feudo e, più o meno direttamente, dei possedimenti demaniali dell’abitato di Randazzo. In effetti l’avanzare del latifondo e in generale l’appropriazione di territori un tempo semplicemente beni ecclesiastici o beni demaniali della città di Randazzo inizia nel XV sec. e prosegue inesorabile lungo i sec. XVI e XVII. Fra i feudi baronali, il più esteso risulta quello della “Foresta della Porta vecchia” [D. Ventura 1991, pag. 242], il quale per lungo tempo conserva una straordinaria compattezza territoriale e ai giorni nostri risulterebbe compreso tra i comuni di Bronte, Longi e Tortorici. Il feudo, in principio possesso di Matteo Palizzi e in seguito di Guglielmo Raimondo Moncada, si presenta composto da sette “marcati” e rimane indiviso fino al 1449, anno in cui le famiglie proprietarie dei Paternò e dei Santangelo procedono ad una spartizione. Quattro marcati, le contrade Triairi, Botti, Foresta Vecchia, Mangalaviti, tra Randazzo, Bronte e Longi, finiscono nelle mani dei Santangelo; i rimanenti tre, Cartolari, Barrilla, Acquasanta, insistenti su porzioni di territorio a nord di Randazzo, tra Longi e Tortorici, vanno ai Paternò, i quali finalmente li cederanno nel 1507 a Blasco Lanza, barone di Mojo. Dunque già agli inizi del XVI sec. avviene nei confronti di Randazzo un ideale accerchiamento dei suoi territori demaniali da parte della famiglia Lanza, la quale di anno in anno pare vantare sempre più estesi territori. In questo quadro storico, ove la terra risulta l’unico vero bene per il quale lottare accanitamente, la città regia conserva solo alcuni possedimenti demaniali, che ad oriente confinano con Castiglione, i Lanza e i terreni di proprietà ecclesiastica: principalmente si tratta del territorio di Montelaguardia[D. Ventura 1991, pag. 240 e 245], oggi solo piccolo abitato, ma un tempo probabilmente vantava una superficie più estesa, confinante con Castiglione e col feudo ecclesiastico di S. Anastasia, e di un noccioleto tra la terra di Castiglione e contrada Ianazzo, quest’ultima limitrofa ad Acquafredda e S. Anastasia. La torre di Acquafredda sorge su di un affioramento di roccia lavica lungo la sponda meridionale del fiume Alcantara, in un territorio compreso tra Castiglione e Randazzo. L’edificio è realizzato attraverso una muratura sommaria, composta da pietrame vario, generalmente di origine lavica, non sbozzato e legato insieme da una malta tenace. Solo i cantonali si presentano leggermente rinforzati da alcuni conci di pietra lavica sommariamente squadrati. La struttura possiede una pianta quadrata leggermente irregolare e si divide in due piani: al pian terreno si osserva solo l’ingresso, rivolto a settentrione, largo poco più di m. 0,50, e caratterizzato da strombatura interna. Si accede al primo piano per mezzo di una scala interna lignea, un tempo presumibilmente mobile, ai giorni nostri sostituita da una permanente. Questo secondo piano si distingue per la presenza di quattro ampie finestre quadrangolari, ciascuna delle quali rivolta verso uno dei punti cardinali: le finestre di meridione e occidente risultano murate. Inoltre si può osservare la presenza, poste ai lati dei finestroni, di alcune saettiere, che possiedono una strombatura non molto accentuata. Tali saettiere sono in realtà cieche, poiché il loro necessario sbocco esterno è stato del tutto ostruito, causa i pesanti rifacimenti esterni che nei secoli hanno afflitto la torre. La copertura della struttura è a doppio spiovente, composto da tegole disposte alla maniera “laconica”. Inoltre il tetto è arricchito da una merlatura a coda di rondine decorativa posta similmente ad acroteri: quattro merli sono angolari, due centrali. Inoltre essi si impiantano sulle tegole di copertura, elemento che farebbe pensare ad un’aggiunta successiva di questi elementi architettonici. L’intero corpo di fabbrica pur possedendo unità edilizia, è, comunque, il frutto di alcuni rifacimenti e rimaneggiamenti attuati in epoche successive. La torre sembra, infatti, aver subito adattamenti nella funzionalità abitativa di volta in volta simili, ma non identici. Per prima cosa l’ingresso, composto da bei conci di pietra lavica, si presenta sorretto da un architrave basaltico e monolitico, poggiante a sua volta a sinistra su di un concio di pietra lavica avente verso l’interno una sagomatura ad arco di cerchio; a destra, in realtà doveva esservi la medesima soluzione architettonica, adesso perduta e semplicemente sostituita in malo modo da alcuni laterizi sovrapposti. Poco al di sopra dell’architrave si osserva un’ampia parte mancante della muratura, presumiblmente causata dall’asportazione di un oggetto, quale un tempo poteva essere il blasone della famiglia Lanza. Varcato l’angusto ingresso, si trova un vano quadrangolare privo di finestre o aperture. Risalta solo la soluzione per la divisione dei due piani, operata per mezzo di travi e assi di legno che compongono i pavimento del piano superiore. Si tratta di una soluzione edilizia certamente recente, ma che potrebbe rispecchiare il sistema originale di divisione dei piani. Quale utilità potesse un tempo avere un vano del tutto chiuso, ove l’unico varco per la luce era la porta d’ingresso? Presumibilmente il pian terreno della torre dell’Acquafredda serviva per stipare derrate alimentari, quali cereali, ortaggi, prodotti della natura in genere, anche uva, visto che ad esempio sia il feudo S. Anastasia, quanto quello limitrofo dell’Acquafredda vennero, tra XV e XVI sec. convertiti alla produzione vitivinicola. Il piano superiore doveva svolgere rudimentali funzioni residenziali e di avvistamento. Le grandi finestre, arricchite da una cornice composta da conci ben squadrati di pietra lavica, vennero probabilmente praticate in seguito, quando le necessità abitative non furono più quelle per la difesa del territorio. Presumibilmente nel medesimo periodo in cui vennero ricavate le finestre, vennero ostruite anche le saettiere, forse non più utili. Le pareti interne di entrambi i piani risultano coperte in maniera uniforme da un intonachino grigiastro, risultato di rifacimento recente, che ha trasformato la torre prima in una sorta di magazzino temporaneo di attrezzi agricoli, in seguito, fino ai giorni nostri, in un rifugio temporaneo per i pastori della zona. L’intera superficie esterna dell’edificio presentava un tempo un rivestimento di colore anch’esso grigiastro, il cui progressivo ed inesorabile disfacimento lascia la nuda muratura della torre all’azione disgregatrice degli agenti atmosferici. In particolar modo il prospetto settentrionale presenta, non lontano dal cantonale di nord-est, una frattura, risultato o di un progressivo cedimento strutturale, o di un terremoto, evento non infrequenti nella zona. Anche la stessa solidità dell’edificio si basa più che nella tecnica edilizia e nello spessore della muratura, non oltre i 0,70/0,80 m., soprattutto nelle fondamenta praticate su di uno sperone di roccia lavica più che mai antico e solido. A tal proposito sorge anche il sospetto che un tempo vi potesse essere un tunnel che principiando alla base della rocca, potesse condurre direttamente all’interno del pian terreno della torre. Questa ipotesi non è verificabile, poiché il pavimento del piano terreno adesso è semplicemente il risultato di uno spesso strato di calce. Si è già accennato a due particolari, che questa sezione si promette di approfondire: l’orografia della zona e la presenza di altre torri simili a quella di contrada Acquafredda. Questa zona della valle dell’Alcantara (media valle) si caratterizza per alcune particolarità, che la distinguono rispetto alle sue porzioni limitrofe al mare (bassa valle) o ai Nebrodi (alta valle). I territori che si distendono a meridione del fiume sono il riultato di centinaia d’anni di lavori per cavare dalla dura e nera roccia vulcanica un terreno fertile atto a colture cerealicole e vitivinicole, oltre a frutteti, uliveti e pochi agrumeti. Si tratta di un territorio mediamente irregolare, ove ogni affioramento di roccia lavica rappresenta un ipotetico punto di osservazione. La torre di Acquafredda sfrutta tale peculiarità, che giustifica la sua limitata altezza, non oltre gli otto metri. Il territorio che si stende lungo la sponda settentrionale del fiume Alcantara, possiede caratteristiche decisamente diverse. Si tratta, infatti, di un terreno prevalentemente argilloso, dove il vigneto spesso cede il passo al frutteto e all’uliveto. Questi luoghi sono immediatamente a ridosso dei Peloritani meridionali, caratterizzati da rilievi di circa 1100/1200 m. s.l.m., adatti maggiormente alla pastorizia, e da zone boschive un tempo di gran lunga più estese. L’Alcantara era ed è il vero spartiacque di due ambienti tangibilmente diversi, poiché un tempo le colate laviche, provenienti dai vulcanetti effimeri prodotti dall’attività magmatica dell’Etna, arrestavano la loro corsa contro il violento fluire delle acque del fiume, raramente valicandolo. Ma la memoria di un grande corso d’acqua in grado di arrestare un altrettanto fiume di fuoco oggi è praticamente scomparsa, giacchè l’alveo dell’Alcantara risulta particolarmente ristretto, causa pesanti attività agricole. Esse infatti hanno progressivamente rosicchiato le sponde per ottenere terreno coltivabile, la cui necessità d’acqua ha causato l’ulteriore prosciugamento del fiume in favore di pesanti attività irrigue. In tale maniera la maestosa Valle versa alla stregua di un gigante ferito, bisognoso di profonde cure, che ne risanino le piaghe ormai infette. Qualora questo monito possa sembrare un’esagerazione, giova osservare che il fiume, un tempo colmo d’acqua in ogni stagione, ha ormai assunto un carattere torrentizio. Tutto questo disfacimento ha origini recenti, meno di cinquant’anni. La ricchezza naturalistica della Valle va di pari passo con quella archeologica ed artistica. Aquafredda non è solo la contrada della torre, ma anche un sito archeologico che nei decenni passati ha restituito numerosi reperti di epoca classica, adesso esposti presso il museo Vagliasindi di Randazzo. Anche le limitrofe contrade S. Anastasia e Imbischi sono ricche di storia e ancora ai giorni nostri restituiscono i ruderi di edifici sacri risalenti ad epoca greco-bizantina. La torre dell’Acquafredda non è isolata. La citata descrizione dell’Omodei lascia intendere l’esistenza di strutture turrite in altri luoghi della baronia Lanza. In effetti non molto distante dall’edificio oggetto di studio, ne sorge un altro, esattamente a est-nord-est. La costruzione risulta poco visibile perché inglobata in strutture più recenti. Questa torre presenta caratteristiche del tutto simili a quelle analizzate per l’Acquafredda, sebbene si presenti decisamente più alta, contando un piano in più. Per il resto, pianta, copertura e merlatura coincidono. Purtroppo per osservare un’altra struttura simile bisogna viaggiare molto attraverso la Valle, in direzione orientale, fino all’attuale abitato di Giardini Naxos. All’interno dell’area archeologica che contiene i resti dell’antica colonia greca di Naxos sorge un’altra torre, detta della Vignazza: essa presenta uguale pianta, uguale copertura, simile altezza e divisione dei piani (tre) sebbene sia assente la merlatura. La torre della Vignazza inoltre conserva integro l’ingresso, largo 0,50 m. circa e sorretto dal caratteristico architrave monolitico in pietra lavica. Purtroppo quest’ultima struttura, dopo svariati decenni di abbandono, è stata oggetto di pesanti restauri, che hanno del tutto nascosto la muratura, coperta sotto uno spesso intonaco grigiastro. E’ evidente che tali torri fossero il risultato di un’idea edilizia comune ed evidentemente di esigenze diffuse tanto nell’entroterra etneo, quanto lungo la costa. Dovevano svolgere una doppia funzione: di vedetta e di luogo ove presumibilmente stipare derrate alimentari. In effetti queste strutture non posseggono affatto caratteritiche simli alle contemporanee torri di Deputazione, la cui edificazione fu il risultato di un piano ben studiato, rivolto alla difesa delle coste siciliane. Al fine di porre in atto un’opera tanto dispendiosa, vennero dalla Toscana due architetti, Camillo Camilliani [C. Camilliani 1877] e Tiburzio Spannocchi [T. Spannocchi 1993]. Il loro compito, di difficile attuazione, fu quello di una lunga ricognizione dei tre litorali dell’Isola, per scoprire luoghi adatti per edificare grandi torri di avvistamento. Esse avevano caratteristiche comuni: base scarpata, all’interno della quale vi stava solitamente una cisterna; primo piano a pianta quadrangolare e segnato da marcapiano; infine terrazza ove solitamente sostava un piccolo cannone. Le torri di Deputazione, infatti, funzionavano come veri e propri fortini, collegati fra loro, ma virtualmente indipendenti: avevano l’importante compito di difendere, anche a colpi di cannone, le coste dai frequenti sbarchi di pirati turchi Dunque caratteristiche diverse rispetto alle torri oggetto di studio. La differenza si spiega in base allo scopo per il quale vennero edificate. La torre dell’Acquafredda non doveva cannoneggiare nessuno, eventualmente avvertire i vicini abitanti delle campagne di possibili pericoli imminenti: incendi, briganti, eventuali pirati, tanto ardimentosi da spingersi cosi in profondità verso l’entroterra. E trattandosi di torri probabilmente private, desta interesse l’identità del progetto: ovunque si trovino edifici del genere, essi presentano sempre caratteristiche comuni. Ciò lascia incuriositi, poiché nel caso di torri private edificate lungo le coste dell’isola, questa identità di progetto non si riscontra. Sia il Camilliani, quanto lo Spannocchi descrivono torri baronali sempre diverse, una a pianta quadrangolare, un’altra a pianta circolare, tutte con dimensioni dissimili. Evidentemente le torri granaio edificate lungo l’Alcantara, nella loro identità strutturale rispondono a particolari esigenze, non ultime quelle prettamente legate alle attività rurali. In ultima analisi si consideri il caso dell’abitato ionico-etneo di Giarre. L’insediamento dovrebbe sorgere intorno alla metà del XVI sec. come centro di raccolta delle derrate alimentari prodotte dalle attività agricole esistenti nella zona. Poco prima dei moti rivoluzionari per l’unità d’Italia, al centro del paese sorgeva una torre. Ai giorni nostri di tale struttura nulla rimane, perché devastata dalla furia popolare del 1848. Fortunatamente dell’edificio turrito esiste una piccola rappresentazione pittorica, operata dalla mano di un pittore acese del settecento: Tuccari. Certamente la pittura stilizza l’antico centro storico di Giarre, ma la torre viene rappresentata similmente a quella dell’Acquafredda o della Vignazza presso Giardini Naxos: si ipotizzano infatti i tre piani, si legge chiaramente la pianta quadrata, la copertura a doppio spiovente e la posizione delle finestre simile a quanto si può osservare nelle strutture ancora esistenti. Pur non avendo una testimonianza architettonica diretta, si può affermare che l’antica torre di Giarre era una torre granaio, del tipo ampiamente esposto in queste pagine. La sua presenza non stupisce, poiché la vocazione dell’abitato fin dalla sua nascita era proprio quella agricola. Si sconosce il numero di tali strutture esistenti o esistite nell’area etnea. Studiarne la presenza e la diffusione potrebbe realmente aiutare la comprensione delle attività economiche e in generale della società siciliana del XVI e XVII sec. Infine, riguardo all’edificazione di tali strutture, non si sottovaluti la possibile influenza della famiglia Lanza, dei cui effettivi possedimenti terrieri, certamente vasti, non possediamo una completa conoscenza.
Giuseppe Tropea da medioevosicilia.eu.

Pagina Etnanatura: Torre Acquafredda.
Foto di Salvo Nicotra

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Il castagno dei cento cavalli ovvero l’Albero Cosmico

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1di Marinella Fiume

Senza il suo clima e il suo humus, la Sicilia non sarebbe la terra dell’eterna primavera, l’Eden perduto. È il clima il vero miracolo che in Sicilia fa nascere gli alberi tra i più grandi del mondo, custodi di magiche truvature che si continuano a cercare senza successo perché la loro formula è custodita da esseri soprannaturali e un po’ capricciosi: “donne di fora”, streghe, gnomi, folletti, spiritelli. Sono vecchi tesori nascosti e incantati di cui la Sicilia è piena e la cui leggenda è fatta risalire da alcuni al periodo delle dominazioni arabe, quando molti nascosero le proprie fortune per timore di esserne derubati. Ma forse truvature sono gli alberi stessi, colonne portanti del cielo, straordinario miracolo della natura e dono degli dèi.

Nel bosco di Carpineto, sul versante orientale del vulcano, in un’area tutelata dal Parco dell’Etna, si trova il “Castagno dei cento cavalli”, uno tra gli alberi più celebri di Sicilia, il più famoso e grande d’Italia, un albero plurimillenario, ubicato in territorio del comune di Sant’Alfio (Ct). Il castagno è nel libro dei Guinness dei primati come l’albero più grande del mondo. Descritto come “naturale maraviglia, che è di stupore ad ognuno, e di decoro a questo Regno”, fu oggetto di uno dei più antichi atti di tutela naturalistica. Diversi botanici concordano sulla sua età: avrebbe dai due ai quattromila anni e potrebbe essere l’albero più antico d’Europa. Uno studio scientifico sul suo DNA dimostrerebbe che esso potrebbe avere la più grande circonferenza del mondo, superiore al celebre grande cipresso del Messico.

Molte leggende tramandano gli anziani del luogo, come quella secondo cui, sotto il Castagno, anticamente, sia stato sepolto un sarcofago pieno di monete d’oro e gioielli da parte di antichi guerrieri datisi alla fuga dopo essere stai sconfitti in una delle tante invasioni avvenute in tempi lontani, truvatura che potrebbe essere portata alla luce recitando una particolare orazione alla mezzanotte di un venerdì diciassette.

Le prime notizie storiche che lo riguardano risalgono al  XVI secolo, mentre nel 1636,  Pietro Carrera da Militello (Ct),  nei  suoi libri Del Mongibello ne descrisse il tronco “maestoso” e disse che l’albero era “capace di ospitare nel suo interno trenta cavalli”.

Dal 1630 questo mitico castagno insieme ai terreni circostanti divenne di proprietà dell’illustre ed antica famiglia santalfiese dei Caltabiano, “Cavalieri della Reale Corona d’Italia” che la ricevettero in concessione dai Vescovi-Conti di Catania, per poi passare a pubblico demanio. Ammirato da molti viaggiatori del Grand Tour, tra essi  Jean  Houël, che fu in Sicilia tra il 1776 e il  1779, lo ritrasse e ne diede questa descrizione nel suo Voyage pittoresque des îsles de Sicile, de Malte et de Lipari: “La sua mole è tanto superiore a quella degli altri alberi, che mai si può esprimere la sensazione provata nel descriverlo. Mi feci inoltre, dai dotti del villaggio raccontare la storia di questo albero, si chiama dei cento cavalli in causa della vasta estensione della sua ombra. Mi dissero come la regina Giovanna recandosi dalla Spagna a Napoli, si fermasse in Sicilia e andasse a visitare l’Etna, accompagnata da tutta la nobiltà di Catania stando a cavallo con essa, come tutto il suo seguito. Essendo sopravvenuto un temporale, essa si rifugiò sotto quest’albero, il cui vasto fogliame bastò per riparare dalla pioggia questa regina e tutti i suoi cavalieri”.

La leggenda popolare, infatti, narra che una regina, con al seguito cento dame e cavalieri, fu sorpresa da un temporale, durante una battuta di caccia, nelle vicinanze dell’albero e proprio sotto i rami trovò riparo con tutto il numeroso seguito. Il temporale continuò fino a sera, così la regina passò sotto le fronde del castagno una notte che per la bella e voluttuosa sovrana e per i suoi cortigiani, i cavalieri al suo seguito, fu notte “d’amore, lussuria e peccato”.

Non si sa bene quale possa essere la regina: secondo alcuni si tratterebbe di Giovanna d’Aragona,  secondo altri ancora  di Giovanna I d’Angiò, che divenne regina di Napoli nel 1343 e la cui storia verrà collegata all’insurrezione del Vespro, divenuta famosa per aver stipulato la pace di Catania del 1347 che pose fine alla seconda fase della sanguinosa guerra dei Novant’anni. Pare, però, che la regina Giovanna d’Angiò,  nota per una certa dissolutezza nelle relazioni amorose, non fu mai in Sicilia. Tuttavia, nelle diverse versioni che della leggenda ne danno gli abitanti del luogo, pare che potrebbe esserne protagonista anche l’imperatrice Isabella d’Inghilterra, terza moglie di Federico II, coi  suoi cento cavalieri.

Ma il maestoso castagno non ha bisogno di leggende, esso stesso è una leggenda e così lo canta in una composizione in dialetto il poeta catanese Giuseppe Borrello (1820-1894):

 

Un pedi di castagna tantu grossu
ca ccu li rami sò forma un paracqua
sutta di cui si riparò di l’acqua,
di fùrmini e saitti
la riggina Giuvanna ccu centu cavaleri,
quannu ppi visitari Mungibeddu
vinni surprisa di lu timpurali.
D’allura si chiamò st’àrvulu
 situatu ‘ntra ‘na valli
lu gran castagnu d’i centu cavalli.
Una pianta di castagno tanto grosso
che con i suoi rami forma un ombrello
sotto il quale si riparò dalla pioggia,
dai fulmini e dalle saette
la regina Giovanna con cento cavalieri,
quando per visitare Mongibello
venne sorpresa dal temporale.
Da allora si chiamò quest’albero
situato entro una valle
il gran castagno dei cento cavalli.

Sotto il profilo emozionale, la vista del castagno evoca Il Canto degli alberi di Hermann Hesse: “Per me gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi… Sono come uomini solitari… Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la loro forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte. Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita”.

L’annoso castagno finisce per diventare l’Albero per antonomasia, l’Albero cosmico. Secondo le più antiche tradizioni dalla mitologia egizia, semitica, cretese, indiana, greca, latina, germanica, celtica, in passato, gli alberi venivano considerati la manifestazione più immediata e concreta della divinità: a essi gli uomini si rivolgevano per chiedere protezione e conforto, intorno alle piante fiorivano miti straordinari, a ciascuna specie, a ogni albero, venivano attribuite virtù e funzioni speciali.

Il filosofo, naturalista, psicanalista, poeta, maestro zen e monaco Jacques Brosse, scomparso nel 2008, che assume l’albero a soggetto di molte opere, nel suo straordinario libro Mitologia degli alberi, scrive: “Fin dall’origine il destino degli uomini fu associato a quello degli alberi con legami talmente stretti e forti che è lecito chiedersi che cosa ne sarà di un’umanità che li ha brutalmente spezzati”. Un’analisi che attraversa epoche e religioni diverse, per restituirci un quadro completo della simbologia e del ruolo degli alberi “dal giardino dell’Eden al legno della Croce”. Oggi, però, gli uomini sembrano aver dimenticato il ruolo fondamentale della natura nella propria esistenza, perciò Brosse conclude: “Nessuna situazione mi pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza, di quella di un’umanità che coesiste con altre specie viventi con le quali non può comunicare”. Un tempo, invece, “la natura stessa aveva un significato che ognuno, nel suo intimo, percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge e si condanna”. Forse per ricordare agli uomini il senso antico della natura, per impedire che la distruggano e si condannino, nel 1965 il castagno fu dichiarato monumento nazionale e dal 2008 è stato riconosciuto dall’Unesco come “Monumento messaggero di pace”.

Pagina Etnanatura: Castagno dei Cento Cavalli.

Foto di Silvio Sorcini.

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L’Etna catasto magico: i diavoli del Gebel

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9_Alessandro Lo PiccoloAbbiamo il piacere e l’onore di pubblicare un intervento della professoressa Marinella Fiume tratto dal suo ultimo libro Sicilia esoterica (Newton Compton 2013). Marinella Fiume  è nata a Noto (Sr), risiede a Fiumefreddo di Sicilia, cittadina di cui è stata sindaco. Laureata in Lettere classiche, insegna nei Licei. E’ presidente dell’Associazione antiracket “C. A. Dalla Chiesa”. Scrive saggi, racconti e romanzi. A nome di tutti gli amici di Etnanatura  ringraziamo la prof.ssa Fiume   per la sua cortese disponibilità.

L’Etna, in dialetto siciliano, Mungibeddu, è un complesso vulcanico originatosi nel Quaternario ed ancora attivo. Il suo nome si fa risalire al greco antico Aἴτνα, che deriva dalla parola greca aitho (bruciare) o dalla parola fenicia attano (fornace), da cui il latino Aetna.

Gli Arabi la chiamavano Jabal al-burkān o Jabal Aṭma Ṣiqilliyya (“vulcano” o “montagna somma della Sicilia”), nome in seguito mutato in Mons Gibel, cioè la montagna due volte (dal latino mons “monte” e dall’arabo Jebel “monte”) proprio per indicarne la maestosità. Ma il termine Mungibeddu rimase di uso comune praticamente fino ai nostri giorni. Secondo un’altra teoria, il nome Mongibello deriverebbe da Mulciber, uno degli epiteti con cui i latini veneravano il dio Vulcano. Le popolazioni etnee chiamano l’Etna a muntagna, la  montagna per antonomasia.

Un’ascesa al cratere è densa di suggestioni. Viaggiatori sulle orme dei tanti che ci precedono alla ricerca degli infiniti  legami di senso tra realtà e immaginario, proprio come viandanti ci guardiamo dentro e indietro, sostiamo e ci inchiniamo a ogni piè sospinto a raccogliere e affardellare significati, echi, emozioni, immagini e parole d’altri, dei molti altri, grandi e meno grandi, scrittori del passato e del presente che nell’Etna e nei suoi luoghi si sono variamente imbattuti, subendone il fascino e immortalandoli. Perché l’Etna, il vulcano più attivo d’Europa, è un “catasto magico”,  un patrimonio di archetipi, miti e leggende stratificato nei secoli su cui si fondano l’immagine simbolica e l’immaginario collettivo dei Siciliani.

I viaggiatori stranieri effettuarono l’ascesa al cratere come un viaggio iniziatico, di formazione, ma anche i boscaioli, i pastori, gli scalpellini, pur inorriditi dalla vorago profunda, la gran voragine che vomita fuoco, e dalla sterminata profondità del cratere, la profunditas incomprehensibilis, hanno dovuto imparare nei secoli a convivere con l’imprevedibile furia della Muntagna, il cui nome significa “l’ardente”.

Per gli scrittori della Grecia classica,  il “mondo dei morti”,  il Tartaro era situato sotto l’Etna.

Il gran mago Virgilio, nell’Eneide, rammenta Encelado che giace “dal fulmine percosso e non estinto sotto questa mole” e, quando sospira, “si scuote il monte e la Trinacria tutta”, mentre nelle Georgiche narra delle officine dei Ciclopi che si danno operosi a far saette “d’ammollato ferro al gran Tonante” e il Vulcano “delle pesanti incudini rimbomba”.

Ovidio, anche lui considerato nel Medio Evo un mago, nella cui villa a Sulmona aveva  un pozzo dentro cui parlava col demonio, racconta nelle Metamorfosi di Tifeo, compagno di Encelado, che esala dalla bocca il fuoco per le caverne ed empie di pomici e di fumo il cielo intorno e tutte le campagne.

La leggenda narra che la Sicilia è sorretta dal gigante Tifeo che, volendo impadronirsi della sede celeste, fu condannato a questo supplizio: con la mano destra sorregge Peloro (Messina), con la sinistra Pachino e Lilibeo (Trapani), mentre l’Etna poggia sulle sue gambe e sulla sua testa. E, quando cerca di liberarsi dal peso delle città e delle grandi montagne, la terra trema.

Chi raccolse ai piedi del Vulcano la tradizione orale e la memoria letteraria, colta e popolare, fu soprattutto lo scrittore etnicolo Santo Calì (1918–1972),  nato e vissuto a Linguaglossa “la bifida”, il cui toponimo è la ripetizione della parola “lingua”, dapprima in italiano e poi in greco. Egli così rievoca il fascino  misterioso di un’ascensione all’Etna: “Fumano la voragine e i vicini crepacci alle insonni fatiche di Vulcano e dei Ciclopi nelle officine bruciate, ma il cratere centrale dorme il sonno del fatale Empedocle… Passano per la mente i pensieri sublimi onde le umane generazioni hanno conosciuto la via del bene e del male, sotto ai suoi piedi dentro la Voragine… è la visione paurosa di un inferno vivo, popolato di mille mostri, intronati dalle minacciose grida di Tifeo, Briareo ed Encelado, ma sopra di te il sole luminoso risplende in una gloria di Paradiso” (Nostalgia del cratere). Dal buio alla luce: il cammino della Gnosi.

Pur nell’incertezza delle fonti -Padri e Dottori della Chiesa e la letteratura popolare-,  anche il medico positivista ed etnografo palermitano Giuseppe Pitrè (1841–1916), nel discutere su quale sia la terra dove vive il diavolo, sostiene che “l’abitazione più celebre dove si pone l’Inferno rimane comunque in Sicilia” e che la credenza  popolare più antica e diffusa afferma che la bocca dell’Inferno è il Mongibello. Tale credenza risale alla tradizione medievale che poneva il regno del demonio dentro i vulcani appunto perché vomitano fiamme infernali, e l’Inferno nel centro della terra, per cui opera del demonio si consideravano terremoti ed eruzioni vulcaniche.

Una spiegazione tradizionale ma controversa è l’origine egiziana della credenza secondo cui i crateri dei vulcani  sono “spiramenta” o “caminos”, porte dell’Inferno. E la leggenda, dalle sponde del Nilo, sarebbe poi passata in Grecia, da lì in Etruria e poi a Roma.

All’inferno di demoni “pagani”, che ci restituiscono le fonti classiche, da Platone ad Aristotele a Seneca, si sovrappone poi l’Inferno cristiano delle fonti che individuano nell’Etna la più ampia e terribile di queste porte: dal vescovo Patrizio, martire sotto Decio, a Minucio Felice (III sec.), a Paciano, vescovo di Barcinone (IV sec.), a Girolamo (V sec.), a Gregorio Magno (VI sec.), ai Padri della Chiesa.

A queste fonti vanno aggiunte le leggende di un ricco patrimonio tramandato oralmente, in parte raccolto dalla viva voce dei contadini e dei pastori etnei da autori come Santo Calì (Leggendario dell’Etna), in parte ancora trasmesso di padre in figlio, quando non completamente scomparso.

Lo studioso Benedetto Radice (Bronte 1854–1931), gran viaggiatore, pubblicista e frequentatore di archivi, in rapporti di amicizia con la grande cultura siciliana del primo ‘900 (Verga, Gentile, Pirandello, Capuana),  scrive che “una leggenda antichissima dell’Egitto narra che i crateri dei vulcani fossero le porte dell’Inferno. All’avvento del Cristianesimo disparvero i tempii a Giove, a Vulcano ad Adrano. La concezione pagana del fuoco eterno tormentatore degli empii si fece cristiana. La filosofica leggenda si confuse con i demoni del Vangelo; la novella religione confermò, consacrò il mito, convertì Tifeo in Lucifero, i Giganti in demoni tormentatori, il fuoco etneo in fuoco infernale, e l’Etna fu detto Umbilicus Inferni”.

Ma chi è il diavolo, principio del male e nemico di Dio per Sant’Agostino e il pensiero cristiano, forza intermedia tra il mondo e la divinità per quello pagano?

Gli etnologi sostengono per lo più che gli dèi pagani, debellati dai santi, subiscano un processo di antropomorfizzazione, finendo col risorgere sotto forma di diavoli. La tradizione popolare che fa del cratere la porta dell’Inferno trasforma in demoni i numi che avevano avuto altari e templi: Giove, Giunone, Diana, Apollo, Mercurio, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al culto che loro era reso e ricompaiono tra le tenebre dell’Inferno cristiano. Ma, privi di quell’accento positivo che la pagana civiltà contadina aveva posto nel fuoco, le eruzioni dell’Etna divennero manifestazioni diaboliche e la distruttività da esse provocata fu interpretata come espiazione di colpe collettive e individuali.

Quello del demonio è infatti un mito a due facce: esso comprende Tifeo e Proserpina, fertilità e distruzione, in quanto l’economia contadina risente del potere benefico, fertilizzante della lava, ma anche del suo potere distruttivo.

Dottori e Padri della Chiesa sono quasi unanimi nel ritenere che i demoni abbiano un corpo, una forma umana gigantesca e mostruosa, che Torquato Tasso dice “strane ed orribili forme”, di una bruttezza spaventosa e ridicola, nella quale il ferino si mescola all’umano, perché il male è grottesco. Anche il Lucifero dell’Inferno dantesco è gigantesco e ampi echi delle descrizioni dei demoni della Divina Commedia giunsero alla letteratura popolare e furono assimilati nell’oralità e nell’iconografia successiva. I contadini vedono il diavolo come il peggior nemico, perciò nelle società agricole come quella siciliana, esso acquista un aspetto teriomorfo, di animale, di fiera, e rappresenta i rischi legati alla terra e al raccolto: malattia o moria del bestiame, siccità, tempesta. E nei Bestiari medievali il diavolo era elencato tra le altre bestie. Ma non c’è forma che questo “Proteo infernale”, tentatore e ingannatore dell’umanità, non possa rivestire all’occorrenza, come dimostrano le Vite dei Santi in cui esso appare in figura di uomini e donne, giovani o vecchi, amici o parenti, o di animali: draghi, serpenti scorpioni, lumache, formiche, volpi, rospi, leoni, pipistrelli, cani.

In Sicilia, il nome del diavolo è tabù, si ha tanto orrore di nominarlo per non evocarne la presenza, che si ricorre ad eufemismi come Chiddu cu li corna, U mmalidittu, L’ancilu niuru, U bruttu bestia, mentre Cìferu, corruzione di Lucifero è sinonimo di grosso serpente. Per esorcizzarlo si recita ancora questa orazione:

 

A lu pizzu di la livedda c’è u nimicu tintaturi quant’è laria la so fiùra fa scantari ogni criatura!E tu chi ci dirrai? Ca cu mia non c’è chi ffariCà lu iornu di Santa Crucidissi milli voti Gèsu. Al bordo dell’avello c’è un nemico tentatore quanto è brutta la sua figura fa spaventare ogni creatura!E tu che gli dirai? Che con me non c’è che fareChè il giorno di Santa Croce

dissi mille volte Gesù.

 

Il diavolo, insomma, è la mitizzazione del male, l’espressione delle conflittualità dell’uomo con le realtà storiche e naturali, del conflitto Uomo-Natura, Uomo-Storia, e permette così di estraniare gli eventi negativi del reale, proiettandoli in un’illusoria figura mitologica. Ma è anche espressione dei piaceri carnali rimossi dall’etica e dai condizionamenti sociali, del complesso d’Edipo e del desiderio di sfidare il padre, tra emulazione e ostilità (Freud). E, come Dio, è anche un Mito, riflesso dell’inconscio collettivo universale e senza tempo (Jung). Dal punto di vista culturale, esso è il risultato dell’interiezione tra l’immaginario della lunga tradizione teologica (che culmina con la Summa di san Tommaso) e l’immaginario popolare, l’incontro tra il diavolo delle classi colte, che parla il latino ecclesiastico dei preti per soggiogare i contadini, e il diavolo plebeo che parla un linguaggio “mammalucchino” per difendersene e prendersene gioco. I demoni plebei, anzi, sono spesso “poveri diavoli”, fabbri specializzati nella lavorazione del ferro battuto – vanto dell’artigianato siciliano –  che lavorano nelle officine etnee e ogni tanto scendono a valle quando viene commissionato loro qualche lavoretto. Una filastrocca ancora viva in queste vallate così recita:

 

Diavuli c’abbitati a Muncibeddu, scinnìti, ca bbi veni di calata, purtàtivi la ncunia e lu marteddu c’è di buscari na bbona jurnata.  Diavoli che abitate a Mongibello, scendete ché è tutta di discesa, portatevi l’incudine e il martello guadagnerete una buona paga.

In antitesi con la dottrina classica del cristianesimo, accanto alla tradizione teologica e letteraria riguardo Lucifero, si sviluppò, già nei primi tempi di fioritura e di espansione delle dottrine cristiane, una corrente gnostica che interpreta la figura luciferina in chiave salvifica e liberatrice per l’uomo dalla tirannia del Creatore: il serpente Lucifero, etimologicamente dal greco “Portatore di luce”, sarebbe colui che ha indotto l’uomo alla conoscenza, la scientia boni et mali, e dunque alla sua elevazione a divinità, contro la volontà di Dio che avrebbe voluto invece mantenere l’uomo a suo suddito. La sua figura sarebbe accostabile a quella di Prometeo, che rubò agli dei il fuoco per farne dono agli uomini e per questo fu punito.

Tali motivi saranno  ripresi da una lunghissima tradizione gnostica e filosofica fino alla Massoneria, al Rosacrocianesimo, al Romanticismo e poi alla New Age: una cultura teosofica compendiata nel termine “Luciferismo” che ne esalta gli aspetti luminosi. Poiché Dio è Sophìa (Sapienza), il diavolo non poteva essere ignorato nella Kabala. Gli studiosi di mistica ebraica sostengono che il nome del diavolo sia quello di Jehowah letto al contrario, non perché sia Dio, ma in quanto negazione dell’idea stessa di divinità.

Nell’ambito dell’esoterismo e dell’occultismo, Lucifero, il più bello tra gli angeli, sarebbe un detentore di sapienza inaccessibile all’uomo comune. L’originario stato angelico di Satana e dei suoi demoni, la caduta dal Cielo a causa della loro superbia e al loro intento di usurpare Dio e l’introduzione nella storia della morte e del male (fisico, metafisico, morale) sono elementi essenziali del mistero della creazione nella Genesi. Perciò i cultori dell’occultismo vedono nel diavolo una categoria di spiriti  “inferiori” (sia benigni sia maligni), un’espressione di libertà individuale  (Eliphas Levi), e nell’esoterismo il diavolo è forza creativa, ideata per il bene, anche se in grado di servire il male,  in contrapposizione con il Satanismo che identifica Lucifero con Satana e ne venera l’aspetto tenebroso. DianusLucifero sarebbe un dio delle religioni antiche, fratello, figlio e marito  della dea Diana, Signore della Luce e del Mattino, e legato agli antichi misteri del dio etrusco Tinia e agli dei greco-romani Pan, Bacco, Dioniso, Apollo. Dal  dio greco Eosforo  (torcia luminosa di Eos – Aurora), identificato con la Stella del mattino, deriverebbe Lucifer, un’antica divinità romana, rappresentata nei culti sotto l’aspetto agreste-pastorale del signore delle foreste e delle piante, della fertilità, dei raccolti, dei capi di bestiame, ma anche come signore della saggezza e guardiano dei santuari. Sebbene, in definitiva,  le sue vere origini restino misteriose, il diavolo con le corna e le zampe di caprone denuncia una chiara derivazione dal dio Pan. I suoi culti misterici  si manifestavano come riti orgiastico – sessuali caratterizzati da un’ebbrezza indotta sia da bevande alcoliche che da droghe, come i culti di Priapo e quelli fallici. La loro diffusione a Roma è testimoniata dalla “Casa dei misteri” di Pompei e dall’Asino d’oro di Apuleio. Avversati dal Senato romano e poi dal Cristianesimo, i culti bacchici sopravvivono in Sicilia sotto diverse forme. In seguito le “baccanti” divennero streghe e la Chiesa si diede a  combattere il diavolo attraverso l’Inquisizione. Ma, nella iconografia medievale, Baphomet è divenuto simbolo dei maestri del Tempio, il cui volto resta oscuro. Dopo i Templari, molte donne furono condannate come eretiche e blasfeme, adoratrici di Baphomet, demone mostruoso ed ermafrodito, forse mutuato dalla figura di Bacco taurocefalo, ma anche storpiatura di “Maometto” in funzione antislamica.

Marinella Fiume, Da Sicilia esoterica (Newton Compton 2013)

 

Foto di Alessandro Lo Piccolo

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Il fantasma del parco

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ParcoEtnaQuante persone lavorano al parco dell’Etna e quale ruolo ricoprono? Ve lo siete mai chiesto? Dare una risposta è molto facile e ci aiuta a capire il perché di tante anomalie. Ebbene l’ente parco si avvale di:

  • un presidente, la dott.ssa Maria Antonietta Mazzaglia
  • un consiglio direttivo formato da ventidue persone: il presidente, i sindaci o i delegati dei comuni il cui territorio ricade nel parco e il presidente della provincia di Catania
  • sei membri del comitato esecutivo
  • tredici dirigenti
  • due giornalisti
  • sedici funzionari direttivi tecnici e amministrativo/contabili
  • quattro istruttori direttivi
  • un autista
  • dieci collaboratori e operatori
  • e due (non duecento ma due!) guide alpine

Stop. Una struttura amministrativa burocratica formata prevalentemente da capi e sottocapi senza nessuna possibilità di azione diretta e significativa sul territorio.

Inutilmente sul sito dell’ente parco abbiamo cercato i curricula dei dirigenti come invece previsto dalle recenti normative sulla trasparenza.

P.S. Le informazioni riportate sono facilmente consultabili sullo stesso sito del parco alla pagina: http://www.parcoetna.it/Pagina.aspx?p=14

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Crateri eruzione 1991

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20052012 159L’ultima grande eruzione etnea del XX secolo ha inizio nella mattinata del 14 dicembre 1991, quando si aprono alcune fessure eruttive sia sul versante settentrionale del cono del Cratere di Sud-Est (per intenderci, quello che ora viene spesso chiamato “vecchio” per distinguerlo dal nuovo cono, che si è formato durante l’attività parossistica del 2011-2012), sia sul fianco SSE del cono. Una breve ma intensa crisi sismica ha preceduto questa nuova eruzione, che dà luogo ad una vivace attività stromboliana che si esaurirà dopo poche ore, mentre la frattura a SSE continua a propagarsi verso il basso, da una quota di circa 3000 m fino a 2700 m. La parte più alta di questa nuova frattura produce fontane di lava e due piccole colate di lava che avanzano qualche centinaio di metri verso l’orlo occidentale della Valle del Bove; dopo circa 4 ore anche questa attività finisce. Tuttavia, dalla terminazione SSE della fessura eruttiva, il suolo continua a fratturarsi verso valle, e si registra un’intensa attività sismica – segni che annunciano che l’eruzione non è finita, ma deve ancora cominciare davvero. Una nuova fase eruttiva comincia nella notte fra il 14 e il 15 dicembre 1991, con l’apertura di una fessura eruttiva nella parete occidentale della Valle del Bove, a circa 2200 m di quota (ndr Sono questi i crateri che vi invitiamo a visitare). Da una serie di bocche si osserva un’intensa attività stromboliana e l’emissione di voluminose colate di lava, la più importante dalla parte bassa della frattura. La lava comincia a scendere rapidamente verso il fondo della Valle del Bove, nella sua parte meridionale, poi avanza verso est, in direzione del ripido pendio del Salto della Giumenta (quota 1300-1400 m circa), dove la Valle del Bove passa nell’adiacente Val Calanna. Il giorno 24 dicembre, la lava raggiunge il Salto della Giumenta e formando spettacolari cascate, si riversa verso la Val Calanna, la quale viene gradualmente colmata nei giorni successivi, e alla fine di dicembre i fronti lavici più avanzati hanno raggiunto una distanza di 6.5 km dalle bocche eruttive. Durante le prime settimane dell’eruzione, le bocche eruttive poste nella parte alta della fessura attiva mostrano un’intensa attività stromboliana, però a partire da metà gennaio 1992 l’attività esplosiva comincia a diminuire e a marzo continua soltanto l’emissione di lava accompagnato da degassamento.
Da Ingv sezione di Catania

Pagina Etnanatura. Crateri eruzione 1991.

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Servizio adozioni e ricerca animali

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adozioniSul nostro sito e’ nata una nuova sezione per la pubblicazione di annunci riguardanti proposte di adozione e di ricerca di animali scomparsi. Il servizio e’ gratuito.
Per inserire gli annunci bisogna registrarsi a questo indirizzo  e aspettare l’autorizzazione dell’amministratore di Etnanatura che sarà comunicata per email.
Ottenuta l’autorizzazione gli annunci possono essere pubblicati utilizzando l’apposito form di questa pagina.
Gli annunci pubblicati sono visibili a questo link.
Per ogni altra informazione potete scriverci alla nostra email: info@etnanatura.it.
Il software è in versione beta di prova quindi vi saremo grati se vorrete segnalarci delle anomalie e/o dei consigli.

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