Ipogeo quadrato

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15-07-2014 19-32-24

Il termine Ipogeo, di solito adoperato per identificare una cavità artificiale o naturale,  viene anche utilizzato per identificare un  edificio funebre. l’Ipogeo romano di Catania detto “quadrato” per la sua forma e per distinguerlo dal vicino Mausoleo Modica, a pianta circolare, è  lungo circa 15 metri e largo 12. E’ una tomba di età romana imperiale (I-II sec. d.C.), tra le poche sopravvissute delle vaste necropoli di Catina che occupavano l’area a nord dell’attuale centro storico di Catania. Presenta un ingresso ad ovest cui corrisponde un angusto corridoio che conduce ad un loculo di fronte, a seguito di una scalinata che lo ingombrava per metà; ai due lati corrispondevano due piccole nicchie atte forse a contenere altrettante urne funerarie e aperte all’esterno da strette feritoie, di cui rimane la sola a nord, a seguito della demolizione della parete sud per ricavare la bocca di una fornace per la calce ad uso dell’allora vicino monastero dei Padri Riformati cui apparteneva. Si presenta costruito ad opus incertum e coperto da una volta in mattoni di terracotta. Il Principe di Biscari, sulla base della robustezza della fabbrica e notando i resti di una copertura a volta a botte ne supponeva un secondo piano, verosimilmente a piramide (spinto probabilmente anche dalla considerazione della forma in pianta quasi perfettamente quadrata), così come più tardi confermava il Serradifalco.

Sito Etnanatura: Ipogeo quadrato.

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Morgantina

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10366002_10202995668965207_9096862200376238883_nMorgantina è una antica città sicula e greca, sito archeologico nel territorio di Aidone. La città fu riportata alla luce nell’autunno del 1955 dalla missione archeologica dell’Università di Princeton (Stati Uniti). Gli scavi sinora compiuti consentono di seguire lo sviluppo dell’insediamento per un periodo di circa un millennio, dalla preistoria all’epoca romana. L’area più facilmente visitabile, recintata dalla Sovraintendenza, conserva resti dalla metà del V alla fine del I secolo a.C., il periodo di massimo splendore della città. Da questo sito provengono importantissimi reperti archeologici come la Venere di Morgantina, attualmente custodita presso il museo archeologico di Aidone cui è giunta il 17 marzo 2011 dopo il contenzioso fra Italia e Stati Uniti dove era esposta presso il Getty Museum a Malibu, e il Tesoro di Morgantina, anch’esso restituito. La città antica sorgeva su un ondulato e allungato pianoro, scosceso ai fianchi e culminante nel monte Cittadella (578 m s.l.m.). Posto a sbarramento della valle del Simeto e dei suoi tributari, il sito controllava una vastissima zona, delimitata dalle Madonie e dall’Etna a nord, dal mar Ionio a est, dagli Erei meridionali a sud e a ovest. Si trattava di un passaggio obbligato delle vie di comunicazione tra la costa orientale e l’interno della Sicilia. Ai suoi piedi la fertile pianura del Gornalunga e i ricchi pascoli che lo circondano alle spalle, costituivano un ulteriore vantaggio per l’insediamento. Le più antiche tracce di frequentazione del sito appartengono alla prima età del bronzo (2100 -1600 a.C.), epoca a cui risale un villaggio di capanne circolari e rettangolari che occupò il colle di Cittadella (contrada “Terrazzi di San Francesco”). Il villaggio appartenne alla Cultura di Castelluccio, caratterizzata da un’elementare organizzazione civile, su base tribale, e dal possesso di rudimentali tecniche di artigianato domestico e agricole e alla successiva cultura di Thapsos. Nel sito sono state rinvenute anche ceramiche micenee e submicenee. A partire dal XIV secolo a.C. sino al XI secolo a.C. la popolazione dei Siculi (Sicilia), provenienti dall’Italia centrale, raggiunse in ondate successive la Sicilia orientale, cacciando gli indigeni nella parte occidentale. Secondo la leggenda un gruppo di Morgeti guidato dal mitico re Morges, fondò nel X secolo a.C. la città di Morgantina, sul colle della Cittadella. Per oltre trecento anni i Morgeti occuparono il luogo, integrandosi con le altre popolazioni affini dell’interno e prosperando grazie allo sfruttamento agricolo della vasta pianura del Gornalunga. Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., era iniziata in Sicilia la colonizzazione greca e verso la metà del VI secolo a.C. Greci di origine calcidese giunsero a Morgantina risalendo la valle del Simeto e del suo affluente Gornalunga; si insediarono nella città convivendo abbastanza pacificamente con i precedenti abitanti, come sembra testimoniare la mescolanza di elementi culturali nei corredi funebri. I coloni calcidesi assimilando la religiosità dei Morgeti trasformarono la Dea Madre nelle loro divinità Demetra e Persefone per come testimoniato dai famosi ACROLITI teste marmoree complete di mani e piedi con il corpo composto da materiale deperibile risalenti agli anni 525-510 a.C. La città sembra venisse distrutta una prima volta alla fine del secolo, ad opera del tiranno di Gela, Ippocrate. Nel 459 a.C., la città venne presa e distrutta da Ducezio, condottiero dei Siculi, durante la rivolta contro il dominio greco e fu probabilmente in seguito abbandonata come centro abitato. Dopo la disfatta di Ducezio nel 450 a.C. il territorio di Morgantina passò nell’orbita di Siracusa e fu in seguito ceduto a Camarina nel 424 a.C. in cambio di una somma di denaro. Nel 396 a.C. la città fu conquistato da Dionisio I, tiranno di Siracusa, durante una campagna militare per riportare le comunità dell’interno sotto il suo dominio. Ma la Polis mal sopportava il giogo siracusano tanto che nel 392 a.C. ospitò l’esercito punico guidato da Magone. Nella guerra combattuta in Sicilia fra Dione, l’allievo del grande filosofo Platone, e suo nipote Dionisio II il giovane, Morgantina aderì alla causa del condottiero siracusano per riprendersi la propria autonomia. Intorno al 340 a.C. Timoleonte aveva sconfitto l’esercito punico e si era sbarazzato dei vari tiranni delle Polis: salito al potere si impadronì del territorio e la città venne ricostruita sul pianoro di Serra Orlando: furono edificate le nuove mura e se ne delineò l’assetto urbanistico a schema ortogonale, un nuovo Santuario venne eretto in onore di Demetra e Persefone e fu impiantato l’Ekklesiasterion con il Bouleterion. La popolazione aumentò parecchio con l’arrivo di nuovi coloni dalla Grecia. Agatocle chiedendo ed ottenendo l’aiuto di 1.200 soldati di Morgantina conquistò, nel 317 a.C., Siracusa e fece realizzare l’agorà di Morgantina. Il massimo splendore fu quindi raggiunto nel III secolo a.C. durante il lungo regno di Gerone II (275-215 a.C.) e la città arrivò a contare circa 10.000 abitanti. Durante la prima guerra punica, Morgantina insieme a tutta la Sicilia orientale sotto Gerone II fu alleata dei Romani. Morto Re Gerone II, durante la seconda guerra punica Morgantina e le altre città siciliane passarono dalla parte dei cartaginesi (Tito Livio): Infatti il giovanissimo Geronimo, nominato Re dal Consiglio dei 15 saggi istituito dal nonno Gerone II, sconfessò l’alleanza con Roma e ricevette alcuni emissari di Annibale il grande (IV Barq) i due fratelli Ippocrate ed Epicide (di origini siracusane). Morto Geronimo a Leontini nel 213 a.C. a Siracusa venne istituita la cosiddetta quarta Repubblica dal Senato ma il potere assoluto era nelle mani di Ippocrate ed Epicide che cercarono di fronteggiare le legioni romane guidate dal Console Claudio Marcello. Morgantina diventata la base operativa della lega siculo-punica si sbarazzò del presidio romano e nella zecca furono coniate parecchie monete della serie SIKELIOTAN. Attraverso le fonti storiche sappiamo che l’esercito punico di Imilcone (mandato da Annibale) e quello siracusano di Ippocrate trovarono rifugio entro le mura fortificate di Morgantina. La città non si arrese neanche dopo la caduta di Siracusa nel 212 a.C. e fu assediata e distrutta nel 211 a.C., da Marco Cornelio Cethego che la consegnò all’ispanico Moerico e ai suoi mercenari ispanici quale premio per avere permesso al Console Claudio Marcello la conquista di Siracusa, difesa da Archimede. Anche la serie di monete di bronzo HISPANORUM coniate durante il dominio di Moerico sono servite agli studiosi per dimostrare la scoperta scientifica come pure i denarii romani emessi prima del 211 a.C. Dopo la conquista romana le mura vennero abbattute e l’abitato si restrinse notevolmente, ma la città continuò a vivere come importante nodo commerciale per la produzione di terrecotte nelle fornaci e soprattutto per la produzione di cereali (grano, orzo), dell’olio e del vino ricavato dalla famosa Vite Murgentina. (Marco Porcio Catone – Columella – Plinio il vecchio). Venne costruito al centro dell’Agorà il Macellum e molti edifici pubblici (Bouleterion-Pritaneo) furono utilizzati dai conquistatori romani come tabernae e termopolium. In breve la Polis venne progressivamente trasformata in un oppidum romano utilizzato dalle varie legioni di passaggio per la Sicilia. Diodoro Siculo ricorda che a Morgantina, che si era anch’essa ribellata come Henna (Enna), venne tenuto prigioniero Euno, capo della rivolta servile del 135 a.C., repressa dalle legioni romane. Anche nella seconda guerra servile, (105-101 a.C.), Morgantina venne assediata dal capo dei ribelli Salvio e forse venne temporaneamente conquistata. Sembra abbia parteggiato per Sesto Pompeo nella sua lotta contro Ottaviano, ma Strabone, poco dopo, la ricorda tra le città scomparse e i dati archeologici confermano che, intorno al 30 a.C., essa venne gradualmente abbandonata. In Sicilia, in quegli anni, subirono il medesimo destino svariate antiche città, ne sono un esempio Abacena e Phoinix. I resti furono individuati per la prima volta alla fine del XIX secolo dall’archeologo Paolo Orsi e inizialmente la città venne identificata con Herbita. Il ritrovamento di alcune monete in bronzo e la concordanza dei dati archeologici con le notizie riportate dalle fonti permisero quindi il riconoscimento con l’antica Morgantina. La zona archeologica occupa un’area di oltre venti ettari. Della città ellenistica restano nell’area recintata notevoli resti: diversi edifici pubblici, per lo più articolati intorno alla piazza dell’Agorà (ginnasio o “stoà nord”), “stoà orientale” e “occidentale”, il pritaneo, l’ekklesiasterion, il duplice “santuario dell’Agorà”, il granaio pubblico, la “Grande Fornace”, il teatro o koilon e il Macello romano e importanti case di abitazione, riccamente ornate da mosaici (case “del Capitello dorico”, “del Mosaico di Ganimede”, “della Cisterna ad arco”, “delle Ante fisse”, “dei Capitelli tuscanici”, “del Magistrato”, e ancora, la “Casa Fontana” e la “Casa sud-est”). Le altre emergenze, pur servite da sentieri, non sono visitabili senza una competente guida. È prevista la realizzazione di un parco con corsi preordinati, pannelli informativi ed attrezzature ricettive turistiche. I numerosi reperti provenienti dagli scavi sono conservati nel Museo di Aidone. A lato di un’ampia strada in acciottolato che costituiva l’asse viario centrale della città, si notano i resti degli edifici pubblici del centro politico ed amministrativo della polis, disposti intorno alla piazza principale o agorà, che occupa un pianoro delimitato da due rilievi ad ovest (più esattamente sud-ovest) e ad est (nord-est), e seguendo il dislivello naturale, è suddivisa in una piazza alta, verso nord (nord-ovest), delimitata da portici (stoài) su tre lati, e una piazza bassa verso sud (sud-est). Sul lato nord l’agorà è limitata da un lungo portico, di circa 90 m identificato come gymnasium (ginnasio), luogo destinato alle attività sportive dei giovani. Sul portico si affacciavano vari ambienti di servizio (spogliatoi e bacini per le abluzioni). Fu realizzato nel III secolo a.C., sotto il regno di Gerone II. Alla sua estremità orientale sono stati rimessi in luce (1982-1984) i resti di una fontana monumentale (ninfeo) a doppia vasca, preceduta da un’ampia scalinata ed ornata con colonne a fregi dorici. Costruita verosimilmente nella seconda metà del III secolo a.C., era dedicata alle Ninfe e fu distrutta violentemente, forse da un terremoto, nel corso degli ultimi anni del I secolo a.C. Sul lato occidentale la piazza era limitata da una serie di botteghe, precedute da un altro lungo portico, le cui tracce sono oggi poco visibili. Sull’opposto lato orientale restano visibili le basi del colonnato del terzo portico (lungo 87 m). L’edificio aveva funzioni polivalenti e poteva essere destinato a sede dell’amministrazione della giustizia popolare, a scuola e a luogo riparato d’incontro per gli affari. Alla sua estremità settentrionale, verso il ginnasio, sono chiaramente riconoscibili gli avanzi di un bouleuterion (luogo di riunione del consiglio cittadino) a pianta bipartita, con all’interno un muro a semicerchio e un podio rettangolare, attorno al quale dovevano essere disposti i seggi dei membri del consiglio. Nella piazza superiore, spostato verso sud e verso est, s’incontra un edificio di epoca romana (prima metà del II secolo a.C., con orientamento divergente da quello degli edifici ellenistici, costituito da un complesso di tredici botteghe d’uguali dimensioni, disposte sui lati nord e sud di un cortile porticato, dotato al centro di un’edicola circolare. Si tratta di un macellum o edificio per mercato, uno dei più antichi conosciuti. Sul lato ovest, ove è l’ingresso, è inglobata un’area sacra greca preesistente, con ampio altare rettangolare. Sul lato sud della piazza superiore il dislivello con l’agorà bassa viene superato per mezzo di una gradinata di forma trapezoidale, lasciata incompleta verso est, che veniva inoltre utilizzata per le riunioni dell’assemblea cittadina (ekklesiasterion) ed è perfettamente integrata nell’insieme urbanistico. È qui che l’assemblea popolare della polis, si riuniva per assumere le più importanti decisioni. La piazza inferiore è fiancheggiata sul lato ovest dal teatro, che si appoggia alle pendici della collina occidentale. In una prima fase, databile alla metà del IV secolo a.C. sembra aver avuto una forma trapezoidale, mentre fu poi rifatto con cavea a ferro di cavallo, tra la fine dello stesso secolo e gli inizi del III secolo a.C., contemporaneamente alla costruzione della scalinata utilizzata come ekklesiasterion, che ne riprende la forma originaria. Due corridoi laterali (pàrodoi) permettono l’accesso all’orchestra (lo spazio entro il quale si muoveva il coro), chiuso dall’edificio scenico. Questo era costituito da un prospetto architettonico fisso, che doveva essere ornato da scenografie mobili sorrette da travi lignee, i cui alloggiamenti sono visibili su un grosso masso squadrato triangolare. Il teatro era dedicato a Dioniso, il cui nome compare sull’alzata di uno dei gradini, formanti la cavea. Questa, con circa quindici gradini suddivisi in più settori era realizzata in modo da consentire un sorprendente effetto acustico, ancor oggi apprezzabile, ed è sostenuta da un robusto muro di contenimento in blocchi accuratamente squadrati. Nei pressi sono visibili i resti di una conduttura d’acqua in elementi di terracotta ad incastro, provvisti di spioncino ellittico. Accanto al teatro e in stretta relazione con esso, in posizione elevata sorgeva il santuario di Demetra e Kore, le due divinità protettrici della città. L’edificio sacro, cui s’accede dal lato occidentale, era costituito da due settori ben distinti, articolati intorno a due cortili. Il settore settentrionale, preceduto da una vasca per le purificazioni ed una stanzetta per le offerte, comprendeva diversi ambienti, attorno all’ampio cortile in acciottolato, destinati alla sosta dei fedeli e alla produzione in loco d’oggetti votivi in terracotta, attestata anche da una ben conservata fornace nell’angolo nord-est. Il settore meridionale, destinato al culto, s’articola attorno ad un grande altare cilindrico, ancora coperto da tracce dell’originario intonaco. Accanto ad esso, circondato da un basso muretto circolare, vi è un bothros o fossa sacra, per libagioni ed offerte alle divinità dell’oltretomba. Al momento dello scavo vi furono rinvenute molte lucerne probabilmente legate al culto in ore notturne, frequente nel caso di divinità ctonie. Il cortile dell’altare era fiancheggiato ad est da un’esedra con sedili, fronteggiata da una seconda più piccola sul lato opposto, destinate probabilmente alle cerimonie del culto. Vi si affaccia anche un piccolo sacello. A sud del santuario è presente un secondo recinto sacro (temenos) ancora a pianta trapezoidale. Sul lato opposto orientale della piazza inferiore, ai piedi della collina, imponenti contrafforti reggono i muri perimetrali di quello che fu il granaio principale della città, costituito da una serie continua di magazzini, dove si raccoglieva la produzione agricola e probabilmente le tasse dovute prima a Siracusa e poi a Roma. All’estremità settentrionale del granaio, è visibile una ben conservata fornace. Una seconda fornace più grande, a forma d’ampio cunicolo, spartito da arcate, è visibile all’angolo sud-est dell’agorà. Essa era destinata alla produzione di terrecotte per l’edilizia (mattoni e tubi per acquedotti). Sul pendici della collina orientale, s’incontra salendo un vasto edificio, dotato di più stanze ed ampio cortile pavimentato in cotto e affacciato sulla sottostante pubblica piazza. Secondo la ricostruzione fattane dagli archeologi si tratta di un prytaneion (pritaneo), luogo destinato al magistrato supremo della città e che ospitava il fuoco sacro. Sono visibili tre grossi conci incavati per alloggiarvi capaci anfore per la conservazione dell’acqua e del vino, e il basamento di un forno domestico, con i mattoni ancora anneriti. Ad est dell’agorà si trova un quartiere residenziale. Proseguendo oltre il pritaneo si trovano in cima alla collina i resti della Casa del Capitello dorico (o Casa del Saluto, per un’iscrizione di benvenuto realizzata sul pavimento), anch’essa affacciata dall’alto sull’agorà. Gli ambienti si articolano simmetricamente ai lati di un peristilio centrale che, oltre a dar luce agli ambienti interni, permetteva la raccolta dell’acqua piovana, convogliandola in due cisterne. Le colonne del peristilio sono realizzate con mattoni appositamente sagomati in forma anulare (tecnica utilizzata per contenere i costi e supplire alla mancanza di pietra adatta localmente). Per i pavimenti fu largamente utilizzato il cocciopesto, ottenuto mescolando cocci di terrecotte al cementizio, abbellito da disegni geometrici realizzati in tessere di pietra bianca. All’angolo sud della collina orientale affiorano i resti della Casa di Ganimede con grande peristilio rettangolare colonne scanalate e capitelli di stile dorico. Sono conservate due piccole stanze, ricostruite dagli archeologi con intonaco dipinto in rosso sulle pareti, tuttora ben conservate, e pavimenti a mosaico, tra i più antichi dell’arte ellenistica in Magna Grecia (III secolo a.C.). Il primo riproduce il ratto di Ganimede ed il secondo un meandro prospettico, preceduto da un riquadro con un nastro annodato e foglie d’edera, simboli della vittoria in una competizione sportiva o letteraria. La dimora, appartenente all’epoca geroniana, venne riutilizzata dopo la presa della città da parte dei Romani e divisa in due parti con un muro che attraversava il peristilio. Sulle pendici dell’opposta collina occidentale, raggiungibile costeggiando i resti delle fortificazioni a sud dell’abitato, si trova un secondo quartiere residenziale, non ancora interamente scavato, che mostra chiare evidenze dell’impianto urbanistico regolare ed ortogonale di Morgantina, articolato su una serie d’isolati d’uguali dimensioni (110 × 37,50 m). Lungo le strade che separano gli isolati correvano stretti canali di drenaggio, per lo smaltimento delle acque piovane. Procedendo da sud verso nord, s’incontra una grande dimora di ben ventiquattro stanze, molto verosimilmente appartenuta ad uno dei governanti della città (da qui il nome di Casa del Magistrato). Vi s’accede da un ampio ingresso sul lungo muro orientale ed è divisa nettamente in due settori: quello privato a nord e quello di rappresentanza a sud. Quest’ultimo si articola sui due lati di un cortile porticato, su cui si affacciano un atrio preceduto da due colonne, con pavimento riccamente decorato, ed una grande sala quadrata con lo spazio sufficiente per nove tricilini, destinata a ricevimenti e banchetti. Uno stretto corridoio a destra dell’atrio immette nella parte privata, ove un secondo peristilio disimpegna le numerose camere che lo circondano. In epoca romana, la casa fu frazionata ed occupata da un vasaio, le cui fornaci, ancora integre, sono visibili all’angolo nord-ovest. Oltre questa casa una grande arteria centrale in acciottolato, larga 6,40 m, con direzione ovest-est, divide il quartiere in due settori. Lungo il suo percorso si incontra per prima la ‘Casa dei Capitelli tuscanici, disposta su più livelli e rimaneggiata nel corso del I secolo a.C., con l’inserimento d’elementi architettonici di tradizione italica. Un cortile delimitato da quattro colonne ne costituiva ad est l’atrio monumentale, mentre un lungo e stretto peristilio la chiudeva ad ovest. Affiancata ad essa è la Casa sud-ovest, articolata attorno ad un peristilio a dodici colonne, sul quale si apre un soggiorno esposto a sud, costituito da un vano centrale di 35 m² e due vani simmetrici laterali, il tutto pavimentato con un raffinato cocciopesto, arricchito da meandri di tessere bianche e da stelle a più colori. L’isolato successivo comprende quattro case, la prima delle quali, detta Casa delle Botteghe, fu trasformata in epoca romana con l’inserimento di più tabernae (negozi), composti da un vano per la vendita ed un retrostante deposito. Segue la Casa del Palmento, che conserva i resti di un locale per la produzione di olio, e quindi la Casa Pappalardo, con peristilio a dodici colonne e splendidi pavimenti a mosaico. Risale alla metà del III secolo a.C. e misurava ben 500 m². Lungo il muro perimetrale est della casa, è visibile l’estremità del canale fognario che serviva tutto l’isolato. L’ultima delle abitazioni portate alla luce in questo settore è la Casa delle quarantaquattro monete d’oro, dove venne rinvenuto un ripostiglio monetale con monete dell’epoca di Filippo II di Macedonia (359-336 a.C., di Alessandro Magno (336-323 a.C.) di Agatocle (304-289 a.C.) di Icetas (287-280 a.C.) di Pirro 280-278 a.C.). Sulla parte più settentrionale della collina si trova un altro isolato, metà del quale è occupato dalla Casa della cisterna ad arco, con ingresso sul lato occidentale e con ambienti dai pavimenti a mosaico articolati attorno a due peristili. La grande sala di soggiorno (tablinium) affacciata sul peristilio meridionale è stata ricostruita per proteggerne l’intonaco dipinto delle pareti ed il mosaico pavimentale; sulla parete occidentale è conservata l’imboccatura di una cisterna, con volta in conci squadrati e vasca in terracotta. Dai resti di una scala si è desunta l’esistenza di un secondo piano, presente in più di una casa di Morgantina. Altre due abitazioni, molto meno lussuose (Casa delle antefisse e Casa sud-est), completano l’isolato, ma i resti allo stato attuale sono poco leggibili. All’ingresso del sito archeologico sono stati collocati alcuni mulini familiari, costituiti da due elementi ad incastro in pietra lavica, moltissimi esemplari dei quali sono stati rinvenuti fra gli arredi delle case d’abitazione. La collina, ad est del pianoro su cui sorge la città, a circa un chilometro, è il sito dell’antica città, distrutta da Ducezio, i cui edifici, non ancora del tutto identificati, occupano i terrazzamenti a nord e ad ovest. Sulla sommità sono i resti di un tempio dalla pianta assai allungata, databile alla seconda metà del VI secolo a.C.. La ripida pendice orientale è occupata da una serie di tombe a camera scavate nella roccia e, in più tratti, sono anche visibili tracce delle mura di fortificazione, costituite da due cortine in pietra, riempite all’interno di terriccio. La monetazione di Morgantina copre un arco di tempo, che s’estende dal V al II secolo a.C., ed è una delle più interessanti delle città del centro della Sicilia, sia per la varietà di tipologia dei coni, sia per l’alto livello artistico dell’incisione. Una piccola litra d’argento (ca. 0,70 g) con una spiga di grano e la scritta MORCAИTINA venne coniata negli anni 465-460 a.C. poco prima della conquista di Ducezio e pare secondo alcuni studiosi che l’effigie raffigurata sia quella del mitico re Morges, un segno indistinguibile per la popolazione in gran parte sicula egemonizzata dai coloni calcidesi. La moneta di bronzo coniata dalla zecca che divenne il simbolo della polis siculo-ellenizzata è quella con Athena elmata con la scritta greca MORGANTINON e il leone che sbrana il cervo, una simbologia che richiama non solo le divinità Demetra e Persefone (vds. Acroliti- Santuario centrale) ma anche il programma politico del condottiero Dione (l’allievo di Platone) che sbarcò in Sicilia con il suo esercito nel 357 a.C. e chiese l’aiuto dei morgantini per combattere il nipote Dionisio il giovane. Si possono identificare tre fasi, una di tipo greco, nel V e nel IV secolo a.C. (MOΡΓANTINΩN), una seconda fase durante la seconda guerra punica con monete siceliote-puniche (SIKELIOTAN) ed una dei mercenari Iberici (HISPANORVM). Le diverse emissioni contrassegnano le tappe fondamentali della storia politica ed economica della città: la città sicula di Ducezio, la rifondazione sotto Timoleonte di Corinto e Agatocle, lo sviluppo urbanistico e la ricchezza sotto Re Gerone II, la resistenza antiromana ai tempi della seconda guerra punica e la conquista romana. Al tempo dell’alleanza siculo-punica, vennero coniate monete con l’iscrizione “dei Sicelioti” (SIKELIOTAN). La metrologia adottata, sino al 213 a.C., è quella propria delle città greche in Sicilia, che utilizzarono come unità di misura la litra, frazionabile in dodici once e corrispondente ad un quarto di dracma. Morgantina è l’unica città interna dell’isola, che abbia emesso un tetradramma durante il periodo di Agatocle (317-289 a.C.), moneta che, per il suo alto valore, testimonia una notevole potenza economica. 
Da Wikipedia. 
Foto di Marina Berretti.

Sito Etnanatura: Morgantina.

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Torrente Saracena

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26-04-2014 17-07-19Il torrente Saracena Nasce dal Monte Solaro (m 1539) dalla confluenza dei torrenti Saracena, Martello e Cutò si forma il Simeto. Essi presentano buone caratteristiche ambientali ed ospitano una fauna ricca e interessante. La Raganella ( Hyla arborea ), piccolo anfibio che si trova spesso sugli alberi o arbusti in prossimità dei corsi d’ acqua, è una specie in forte riduzione. Un discorso simile va fatto per la Testuggine d’ acqua (Emys orbicularis) che si rinviene in alcuni stagni della parte alta del bacino. Tra gli uccelli, di particolare rilievo è la presenza del Merlo acquaiolo ( Cinclus cinclus ); in Europa questo uccello è l’ unico in grado di nuotare. Gli interventi di prelievo dell’ acqua e l’effettuazione delle opere di sistemazione idraulica hanno determinato la sua scomparsa da molti corsi d’ acqua siciliani. Per tale motivo questa specie in Sicilia è inserita nella lista rossa ed è considerata in pericolo. Le acque dei tre torrenti ospitano inoltre moltissime specie di invertebrati acquatici; alcune di esse vivono sempre nell’ ambiente acquatico, mentre altre vi svolgono soltanto una parte del loro ciclo vitale. La presenza di un elevato numero di specie di invertebrati acquatici è indice di una buona qualità ambientale. Molte specie di Plecotteri, Efemerotteri, Tricotteri, Ditteri, Coleotteri, solo per citare alcuni ordini di insetti, si rinvengono nel bacino del Simeto soltanto in questi torrenti o in uno solo di essi. Alcune specie sono endemiche, cioè non si trovano in nessun altro posto, ed addirittura di una famiglia di Tardigradi microscopici invertebrati, è nota la presenza soltanto nel torrente Saracena. I tratti superiori dei tre torrenti, che si sviluppano all’ interno di boschi di faggio, presentano notevole pendenza; le acque limpide scorrono tra grossi massi, molti ricoperti da muschi e si ha un continuo susseguirsi di cascatelle. Procedendo verso valle la faggeta lascia il posto a boschi di querce e, a contatto con il torrente, si ritrova una fascia arbustiva ripale caratterizzata in principal modo da salix purpurea, una delle specie di salici che si trovano lungo il Simeto. Più a valle i tre corsi d’ acqua hanno subito pesanti interventi da parte dell’ uomo che hanno cancellato gli aspetti naturali del torrente. 
di Angelo Abbadessa 
Da http://www.scos.it/Perle/Perle_abb_simeto_05.htm 
Foto di Salvo Nicotra

Pagina Etnanatura: Torrente Saracena.

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Giardino Bellini

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19-02-2014 08-02-05Il nucleo più antico del giardino risale al Settecento ed apparteneva al principe Ignazio Paternò Castello di Biscari, che lo aveva voluto secondo le tipologie di allora con labirinti di siepi, statue e fontane a zampillo di foggia tale da creare giochi d’acqua. In seguito alla morte del principe il giardino decadde progressivamente. Dopo un periodo di trattative, il 29 settembre 1854 il Labirinto venne acquistato dal comune di Catania da Anna Moncada Paternò Castello, discendente dagli eredi del principe. La trasformazione del giardino tuttavia incontrò numerose difficoltà non ultime quelle economiche dato che per renderlo atto all’uso pubblico si dovevano risolvere problemi di acquisto di orti privati adiacenti. Nel 1858 il governo autorizzò il finanziamento dei lavori ma sorsero rivalità tra gli esperti incaricati bloccandone l’esecuzione finché, nel mese di aprile 1863 fu dato incarico di dirigerne l’esecuzione all’architetto Ignazio Landolina (1822-1879). Venne iniziata quindi la trasformazione del giardino privato in giardino pubblico i cui lavori si protrassero fino al 1875. Nel 1875 il comune di Catania acquistò dai Padri domenicani i terreni adiacenti a sud-ovest dell’antico Labirinto, nel 1877 la parte a nord che apparteneva al principe Paternò di Manganelli e l’orto di San Salvatore dai padri Cappuccini. Il 4 ottobre 1877, sotto la nuova direzione dell’ingegnere Filadelfo Fichera (Catania, 1850-1909), iniziarono i lavori di unificazione dei nuovi fondi acquisiti. Questi si curò di rendere più funzionale ed agevole la fruizione dell’area attraverso la risoluzione dei delicati aspetti tecnici dovuti alla morfologia del terreno, mettendo rispettosamente in comunicazione il giardino-labirinto voluto dal Biscari, con i terreni di San Salvatore. Il Fichera – tra i maggiori esperti in materia di ingegneria sanitaria dell’epoca – riuscì ad ovviare alle dette difficoltà attraverso un elegante ed erudito impiego di scalinate, ponticelli e viali, conferendo al Giardino Bellini l’impostazione attuale. Il “viale degli Uomini illustri” ad ovest venne inaugurato nel 1880 con i busti posti su colonne dei personaggi più famosi della storia italiana e catanese, ma già nel 1875 all’inizio del viale era stata posta la statua in bronzo di Giuseppe Mazzini. La villa venne inaugurata il 6 gennaio 1883. Il giardino divenne abituale meta delle famiglie catanesi che vi portavano i bambini a giocare mentre passeggiavano conversando con gli amici. L’ingresso monumentale di via Etnea venne realizzato ed aperto nel 1932 e l’anno dopo, alla sommità dello scalone, nel piazzale soprastante il tunnel di via Sant’Euplio vennero collocate le statue monumentali che rappresentano le arti, opera dello scultore Domenico Maria Lazzaro. Alla fine degli anni cinquanta venne riordinata la zona del tunnel di via Sant’Euplio e quelle adiacenti. In quegli anni venne curato ampiamente l’aspetto floreale ed esperti giardinieri creavano veri e propri disegni ed iscrizioni nelle aiuole delle collinette gemelle. Poco tempo dopo venne incrementato il numero di voliere e di volatili esotici, quindi acquisiti ed allevati anche volatili acquatici come anatre e cigni, il cui habitat era stato attrezzato nelle grandi vasche e fontane di cui il giardino era dotato. Verso il 1960 il giardino divenne anche un piccolo zoo con volatili stanziali in libertà ed animali, come varie specie di scimmie, ed infine anche elefanti.  Una caratteristica, oggi perduta, erano le numerose grotte in pietra lavica al cui interno erano ricavate delle fontane con giochi d’acqua, spesso con pesci rossi nella vasca. La flora è molto varia e presenta delle specie di provenienza subtropicale che si sono acclimatate molto bene. Esistono oltre cento specie diverse nelle quali si distinguono le palme presenti in un numero di varietà fuori dal comune. Molto presenti anche gli alberi di alto fusto come i platani ed enormi ficus magnolia dell’età di centinaia di anni oltre a numerose altre varietà di pini e di alberi sempreverdi.

Da Wikipedia

Sito Etnanatura: Giardino Bellini.

 

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Cuba di Santo Stefano

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20120712 025Coperta di edera e di altra vegetazione spontanea, la cuba di Santo Stefano in Santa Venerina conserva una buona parte della sua struttura muraria. La sua scoperta, nei tempi moderni, appartiene a Stefano Bottari, che pubblicava un testo con la descrizione del rudere nella Rivista di Archeologia Cristiana nel 1944-45. L’ingresso, lascia vedere di quanto sia interrato l’edificio. I muri delle absidi danno un’idea dell’ampiezza del naos. Nel nartece possiamo individuare la volta a botte che copriva i braci laterali. Nonostante il rovinoso stato, la finestra dell’abside est ci suggerisce che la sua forma era una bifora o forse una trifora. Un albero nel nartece, un pezzo di muro in una cornice troppo romantica – sono le espressioni dello stato in cui si trova il monumento. Comunque per avere un’immagine concludente è opportuno procedere alla presentazione della pianta che è stato possibile rilevare in quanto i muri perimetrali a varie altezze sono tutti presenti. L’edificio e composto da due parti: una parte trilobata ed uno spazio rettangolare di dimensioni impressionanti. La parte trilobata costituisce la cella trichora. Una trichora ben conservata è la cuba di Malvagna nella vale dell’Alcantara. Si notano bene le abside e la cupola. La chiesa di Dagala si distingue dalle altre trichore per le sue armoniose proporzioni, con ampie absidi laterali, leggermente più piccole dell’abside centrale. Del tutto particolare è e il nartece molto ampio, diviso in tre parti marcati da volte a botte. Nell’estremità sinistra del nartece c’è una cisterna con parete doppio, è una modifica ulteriore che portò alla chiusura di uno degli ingressi del prospetto. Il lato opposto poteva essere chiuso per necessità funzionali. Durante i lavori di rimozione delle macerie e del pietrame, effettuate da Lojacono, non fu trovato alcun pavimento primitivo, invece fu trovato nella zona centrale del nartece un pozzetto formato da pietre laviche che doveva servire da fonte battesimale. La muratura è fatta con la pietra lavica e calce con l’integrazione di conci di cotto. E’ un tipo di muratura caratteristico per le costruzioni della valle d’Alcantara coeve. Nei muri del nartece erano inserite piccole anforette in posizione verticale e orizontale (con la bocca verso l’esterno). Non è del tutto chiaro la loro funzione. Comunque, la presenza del cotto nella muratura contribuisce a mantenere asciutto le pareti affrescate. La copertura della chiesa comprendeva la cupola sopra il naos e tre volte a botte per il nartece, che segnavano la divisione di questo spazio in tre elementi. Le due volte laterali sono indicate dalla conclusione dei muri in altezza in forma di arco ed una piccola parte della volta rimasta. La volta a botte centrale è più una conclusione logica che un indizio esatto degli elementi strutturali rimasti. L’architetto Lojacono nel studiare il rudere ricostruì l’aspetto originale con due sezioni: una longitudinale che mostra la disposizione degli spazi lungo l’asse della chiesa e altra del nartece che illustra l’articolazione di questo elemento particolare per la chiesa di Dagala. L’aspetto esteriore visto da nord-est da un punto più alto dà un’idea dell’insieme. Non c’è dubbio sull’epoca alla quale ascrivere l’edificio. Si tratta del periodo prearabo, tra la seconda metà del VII secolo e inizio del IX, più probabile verso la fine dell’intervallo indicato. Quanto riguarda il nartece, sono state avanzate ipotesi che sia una aggiunta posteriore del periodo normanno. E possibile, ma poteva benissimo essere contemporaneo con la parte centrale della chiesa, in quanto un nartece, pronao, è un accessorio utile e indispensabile delle chiese bizantine. Le dimensioni sproporzionate del nartece sembrano rispondere a una propensione per sottolineare l’importanza, ma osserviamo che rispondeva a concrete esigenze pratiche. Si nota chiaramente che il nartece e un corpo giustapposto alle pareti delle abside; delle fessure chiare si vedono sulla linea di giunzione tra il nartece e le abside. Il tipo di muratura, pietra lavica di dimensioni diversi legati con la calce e l’aggiunta di cocci di cotto, è la stessa. Il nartece, probabilmente costituisce una aggiunta nei tempi coevi alla costruzione della trichora stessa. Il monastero era con certezza uno basiliano alla data della sua fondazione, dato il periodo di costruzione e la sua forma architettonica. Sembra che era attivo nell’inizio del XII secolo, un secolo di grande fiorire del monachesimo basiliano. Possibilmente venne affrescato come successe a Nunziatella, ma dei colori si è persa qualsiasi traccia per causa della caduta del intonaco. Il rapido declino dei monasteri basiliani dalla fine del XII secolo, favorì il passaggio della chiesa al monastero benedettino che venne ricordato nella “Cronaca” di Nicolò Speciale nell’occasione dell’eruzione dell’Etna del 1284, quando,molto probabile fu abbandonato, forse per sempre.

Da vasilemutu.com

Pagina Etnanatura:  Cuba di Santo Stefano.

 

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Grotta delle Femmine

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27052012 093Nel 2000 a.C. nella Sicilia orientale si insediò un popolo preistorico noto per fattura di alcune ceramiche dalle linee brune su uno sfondo rosso mattone. Paolo Orsi diede a questa cultura il nome di Castelluccio dalla località in cui furono rinvenuti i primi resti. Alla cultura del castelluccio si devono ascrivere anche asce di basalto e di pietra verde e poi di bronzo e l’usanza di seppellire i morti in piccole grotte. Trovare frammenti ceramici riconducibile a una fattura castellucciana nelle zone sommitali dell’Etna come nella grotta delle Femmine aggiunge fascino e leggenda. La grotta è una galleria di scorrimento generata da colate preistoriche e presenta diversi strati di lava incurvati. I raggi solari che penetrano dall’apertura esterna si insinuano nelle gallerie della grotta creando lamine di luce che esaltano i dettagli nel buio circostante.

Sito Etnanatura: Grotta delle Femmine.

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Grotta Cassone

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20100321 021Si tratta di una galleria di scorrimento di notevoli dimensioni sia in lunghezza che in altezza, che si sviluppa in direzione nordovest e sudest. Lungo il tratto a nordovest dell’ingresso la volta e le pareti presentano vari fenomeni di rifusione e si notano le variazioni di portata del flusso lavico. Si notato anche alcuni rotoli incompleti. Il pavimento è costituito da lava scoriacea che in alcuni punti diventa a piccole corde, tale morfologia lo rende leggermente sconnesso. La grotta, in direzione sudest, presenta invece una fisionomia legata ai crolli, dovuti alla costruzione della strada provinciale, ed una difficile percorribilità. All’interno abita una sparuta colonia di pipistrelli.

Da mungibeddu.it

Pagina Etnanatura: Grotta Cassone.

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Grotta dei roditori

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27-01-2013 10-49-15Il sottosuolo di Catania, grazie al sovrapporsi nei millenni di diverse colate laviche, presenta un tesoro di grotte e anfratti che si segnalano per un fascino misterioso.  Queste grotte hanno costituito un sicuro rifugio, dalla preistoria alla seconda guerra mondiale, per gli abitanti del luogo e spesso conservano tesori archeologici non ancora del tutto svelati. Così la grotta dei roditori, nascosta fra le sterpaglie che circondano un moderno campo da tennis, è stata la “truvatura” di frammenti ceramici di età tardo-romana e bizantina  nonché di diversi scheletri di roditori di probabile grossa mole che hanno dato il battesimo all’anfratto. Si tratta di una tipica galleria di scorrimento lavico, dovuta ad un’eruzione preistorica, nella quale si accede attraverso un foro della volta. La cavità è costituita da un primo vasto ambiente di forma ellittica. Alla base delle pareti, sono presenti piccoli rotoli di lava sovrapposti l’uno sull’altro. In direzione Est, si diparte un tunnel in ottimo stato di conservazione, che presenta, oltre alle consuete stalattiti da rifusione, un canale con i due rispettivi argini che dopo alcuni metri di sviluppo diventa una vera e propria cascata di lava solidificata.

Sito Etnanatura: Grotta dei roditori.

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Palazzo Biscari

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28-03-2014 16-50-02Venne realizzato per volere della famiglia Paternò Castello principi di Biscari a partire dalla fine del Seicento e per gran parte del secolo successivo, in seguito al catastrofico terremoto dell’11 gennaio 1693. Il nuovo palazzo venne edificato sulle mura di Catania, costruite per volere dell’imperatore Carlo V nel Cinquecento e che avevano in parte resistito alla furia del terremoto: i Biscari furono una delle poche famiglie aristocratiche della città che ottenne il permesso regio di costruire su di esse.  La parte più antica del palazzo fu costruita per volere di Ignazio, terzo principe di Biscari, che affidò il progetto all’architetto Alonzo Di Benedetto, ma fu il figlio di Ignazio, Vincenzo, succeduto al padre nel 1699, a commissionare la decorazione dei sette splendidi finestroni affacciati sulla marina, opera dello scultore messinese Antonino Amato. Successivamente il palazzo fu modificato per volere di Ignazio Paternò Castello, quinto principe di Biscari, il quale lo fece ampliare verso est su progetto di Girolamo Palazzotto e, successivamente, di Francesco Battaglia. L’edificio venne infine ultimato nel 1763 ed inaugurato con grandiosi festeggiamenti. Al palazzo si accede attraverso un grande portale su via Museo Biscari, che immette nel cortile centrale, adorno di una grande scala a tenaglia. All’interno, si trova il “salone delle feste”, di stile rococò dalla complessa decorazione fatta di specchi stucchi e affreschi dipinti da Matteo Desiderato e Sebastiano Lo Monaco. Il cupolino centrale era usato come alloggiamento dell’orchestra, ed è coperto da un affresco raffigurante la gloria della famiglia Paternò Castello di Biscari. Si accede alla cupola attraverso una scala decorata a stucco (che il principe Ignazio chiamò “a fiocco di nuvola”) all’interno della grande galleria affacciata sulla marina. Tra le altre sale vanno ricordate quella “dei Feudi”, con alle pareti grandi tele rappresentanti i numerosi feudi dei Biscari; gli “appartamenti della principessa”, costruiti da Ignazio V per la moglie, Anna Morso e Bonanno dei principi del PoggioReale, con boiseries di legni intarsiati e pavimenti di marmo di epoca romana; la “galleria degli Uccelli” e la “stanza di don Chisciotte”. Infine particolare importanza riveste il Museo, dove un tempo era raccolta la grande collezione archeologica (oggi in parte al Museo civico del castello Ursino) di Ignazio V, grande studioso, archeologo e amante delle arti in genere. Tra i celebri visitatori del palazzo si ricorda soprattutto lo scrittore Johann Wolfgang Goethe che, nel corso del suo viaggio in Italia, venne ricevuto dal principe di Biscari il 3 maggio 1787, poco dopo la morte del padre Ignazio. Agli inizi del 2008 il palazzo ha fatto da sfondo al videoclip della canzone Violet Hill della band inglese Coldplay.

Da Wikipedia

Foto di Salvo Nicotra

Sito Etnanatura: Palazzo Biscari.

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