Castello di Bolo

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31-05-2014 19-45-45Il Castello di Bolo giace sulla sommità di un’alta collina che domina le circostanti vallate tra Bronte e Troina. Della fortezza rimangono, con grande rammarico, solo pochi ruderi. Tuttavia è possibile ricostruirne parzialmente la pianta: essa è di forma stretta ed allungata ed occupa tutto lo spazio disponibile presso l’angusta sommità dell’altura. Due sostanziosi resti murari lagano l’edifico ad epoca medievale, sebbene sia difficile, nell’attuale stato degli studi, affermare che i ruderi risalagno ad epoca normanna. Le mura sono costruite con pietre malamente sbozzate, legate insieme da malta di discreta qualità. L’equilibrio statico della costruzione è completamente compromesso e frequenti sono i crolli, soprattutto lungo il fianco meridionale del colle, particolarmente scosceso e difficilmente accessibile. La tipologia della fortificazione ricorda, a grandi linee, quella di una fortezza a guardia dei passi, che da Randazzo conducevano e conducono a Troina e viceversa. Del casale, che intorno al castello gravitava, a tutt’oggi non rimane, purtroppo, alcuna traccia. Presso i pochi resti murari ancora esistenti si riconosce la presenza di una cisterna. Il primo accenno dell’esistenza del Casale di Bolo è del 1139, durante la dominazione normanna. Nel 1392 un diploma reale prescriveva che i suoi abitanti dovevano rivolgersi per le loro cause al Capitano Giustiziere di Randazzo. Successivamente, nel 1535, Bolo e Cattaino furono abbandonati dagli abitanti per riunirsi, assieme agli altri casali, e formare un unico popolo in Bronte come ordinato da Carlo V.

Da http://www.icastelli.it/castle-1234881761-castello_di_bolo-it.php

Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Castello di Bolo.

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Castello di Torremuzza

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30-05-2014 17-56-11Nella valle di Bolo, in territorio di Bronte, su di un piccola rocca a strapiombo sull’ansa del fiume di Troina o Serravalle, al centro di un paesaggio particolarmente impervio ma suggestivo, sorge il Castello di Torremuzza, nell’ex feudo e casale di Cattaino. Il complesso fortificato sorge su di un sperone di roccia calcarea accessibile solo da meridione. Agli altri punti cardinali corrispondono pareti a strapiombo difficilmente praticabili. La particolare conformazione rocciosa costringe la fortezza a distendersi su più livelli: in basso trovano posto recenti strutture, composte da ambienti probabilmente residenziali, forse adibiti in epoca recente a celle per i detenuti. Al livello superiore si accede attraverso piccoli gradini ricavati dalla roccia, terminanti in un ingresso angusto un tempo ben protetto da una porta rinforzata, i cui cardini dovevano essere robusti, secondo quanto si può dedurre dai fori scavati nella pietra. L’intenzione è quella di isolare agevolmente il livello inferiore da quello superiore, che si presenta nell’aspetto di un’ampia terrazza non coperta, i cui bassi muri perimetrali sono caratterizzati da numerose feritoie quadrate o circolari. Trattasi di un ampio luogo di osservazione per il territorio circostante, una sorta di ampio terrazzo naturale recintato artificialmente, in grado di trasformarsi, all’occorrenza, in un ridotto fortificato isolato dal resto dello sperone roccioso. Inoltre, su questo terrazzo si distinguono a nord-ovest i resti di una torre, la quale si ritiene (tradizione locale) edificata in una imprecisata epoca della dominazione bizantina in Sicilia. La struttura poggia su di un affioramento di roccia ai margini occidentali della piccola rocca. Dai resti si può dedurre una pianta circolare; la tecnica edilizia si compone di pietre locali non squadrate, unite insieme da malta. Sulla sommità si distingue quel che rimane del piccolo camminamento di ronda, accessibile probabilmente per mezzo di una scaletta elicoidale in pietra, secondo quanto lasciano intendere alcuni fori presenti lungo la parete interna superstite. Nell’insieme l’intero corpo di fabbrica presenta una tecnica costruttiva e un impianto edilizio relativamente recente. Non si posseggono al momento dati storici certi che permettano una sicura datazione, solo ipotizzabile tra il XVII e il XVIII sec. d.C. E’ comunque probabile che la torre sia preesistente, sebbene non vi sia prova alcuna per una datazione ad epoca bizantina. Scheda Compilata da: Dott. Andrea Orlando Si ritiene che la torre del Castello di Torremuzza risalga ad epoca bizantina (VI -VII secolo), con successivi ampliamenti avvenuti durante la dominazione normanna. Il castello fu successivamente ampliato dagli spagnoli ed infine, durante il periodo borbonico, adibita a prigione. Si deve a Benedetto Radice, storico brontese, la più completa ricostruzione storica relativa alla contrada. Il luogo sembrerebbe frequentato fin da epoca remota. Pare siano stati rinvenuti, in zona, deposizioni funerarie e sarcofagi databili intorno al III sec. a.C. La prima attestazione documentaria risale alla fine del XIII secolo. Nel 1296 Cattaino risultava feudo, i cui baroni erano gli eredi del giudice Giovanni de Manna. Il censimento dei feudi del 1408 ricordava barone don Nicolò Crisaffi. Durante i decenni successi il feudo passò in mano alla famiglia Sant’Angelo. Fu re Alfonso, nel 1453, a confermare il possesso di Cattaino a Blasco di Sant’Angelo. Durante i decenni successivi, il feudo passò da padre in figlio, finchè nel 1507 giunse in mano della famiglia Lancia. Il castello, la cui data di fondazione è sconosciuta, venne utilizzato come luogo di reclusione già nel 1501, quando vi fu internato tale Antonio Spitaleri, secondo sentenza del capitano di Randazzo. La contrada venne probabilmente abbandonata in relazione alla fondazione della città di Bronte. Il castello, tuttavia, continuò ad essere in uso in qualità di carcere forse fino ai moti rivoluzionari legati all’unità d’Italia.

Da http://www.icastelli.it/castle-1234884985-castello_di_torremuzza-it.php

Foto ed info di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Castello di Torremuzza.

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Castello di Poira

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22-12-2012 09-08-50Sulla cima di una dolce collina che sovrasta la valle del Simeto si trova il castello della baronessa Poira. Antica possente masseria i cui resti, malgrado il triste degrado, testimoniano l’imponenza di un tempo. La facciata dirupata permette una lettura degli ambienti interni tutti funzionali alla vita contadina di una nobile famiglia. Intorno i resti di ceramica castellucciana testimoniano una frequentazione dei luoghi già dalla prima età del bronzo. Recenti scavi archeologici fanno pensare anche alla presenza di una civiltà in qualche modo “imparentata” con i greci. Poco distante la grotta degli schiavi, forse un antico  Ergastulum romano, cioè il luogo in cui gli schiavi trovavano rifugio nella notte dopo il lavoro.

Sito Etnanatura: Castello di Poira.

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Castello Ursino

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12-03-2014 08-46-23Tra la fine del 1239 e l’inizio del 1240, Federico II di Svevia dà il via alla costruzione del Castello Ursino, affidata al “praepositus aedificiorum” Riccardo da Lentini. Con una lettera datata 24 Novembre 1239, l’imperatore invitava i catanesi a versare una somma di duecento once in oro per la costruzione del castello ed i lavori iniziarono da lì a breve, incalzati da una possibile rivolta cittadina. La costruzione del Castello Ursino faceva parte di un ampio progetto di fortificazione avviato già negli anni precedenti nella Sicilia orientale da Federico II. Nonostante le difficoltà economiche imponessero in quegli anni l’interruzione dei lavori in gran parte degli altri castelli siciliani, il castrum catanese fu costruito in breve tempo su di un promontorio che si affacciava sul mare ma che dominava altresì il centro urbano. Non più isolata roccaforte, ma vera “struttura” urbana a presidio della città, in relazione con la sua configurazione ed il suo sviluppo. Difficile, per chi lo visita oggi, immaginarne l’originaria collocazione strategica. L’eruzione del 1669 modificando il rapporto dell’edificio con il terreno e la sua posizione all’interno del tessuto cittadino ne snatura l’originaria vocazione. La colata lavica lo circondr lasciando pressoché intatta la struttura ma distruggendone la funzionalità militare. Viene alterata anche la visuale del Castello, reso meno imponente dal “livellamento” del terreno. La struttura del Castello esprime gli aspetti essenziali dell’architettura Federiciana: una pianta rigorosamente geometrica definita da un doppio perimetro quadrato con al centro un’ampia corte interna. Una struttura perfettamente regolare e simmetrica che ripete se stessa, segnata da quattro torri angolari e quattro torri mediane, due delle quali ancora esistenti. La storia del Castello Ursino (l’origine del nome è tuttora controversa) è da sempre legata ad accadimenti politici e naturali. Dalla costruzione a oggi è stato quasi costantemente utilizzato. Per tutto il sec. XIII mantenne il carattere di fortezza per poi divenire dimora reale degli Aragonesi (nel Castello fu convocato il primo Parlamento Siciliano) e, più tardi dei Viceré Spagnoli. È stato adibito anche a carcere (nel cortile sono ancora visibili i graffiti dei prigionieri) e utilizzato in seguito come caserma. Restaurato in epoca fascista, dal 1934 il Castello ospita le raccolte civiche in cui sono presenti le sezioni archeologiche Medievale, Rinascimentale e Moderna. Nel 1988 inizia il restauro volto a recuperare alla città di Catania un monumento di inestimabile valore del suo patrimonio storico e culturale.
Comune di Catania

Foto di Etnanatura e Salvo Nicotra

Pagina Etnanatura: Castello Ursino.

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Il Fortino

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26-03-2014 08-15-54Il Fortino venne realizzato sulle lave del 1669 ancora calde a breve distanza dalle vecchie mura di città rovinate dall’eruzione. La struttura venne chiamato “Fortino” dalla popolazione per l’aspetto di un piccolo castello che aveva il complesso. Nel 1672 per la porta che controllava il passaggio da sud-ovest vi passò il viceré Claudio Lamoral Principe di Ligne e da allora si chiama Porta di Ligne. La struttura venne chiamata in seguito “Fortino Vecchio”, per distinguerlo dalla nuova fabbrica della Porta Ferdinandea (o porta Garibaldi), chiamata ancora oggi “Fortino”.
Sito Etnanatura: Fortino.

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Torre Rossa

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06-05-2014 23-04-22Nel patrimonio assai esiguo vantato dall’architettura funeraria a carattere monumentale nella Sicilia antica, un posto di rilievo va dato all’edificio turriforme di età romana che si conserva, in cattivo stato, ma con caratteri formali e costruttivi di notevole interesse, a poca distanza dall’abitato di Fiumefreddo.
Negata in buona parte alla vista, la cosiddetta Torre Rossa si erge in un terreno in lieve declivio piantato ad agrumeto, a ovest dell’abitato, prossimo all’omonimo e periferico quartiere che si dispone a ridosso della Statale 120. La costruzione ha forma di un blocco parallelepipedo la cui regolarità è assai compromessa da una secolare opera demolitoria che ha soprattutto corroso la parte inferiore, e deriva il suo nome dall’interessante parametro murario in mattoni di terracotta, la cui patina è ancora evidente malgrado i diversi depositi terrosi, le diffuse incrostazioni, l’azione degli agenti meteorici.
Attualmente la torre affiora da un lato (quello che guarda a est verso la costa) per un’altezza di circa otto metri; trovandosi esattamente allineata con un basso muretto di terrazzamento, sul quale inoltre è ospitato un moderno canale per la distribuzione dell’acqua d’irrigazione, risulta ulteriormente interrata sugli altri tre fronti di circa un metro. Sul fronte a valle, il notevole asporto distruttivo di muratura risulta compensato dalla tarda costruzione (XVII-XVIII secolo) di un muro di grossa sezione che ha avuto come scopo la chiusura della camera interna per usi contadini e la necessaria opera di consolidamento. In questo si apre un varco, in passato provvisto d’infisso ligneo, da cui si può ben vedere in basso il vano semiipogeo. Il prospetto Nord risulta alquanto regolare, con la maggior parte del paramento ben conservata; in basso, una trincea di scavo rivela l’esistenza di due gradini che ne profilano la base e che valgono dunque a stabilire l’antico piano di posa. I prospetti affacciati a oriente e mezzogiorno sono quelli che hanno maggiormente sofferto danni. Nel primo un muretto contadino chiude in parte la vasta breccia aperta sul sacello funerario, mentre la zona di coronamento rivela un crollo o, forse, i segni del tentativo di abbattimento. L’angolo e il conseguente quarto lato si dimostrano ampiamente disfatti avendo perso buona parte della sezione più esterna che chiudeva parte della rampa di scale ottenuta nello spessore murario. La tessitura dei mattoni che riveste l’esterno presenta un preciso, elegante ricorso di elementi in cotto alternati per spessore; nello zoccolo di base, notevolmente guastato, si osservano alcuni tratti dell’accurata esecuzione di modanature attraverso l’impiego di blocchi smussati, la particolare disposizione dei lembi rialzati di embrici, la giacitura di sottili mattoni variamente sporgenti.

L’ambiente coperto che si trova interiormente è un vano pressoché quadrato (m. 2.65 x 2.70), con pavimento invaso da infiltrazioni e da crolli; su tre pareti si aprono coppie di nicchie rettangolari terminanti ad arco, in bella struttura a vista realizzata con precisi ricorsi di mattoni anche se notevolmente danneggiata e lacunosa. Tra le nicchie (columbaria), un tempo utilizzate per ospitare vasi o urne funerarie, si osservano piccoli incavi “a unghia” per l’alloggiamento di lucerne a olio. Poco più in alto si ha traccia di una cornice ottenuta col progressivo aggetto di laterizi sottili, e su di essa s’imposta la botta a volte, già anch’essa rivestita nell’intradosso con mattoni. La quarta parete non presenta incavi funerari, ma l’eloquente traccia di una scala di accesso; questa sale verso sinistra. Da qui una ripida rampa, dai gradini fortemente erosi o danneggiati, risale parallela al lato meridionale, coperta da una ragguardevole successione di voltine scalari; quindi dal pianerottolo terminale posto in corrispondenza dell’angolo, piega – risultando ormai a cielo aperto – fino a raggiungere il piano sommitale. In quest’ultimo segmento, meglio conservato, i gradini mostrano alzate formate da doppie file alternate di mattoni grossi e sottili, e pedate costituite da uno spessore di regolari blocchetti in arenaria. Dal “terrazzo”, coperto da uno spessore terroso che permette a piccoli cespugli di vegetare, e in cui sono scarsi avanzi di muri diroccati, si percepisce la considerevole altezza dell’edificio.

NOTIZIE STORICHE

Delle origini e delle vicende della Torre Rossa, già poco familiare agli stessi ambienti scientifici, non si hanno documenti significativi. Per alcuni studiosi sarebbe da ritenere quella menzionata nel documento di età normanna relativo alla concessione all’abate Ansgerio della “vicina” chiesa di S. Giovanni da parte del vescovo Giacomo Mannuges (20 maggio 1103), documento confermato dal vescovo Roberto di Messina nel 1106. Non è comunque certo che si tratti del nostro edificio (per quanto nei pressi è stato individuato l’impianto di un antico edificio sacro conosciuto come ‘a crisiazza), anche per la testimonianza di altri scrittori, i quali per l’antica chiesa del Santo Precursore indicano un diverso sito, più vicino alla foce del fiume, ipotesi che meglio giustifica così la successiva assunzione del titolo da parte della più tarda chiesetta esistente presso il noto “Castello degli Schiavi”.
In età feudale se ne riscontra soltanto il riferimento toponomastico; Torrerossa costituisce la denominazione di un feudo e di un piccolo nucleo abitato variamente concessi ai diversi casati nobiliari insieme ad altri possedimenti.
Solo nel XVIII secolo si ha espressa menzione dell’edificio; Anton Giulio Filoteo degli Omodei la ricorda riferendo del “Fiume di Catanzaro, ovvero di Torrerossa per un’antica torre di mattoni, che vi è, ma rovinata”. Jean Houel che trovandosi a Fiumefreddo nel suo secondo viaggio nell’Isola (1776-79) per misurare l’altezza dell’Etna, visitò il monumento, rilevandolo e restituendoci una notevole “veduta prospettiva”, accompagnata da una ricca descrizione e personali considerazioni che si offrono quale preziosa, insostituibile testimonianza. Certo di trovarsi “nel luogo che fu altrimenti occupato dall’antica Naxos” egli ebbe modo di vedere intorno resti di edifici, muri, acquedotti e tombe sparse nella campagna “simili a piccole case voltate”. Egli disegno tra queste unicamente la Torre Rossa “è perché la struttura singolare mi è parso meritare questa attenzione”.
Lo studioso francese scrive: ”La maggior parte degli abitanti di questo luogo, molto mal popolato, si sono insediati sulle rovine degli antichi edifici. La tomba… è un’opera romana di bella esecuzione. E’ rappresentata qui molto degradata; sono i locali che ne hanno tolto i mattoni per frantumarli e farne della malta. E’ così che hanno trattato la maggior parte dei monumenti antichi”. Descrivendola puntualmente, ancora annota: “ Questa tomba sembra essere stata situata nella corte o nei giardini di un antico palazzo, di cui i resti dei muri sussistono ancora nei dintorni”.
La testimonianza dello studioso settecentesco, suffragata da recenti scavi, che hanno portato alla luce ambienti mosaicati di una villa romana, mettono giustamente in relazione la tomba con la ricca residenza suburbana di un latifondista, forse un cittadino di Tauromenium. La successiva utilizzazione quale torre ben si giustifica per lo stato di insicurezza del periodo medievale e dei secoli in cui la Sicilia fu sottoposta alla scorreria dei barbareschi, facendo declinare nel tempo la comprensione dell’originaria funzione.
Il tipo e la struttura del mausoleo, configurano un modello in cui non si conoscono eguali nella regione, anche se documenta in tutto l’Impero, dall’Italia, alla penisola iberica, all’Africa settentrionale e al Medio Oriente. La tecnica di costruzione, che si trova ampiamente diffusa nella zona nord-orientale dell’Isola tra il II e il III secolo (vedi a Taormina il Teatro antico, l’Odeon e la cosiddetta Naumachia, a Centuripe il grande ninfeo di “moda anatolica”, a Catania il relativo impiego del laterizio in alcuni edifici pubblici) si propone quale elemento che permette di datare la torre funeraria alla fine del II secolo d.C., insieme al fatto che dopo tale periodo fu progressivamente abbandonata la pratica della cremazione. La perizia e l’impiego della tecnica della muratura a sacco (emplecton) con paramenti ad opus testaceum, che implica l’esistenza di grandi fornaci per la copiosa domanda e produzione, fa pensare che al tempo esistessero nella zona maestranze di provata esperienza e cantieri ben attrezzati, capaci di una specializzata organizzazione del lavoro per l’edificazione di notevoli strutture, e certamente ben eruditi sul patrimonio di conoscenza che era del mondo in età imperiale.

(Tratto dalla rivista “PALEOKASTRO” n. 14 anno 2004).
Foto di Angelo Tecchese La Spina.

Sito Etnanatura: Torre Rossa.

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Torre del Grifo

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L’undici di Maggio 1537 giorno di Venerdì fu fatta in Mongibello un’altra cruenta nel luogo dimandato le Fontanelle sotto il Monte, che dicono la schiena dell’Asino presso il Zaccano del Rizzo; vicino a quella si apersero più buchi; i quali tutti somministravan fuoco. Dall’una parte l’incendio trascorse infino a Santo Antonio, dall’altra infino alla torre di grifo.

Il Mongibello (1636 pag. 123) descritto da Don Pietro Carrera.

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Il castello della Solicchiata

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30-03-2014 10-13-14Il castello della Solicchiata, di proprietà del barone Antonino Spitaleri, sorge appena pochi chilometri fuori dall’abitato della città di Adrano. Fu eretto intorno al 1875 per volere del barone Spitaleri che intendeva costruire nella contrada Solicchiata un edificio adibito ad uso rurale. Divenne un’importante industria per la produzione del vino, il così detto “Vino della Solicchiata”. L’architettura si rifà allo stile medioevale, il castello è costruito in pietra lavica, circondato da un fossato ed accessibile quindi tramite un ponte levatoio.
Il vino “Castello Solicchiata” è da ricordare come il primo taglio bordolese d’Italia vinificato col metodo francese. Nel 1855 il Barone Felice Spitaleri di Muglia mise a dimora sull’Etna tra gli 800 e i 1.000 metri d’altezza, nel feudo Solicchiata, in ampie terrazze vulcaniche, i vitigni bordolesi Cabernet franc Merlot e Cabernet sauvignon gli stessi che ancora oggi producono questo importante vino. Il Castello Solicchiata ricevette il primo premio all’Esposizione di Londra nel 1888, il Grande Diploma d’Onore e Medaglia d’Oro a Palermo nel 1889, Vienna 1890, Berlino 1892, Bruxelles 1893, Milano 1894 e fu la prima fornitura ufficiale della Real Casa d’Italia. Il Barone Spitaleri ebbe il privilegio di potere innalzare lo stemma reale sul detto castello per il progresso enologico del Regno d’Italia. Il Barone Spitaleri produsse pure i primi Pinot nero d’Italia, la cui base fornì la formula del primo Etna rosso da lui stesso inventato e la produzione nei migliori terroirs dell’Etna del Boschetto Rosso (Pinot nero) e del Sant’Elia (Pinot nero) premiati a Londra nel 1888, Bruxelles 1893, Zurigo 1894. Fu tra i primi produttori di champagne d’Italia, con lo Champagne Etna, ed in assoluto il primo produttore di cognac italiano, con il Cognac Etna.

Info tratte da Wikipedia e dal sito web http://www.castellosolicchiata.it/
Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Castello della Solicchiata.

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Il castello del duca di Misterbianco

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08-03-2014 20-35-33Il Castello Duca di Misterbianco d’impostazione neogotica, fu edificato nel 1930 dal 9° Duca di Misterbianco Vespasiano. E’ situato all’interno dell’area “Oasi del Simeto”, in prossimità della foce del fiume. Attualmente si trova a nord rispetto al percorso del fiume, ma, fino alla metà del 1900 si trovava a sud, poiché il fiume, superato il ponte Primosole, prima di sfociare sul mare Jonio descriveva un’ansa passando più a nord. L’edificio era circondato da ettari di terreno coltivato a vigneti ed agrumeti, dotato di un pozzo per l’approvvigionamento dell’acqua, di una zona termale corredata di piscina e di un colonnato neoclassico. Il piano terra del castello era destinato ad alloggi per la servitù, locali per la lavorazione dei prodotti raccolti nei campi, con un palmento, il frantoio, le scuderie e magazzini deposito. L’accesso avveniva dai cinque archi presenti a sud della struttura. In tale piano si trovavano due scale, una nell’angolo sud-ovest a due rampe che permetteva l’accesso al loggiato posto ai piani superiori e l’altra posta in posizione centrale rispetto al manufatto, che permetteva l’accesso al livello superiore sia in direzione ovest, quindi verso il loggiato, che in direzione est, permettendo l’accesso sulla terrazza con vista sul mare. Dal primo piano, dall’angolo nord-ovest, si elevava una magnifica torre quadrangolare su cinque livelli fuori terra, che costituiva il loggiato dello stabile, mentre nell’angolo sud-ovest vi erano quattro archi a sesto acuto sorretti da colonne e capitelli. La parte centrale del primo piano era adibita al soggiorno della famiglia, con finestre, aperture ad arco e terrazzi che permettevano di vedere la vegetazione circostante ed il mare. Nella parte centrale, si elevava un’altra piccola edificazione costituendo il secondo piano. Le parti sommitali del castello erano tutti coronati da merli. Il castello costituiva la dimora estiva della famiglia Trigona. Rimase in buono stato fino alla terribile battaglia che si combatté tra il 14 e il 17 luglio del 1943 al Ponte Primosole. In quella occasione, il castello fu occupato prima dai tedeschi e dopo dagli inglesi (Royal Artillery) come posto di osservazione. La torre alta 30 metri in posizione dominante, fu distrutta dall’ultima cannonata dei tedeschi alle ore 17 circa e non fece neanche un morto poiché le guardie inglesi erano a consumare il tè pomeridiano.

 

Le origini della famiglia Trigona.

 

La famiglia Trigona trae origini dai duchi “de Monti Chirii in Isvevia” (Germania sud-occidentale) e dal duca Salardo, il cui figlio Coraldo, acquistando il castello e la signoria di Trigona o Trigonna, in Picardia (Francia settentrionale), prese il cognome. Un discendente di Coraldo, Ermanno, valoroso capitano dell’imperatore Federico II di Svevia, ricevette per i servigi offerti al re, diverse ricompense, tra cui, nel 1239 la nomina di governatore di Mistretta. Un discendente di Ermanno, Giacomo, sposandosi nel 1369 con Margherita d’Aragona, figlia di Giacomo, nipote di Pietro d’Aragona II, re di Sicilia, ricevette lo stemma originario con l’aquila nera della Casa Reale d’Aragona. Lo stemma del Casato Trigona raffigura un’aquila nera coronata, recante sul petto uno scudo con incisa una cometa che illumina un triangolo. Da quando fu affidata la Piazza del Castello della città di Mistretta al Capitano Ermanno, la famiglia Trigona entrò a far parte di una casta nobiliare assai nota in quasi tutti i maggiori centri Siciliani, possedendo molti vassallaggi, signorie e feudi.

 

Il ducato di Misterbianco.

 

Nel XVII secolo, Vespasiano Trigona di Piazza Armerina, acquistò il Casale di Misterbianco, dove si trasferiva con la famiglia nei mesi caldi dell’anno. Il figlio Francesco sposò Felicita Paternò Castello, nipote del Principe Agatino Paternò Castello, dalla quale ebbe un figlio, Pietro Domenico. Quest’ultimo, grazie all’influenza della famiglia materna Paternò Castello, ricevette nel 1685 il titolo di Duca di Misterbianco dal re Carlo II di Spagna. Con Pietro Domenico nacque il Ducato di Misterbianco ed i successori furono nell’ordine: Tullio zio di Pietro Domenico, Vespasiano, Mario, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, Alberto, Vespasiano, fino al 10° Duca Alberto nato a Catania il 27.02.1928.

Le foto e le informazioni si devono ad un paziente lavoro di ricerca dell’amico Salvo Nicotra.

Sito Etnanatura: Castello del duca di Misterbianco.

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Bastione degli infetti

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26-03-2014 07-32-51Il bastione degli infetti si trova sulla collina di Montevergine, antica acropoli di Catania.
Già Cicerone, parlando dei furti di Verre, definisce il tempio di Cerere, Che doveva sorgere dove oggi troviamo i resti del Bastione degli infetti come tempio di gran culto. Ecco la citazione di Cicerone:
“Nella parte più interna si trovava un’antichissima statua di Cerere, che le persone di sesso maschile non solo non conoscevano nel suo aspetto fisico, ma di cui ignoravano persino l’esistenza. Infatti a quel sacrario gli uomini non possono accedere: la consuetudine vuole che le celebrazioni dei riti sacri avvenga per mezzo di donne sia maritate che nubili…Esiste un’antica credenza che si fonda su antichissimi documenti e su testimonianze greche, che tutta l’isola siciliana sia consacrata a Cerere e Libera. Non è una profonda persuasione, a tal punto da sembrare insito e connaturato nel loro animo. Infatti credono che queste dee siano nate in quei luoghi e le messi in quella terra per prima siano nate in quella terra per prima siano state scoperte, e che Libera, che chiamano Proserpina, sia stata rapita da un bosco degli Ennesi”.
In seguito il vescovo Leone II detto il Taumaturgo fece distruggere, come ricordano gli Atti Latini, il tempio utilizzando le sue pietre per costruire l’allora Cattedrale di Catania che corrisponde con l’attuale chiesa di sant’Agata la Vetere (vedi).
Le Mura di Carlo V erano un complesso murario che venne fatto realizzare a Catania dall’imperatore Carlo V a difesa della città: esse erano costituite da undici bastioni ed avevano sette porte di accesso alla città. L’incarico della costruzione venne dato all’architetto Antonio Ferramolino all’inizio del XVI secolo ma la costruzione andò avanti con molta lentezza vista la complessità dell’opera. Esse racchiudevano completamente la città del tempo e la difendevano dai pericoli esterni. Ma, prima l’eruzione dell’Etna del 1669 e poi il terremoto del 1693 le rovinarono gravemente, ma la loro scomparsa definitiva si deve al piano di rinnovo urbano del XVIII secolo. Una delle poche testimonianze rimaste è costituita dal Bastione degli infetti costruito nel 1556 ad opera del vicerè Vega.

Accanto ai resti del Bastione degli infetti ritroviamo la Torre del Vescovo. La torre si ritene fondata agli inizi del XIV sec. (1302 d.C.?) ed è parte integrante dell’antica cinta muraria aragonese. Venne acquistata dal vescovo Antonio de Vulpone e trasformata, insieme all’area antistante, in lazzaretto. L’edificio si caratterizza per la pianta quadrata e la tecnica edilizia (non uniforme) costituita da pietrame lavico appena sbozzato, inzeppato con frammenti di terracotta e legato insieme da malta. I cantonali sono rinforzati con blocchi di pietra lavica squadrati. Della torre si conservano solo tre dei quattro muri perimetrali, solo quelli rivolti verso l’esterno della cinta muraria. Si tratta, probabilmente, di un semplice accorgimento architettonico: in caso di assedio e di conquista della cinta muraria, gli attaccanti non avrebbero potuto utilizzare la torre contro la città, essendo essa, in corrispondenza del lato meridionale, esposta al tiro degli arcieri. L’edificio conserva solo le saettiere del primo piano, sebbene sia probabile che esistesse anche una seconda elevazione, oggi del tutto scomparsa. Il pavimento di entrambi i piani doveva essere ligneo. Non si conserva merlatura e la scarpa del pianterreno appare come aggiunta posticcia di tempi relativamente recenti. Nel XVI sec. il lazzaretto si estese, comprendendo oltre alla Torre del Vescovo anche il limitrofo bastione di Carlo V. Il nuovo complesso prese il nome di “Ospedale degli Infetti“» (le notizie sulla torre si devono al sito medioevosicilia.eu).

Sito Etnanatura: Bastione degli infetti.

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